È il giorno della Via Crucis. Le cui stazioni, oggi, saranno per molti i caselli e gli svincoli autostradali. Questa, ormai, la nostra penitenza: santificare il week-end, accettandone le tribolazioni come sacrificio doveroso allo Spirito del Tempo. L'uniforme casual al posto del vecchio «abito della festa»; le code motorizzate in luogo della processione. «Divertirsi» (cioè, secondo l'etimologia, «volgersi da un'altra parte») a data fissa; intrupparsi nell'esodo anche -soprattutto- in questo ponte di primavera. Ma sì: oggi, venerdì «santo» 1998, potrebbe essere davvero questa la nostra croce, gravata per giunta dall'obbligo correct di sfoggiare sorrisi smaglianti. Croce o no che sia, che cos'ha a che fare con quella croce che qualcuno, oggi, vorrebbe farci commemorare? Con quella alzata (l'elettronica ha aiutato i biblisti nel calcolo) il 7 di aprile dell'anno che fu poi detto «trentesimo dopo Cristo», in una Gerusalemme di cui, un quarantennio dopo, non sarebbe rimasta pietra su pietra, se non quelle di ciò che chiamano «muro del pianto»? Oggi, è forse anche nostro il grido che risuona nei vangeli: «Che c'è tra te e noi, Gesù di Nazareth? Pretendi forse di continuare a tormentarci?» Che abbiamo a che fare, ormai, con questa storia inelegante e truce, fra sangue, sudori, imprecazioni, urla, gemiti, un giorno remoto su una collinetta detta «del teschio», Calvario? Perché qualcuno si ostina a cercare di guastarci la festa -se festa è- pretendendo, a ogni primavera, di farci pensare a una simile vicenda? Domande ben comprensibili. Di certo, non saremo noi a scandalizzarci. Noi che le abbiamo condivise, che non potevamo scorgere uno dei tanti, troppi, crocifissi inchiodati in luoghi incongrui (tribunali, scuole, uffici pubblici) senza sentirci solidali con un Carducci: «Cruciato martire, tu cruci gli uomini/Tu di tristezza l'aër contamini...». Invettive, comunque, ormai anacronistiche, da miscredente ottocentesco. Al rifiuto sanguigno -segno, malgrado tutto, di passione- è succeduta la noia. Se qualcuno proprio vuole, continui con le «settimane sante» che crede. Noi, comunque, come potremmo entrarci? Che importa a noi di questo profeta ebreo finito male, di cui manco sappiamo se e come sia esistito? Se la sua è davvero storia, che ha a che fare con le nostre, personali, quotidiane, di storie? In quel 14 del mese ebraico di Nisan, dopo il furore e il sangue, solo il rumore cupo della gran pietra rotolata a chiudere il sepolcro prestato, per compassione, da Giuseppe l'Arimateo. Mentre le tenebre calano, anche le ultime donne andranno a casa. Comincia il sabato della solitudine nel cimitero e della delusa desolazione nel cuore dei seguaci. È il giorno del silenzio, davanti a una tomba che nessuno (tranne, forse, la madre, Maria) sperava potesse mai scoperchiarsi. È il «sabato santo»: è domani. Quando anche noi, qui -1968 anni dopo- sosteremo a interrogarci se, e come, quel sepolcro possa ancora riguardarci.
Corriere della Sera. 10 aprile 1998
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