XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO C


Ascolta fratello, Dio è molto alto. 
Se tu sali, Egli va più in alto; 
ma se tu ti abbassi, Egli viene a te.

S. Agostino




Dal Vangelo secondo Luca 14,1.7-14. 

Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo. 
Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: 
«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te 
e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. 
Invece quando sei invitato, và a metterti all'ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 
Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». 
Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. 
Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 
e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». 

Il commento

Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone che incontriamo. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Mentre umiliamo e strumentalizziamo gli altri; per scalare i "primi posti" mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.
Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare nelle situazioni che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del "primo posto" ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.
Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l'amore di Dio. Qui, infatti, Egli vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: "«amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte".
Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A «diminuire» agli occhi degli altri, a non cercare quello che non ci spetta, perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci. E' questa l'umiltà autentica che ci fa essere quello che siamo dinanzi a Dio e null'altro. In essa possiamo vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero: allora non ci stupiremo di non essere considerati, che diritto abbiamo per esserlo? Abbiamo giudicato e guardato con malizia il fratello, come pensiamo di essere da lui ascoltato? Ci crediamo superiori agli altri, e questo chi ci è accanto lo percepisce; dalle nostre parole, dagli atteggiamenti, perfino dal modo di guardare e stare seduti, dalla nostra persona trasuda, inconfondibile, l'olezzo del tronfio superbo che sa tutto e umilia il prossimo. Come pretendere che questi non si difenda e non ci rifiuti sbattendoci all'ultimo posto nel suo cuore? 

Per questo il Signore ci invita oggi a percorrere il cammino di conversione che ci accompagna al "banchetto". Questo è anche immagine dell'eucarestia, il culmine del catecumenato: dopo il battesimo e l'unzione con il sacro Crisma, finalmente i neofiti erano introdotti nella celebrazione eucaristica, che, sino a quel momento, era una "arcano", un segreto difeso gelosamente. L'eucarestia era il tesoro più grande, l'anticipo del Cielo che sigillava nei cristiani la certezza della vita eterna, il banchetto dove esserne nutriti per vivere santamente nel mondo; era il talamo nuziale dove si "consumavano" le nozze tra Cristo e la Chiesa, feconde nel generare sempre l'uomo nuovo capace di offrire la vita per i nemici. Non si accedeva a questo banchetto che per la porta stretta del battesimo, dopo aver disceso i gradini che conducevano al fonte. E' di questi che Gesù parla: "umiliarsi" significa scendere ogni giorno la scala che conduce alle acque dove seppellire l'uomo vecchio schiavo della superbia. "Innalzarsi" significa invece cedere alla menzogna secondo la quale, per essere cristiani, occorre salire, scalare con le proprie forze la montagna della santità. E' il trionfo della superbia e il rifiuto della Grazia. Non si può essere cristiani se non dal basso, dall'ultimo posto che ci immerge ogni giorno nella misericordia di Dio. Per questo, immagine della Chiesa, è la peccatrice prostrata ai piedi di Gesù, all'ultimo posto di quel banchetto, dove riceve perdono e vita; come la donna siro-fenicia, consapevole di non essere degna e di non avere alcun diritto, e che proprio per questo si fa audace nell'implorare una briciola del pane, certa che questa è più che sufficiente per ridare la vita.   
Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all'ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti, lasciando che mi prendano in giro? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?
Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.
Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.
Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l'amore che il cuore dell'altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.
Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l'indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l'affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i primi posti” dove non vi è fecondità perché non sono quelli dove donarsi gratuitamente; ai "primi posti" ci si sazia offrendo tutto a se stessi, come in un onanismo spirituale e carnale.

Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.
Attraverso la precarietà - la "morfologia" dell'ultimo posto dove nulla di carnale è certo e assicurato - il Signore ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata. Accogliendo la precarietà dell' "ultimo posto" sperimenteremo la pienezza che nessuno sforzo e nessun "primo posto" sa dare, la gioia autentica e inossidabile di un amore che scavalca le mura del contingente e del tornaconto.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione; come ha fatto Gesù con noi, che ci ha "invitato" quando non avevamo che peccati e ribellioni, non certo qualcosa per contraccambiare. Ma in questo misterioso scambio vi è il Regno di Dio: quando si "invita", cioè quando ci si apre e si accoglie e ci si dona a chi non ci considera, ci giudica e forse ci disprezza, incapace di camminare e vedere, sperimentiamo il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme al fratello l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione», sino a giungere alla nostra, quando saremo "giusti" in virtù della "Giustizia" di Dio, sempre e infinitamente misericordiosa.




APPROFONDIMENTI



XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO C. Commenti Patristici





Nessun commento: