Riccardo di San Vittore. Dal "Trattato sulla Trinità"

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In Dio, bene sommo e assolutamente perfetto, c'è anche la bontà nella forma completa ed eccellente. Ma là dove è la pienezza dì tutto quello che esiste di buono, non può mancare l'amore autentico, supremo. Però, finché uno non vuole bene all'altro così come a sé stesso, questa carità particolare, limitata a sé, dimostra di non aver ancora raggiunto il vertice della dilezione.
Ma come potrebbe una Persona divina amare degnamente un'altra quanto sé stessa se non ci fosse un'altra Persona uguale a lei per nobiltà? Per eguagliare in elevatezza una Persona divina bisogna per forza essere Dio. Perché nella vera divinità ci potesse essere la pienezza dell'amore, era necessario che a una Persona divina ne fosse associata un'altra di eguale dignità, cioè che anch'essa fosse divina.

Ognuno rifletta bene dentro dì sé: in modo indiscutibile riconoscerà che non vi è nulla di meglio dell'amore, niente che dia più gioia. Ce lo insegna proprio la natura e ne facciamo continuamente l'esperienza.
E' chiaro: nella pienezza della bontà autentica non può essere assente il bene ottimale, così come nella felicità perfetta non può mancare quel che soddisfa al massimo grado. In conclusione, la somma felicità esige l'amore.
Tuttavia, perché nel sommo bene arda la carità, bisogna che per forza sia presente chi dia e chi riceva il dono dell'amore. La caratteristica propria della carità, la condizione stessa perché esista, è la risposta totale d'amore da parte di colui che è amato senza frontiere. Non ci può essere festa d'amore se non vi è reciprocità.

L'apice dell'amore autentico sta nel volere che l'altro sia amato come siamo amati noi. Nell'amore scambievole pieno di fuoco nulla è tanto stupendo e anche tanto raro: bramare che colui il quale sopra tutto e tutti tu ami, e dal quale sei amato con la stessa somma misura, ami un altro d'uguale dilezione. La prova della carità completa è il desiderio che sia comunicato ad altri l'amore da cui siamo avvolti. Certamente, per chi ama di tutto cuore e con la stessa intensità desidera essere amato, la gioia perfetta è questa: realizzare quel suo ardente voto di ottenere l'affetto al quale egli aspira. Perciò trapela una carità ancora imperfetta nel rifiuto di rallegrarsi perché ad altri sia partecipata la nostra gioia più cara.
Non poter ammettere comunanza d'amore è segno di evidente meschinità. Ma saperla accettare rivela grande amore. Tuttavia, se questo è già molto, varrà ben di più accogliere gioiosamente di condividere il proprio affetto. Arrivare poi a desiderare questo è il massimo, secondo una graduatoria sempre più eccellente. Diamo allora il massimo a ciò che è massimo, l'ottimo a ciò che è ottimo.

Fin qui abbiamo considerato due esseri legati da reciproco amore. Ma perché la perfezione di ambedue gli amanti sia completa, si esige per la stessa ragione che anche un altro possa condividere l'affetto con cui ognuno dei due è amato. Se non vuoi ciò che richiede la bontà perfetta, come potrai avere la pienezza della bontà? E volere la bontà perfetta senza poterla raggiungere, dove fa approdare la pienezza della potenza? Perciò la conclusione è lampante: la carità al sommo grado, quindi la bontà in pienezza, sono escluse dal rifiuto di chi non vuole o non può associare anche un altro nella sua dilezione o comunicargli la propria gioia più preziosa.
Perciò quelli che sono amati sommamente e meritano di esserlo, devono entrambi reclamare con medesimo desiderio un amico comune ad entrambi, in perfetta concordia. Vedete bene perciò che la compiutezza della carità richiede una trinità di persone, senza di cui la carità non può esistere nella sua pienezza integrale. Così la perfezione totale e assoluta è intimamente connessa con la perfetta carità non meno che con la vera Trinità. Non c'è soltanto pluralità, ma Trinità autentica nella vera Unità e vera Unità nell'autentica Trinità.

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