IL SACERDOZIO MINISTERIALE IN ALCUNI PADRI DELLA CHIESA

Istanze formative tra Antiochia e Alessandria (II-IV secolo)Enrico dal Covolo


1. Introduzione

In questo contributo mi propongo di illustrare alcuni testi patristici relativi all'identità e alla formazione dei ministri ordinati. Mi limito di necessità a qualche esempio, fra i tanti possibili, riferendomi prima alla "tradizione antiochena" e poi alla "tradizione alessandrina".
Si tratta di una scelta che mette un po' d'ordine nell'esposizione, e che d'altra parte aiuta a superare l'immagine di una "teologia dei Padri" rigida e compatta come un monolite. Di fatto la varietà delle antiche "scuole" di Antiochia, di Alessandria, di Edessa... e delle rispettive radici storico-culturali determina nei testi patristici posizioni e sensibilità differenti.
Sono ben noti gli orientamenti delle antiche tradizioni di Antiochia e di Alessandria.
Da una parte Antiochia sembra incarnare le caratteristiche più evidenti del cosiddetto "materialismo" asiatico, sostenitore della lettera in esegesi e dell'umanità del Figlio in cristologia; mentre Alessandria pare accogliere le due istanze - rispettivamente complementari - dell'allegoria in esegesi e della divinità del Verbo in cristologia.



2. La tradizione antiochena: da Ignazio a Giovanni Crisostomo


2.1. Dalle Lettere di Ignazio (+ 107)Lettere

E' invalso l'uso di considerare Luciano, maestro di Ario, come il capostipite della "scuola" di Antiochia.
Ma già Ignazio nella prima metà del II secolo ne anticipava alcuni tratti caratteristici, soprattutto nello spiccato realismo dei suoi riferimenti all'umanità di Cristo. Egli "è realmente dalla stirpe di Davide", scrive Ignazio agli Smirnesi, "realmente è nato da una vergine..., realmente fu inchiodato per noi".
Ignazio impiega lo stesso realismo anche quando si riferisce alla Chiesa. In particolare egli allude più volte alla gerarchia ecclesiastica, parlando dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi.
"E' bene per voi", scrive agli Efesini, "procedere insieme d'accordo col pensiero del vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro presbiterio, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell'unità, cantiate ad una sola voce". E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non "intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il vescovo", confida a Policarpo: "Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un'armatura".

Complessivamente si può cogliere nelle Lettere di Ignazio una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici dell'esperienza cristiana: senz'altro la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, di cui abbiamo fatto cenno, ma anche l'unità fondamentale che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo.
Di conseguenza, non esiste la possibilità di un'opposizione dei ruoli. Al contrario, l'insistenza sulla comunione e sulla reciprocità dei credenti, continuamente riformulata attraverso immagini e analogie (la cetra, le corde, l'intonazione, il concerto...), appare come il risvolto consapevole della comune identità dei fedeli, a prescindere dal fatto che essi siano ministri ordinati o meno.
D'altra parte, è evidente la responsabilità peculiare dei diaconi, dei presbiteri e dei vescovi nell'edificazione della comunità.
Vale anzitutto per loro l'invito all'amore e all'unità. "Siate una cosa sola", scrive Ignazio ai Magnesi riprendendo la preghiera di Gesù nell'ultima cena: "Un'unica supplica, un'unica mente, un'unica speranza nell'amore... Accorrete tutti a Gesù Cristo come all'unico tempio di Dio, come all'unico altare: egli è uno, e procedendo dall'unico Padre, è rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell'unità".
Ignazio non esplicita le istanze formative in rapporto ai ministri sacri, ma esse non sono per questo meno evidenti. Si veda per esempio il passo della Lettera ai Tralliani nel quale il vescovo, raccogliendo l'insegnamento di Atti 6, spiega con franchezza: "I diaconi, che sono al servizio dei misteri di Gesù Cristo, devono cercare di piacere in ogni maniera a tutti. Essi non sono (semplici) servi di cibi e di bevande, ma sono servitori (hyperetai: letteralmente "rematori") della Chiesa e di Dio. Si guardino perciò da ogni biasimo come dal fuoco".
Si può confrontare utilmente questo passo di Ignazio con l'identikit del diacono che emerge dal racconto degli Atti.
I diaconi, vi si dice, sono uomini "di buona reputazione", o meglio "gente di provata testimonianza" (martyroumenoi: Atti 6,3). Come si può vedere, la parola usata si collega con il termine "martire". Potremmo dire che il diacono deve comunque essere un "martire", nel senso che la testimonianza della sua diaconia non può mai arretrare, a costo - se necessario - della vita stessa. Non a caso Stefano, che è il primo dei "sette", è anche il primo martire. Proprio in questo senso Ignazio intende dire che i diaconi sono radicalmente "servi", incatenati ai banchi dei galeotti, "rematori" della Chiesa e di Dio.
In secondo luogo, stando agli Atti, il diacono dev'essere "pieno di Spirito e di saggezza" (6,3). Si tratta di una saggezza che viene da Dio: è la "sapienza dello Spirito", che chiede profonda intimità con il Signore. Dunque, il servizio della carità - il cosiddetto "servizio delle mense", per il quale i diaconi sono ordinati - presuppone pur sempre il primato della dimensione spirituale nella loro vita.
Per tornare alle parole di Ignazio, essi non sono dei semplici distributori di cibi e di bevande, ma sono al servizio dei misteri di Gesù. Se un ministro non si forma nella contemplazione dei santi misteri di Cristo, sino a raggiungere "l'unità" con lui, non può esercitare il ministero autentico della carità e non "rema", cioè non "spinge avanti" la Chiesa di Dio.


2.2. Giovanni Crisostomo (+ 407)

Trascorro ora a un altro Padre antiocheno, misticamente innamorato del sacerdozio.
Vorrei anzitutto richiamare la figura del Crisostomo come quella di un testimone, di un pastore "colto sulla breccia" del suo ministero.
Mi riferisco per questo alle celebri Omelie su Matteo, e al modo in cui il Crisostomo affrontava pastoralmente problemi scottanti, come quello della ricchezza e della povertà nella comunità cristiana di Antiochia.
Come è noto, le Omelie del Crisostomo Sul vangelo di Matteo costituiscono per noi il più antico commento completo al primo vangelo. Rappresentano altresì una significativa testimonianza di quell'attività omiletica che avrebbe assicurato al Crisostomo il massimo riconoscimento tra gli oratori ecclesiastici. Risalgono agli anni fra il 386 e il 397 - vale a dire tra l'ordinazione sacerdotale in Antiochia e l'elezione alla cattedra patriarcale di Costantinopoli -, periodo in cui il Crisostomo fu chiamato a svolgere diversi incarichi di predicazione nelle più importanti chiese antiochene. Questi incarichi riuscivano particolarmente congeniali a Giovanni che, dopo un'esperienza monastica ed eremitica, aveva abbracciato il sacerdozio per un'irresistibile vocazione pastorale, e che specialmente attraverso la predicazione delle Scritture puntava a realizzare tale vocazione: coerentemente la sua predicazione e la sua esegesi - fedeli ai fondamentali indirizzi della "scuola antiochena" - paiono singolarmente sensibili alle condizioni concrete, ai problemi e alle necessità anche materiali dei destinatari.
In particolare - nell'Antiochia della seconda metà del quarto secolo, dove enormi erano le sperequazioni sociali ed economiche, a causa delle guerre, del latifondismo, del capitalismo, dell'iniquo regime fiscale... - il Crisostomo è continuamente stimolato a trattare i molteplici problemi sollevati dalla compresenza di ricchi e poveri all'interno della comunità: si pensi che nelle sole omelie Sul vangelo di Matteo il tema ricorre non meno di cento volte!

Ebbene, vogliamo ascoltare "il pastore sulla breccia" leggendo qualche passo della sua cinquantesima omelia Sul vangelo di Matteo.
Complessivamente l'omelia commenta la pericope conclusiva di Matteo 14: ma l'estremo versetto del capitolo - dove si legge che gli abitanti di Genesaret portarono a Gesù i loro malati "e lo pregavano di poter toccare almeno l'orlo del suo mantello" (Matteo 14,36) - consente al Crisostomo un ampliamento parenetico sostanzialmente autonomo, che occupa da solo la seconda metà dell'omelia.
L'ampliamento si giustifica grazie al contesto della liturgia eucaristica, in cui l'omelia si colloca: "Tocchiamo anche noi il lembo del suo mantello", invita il Crisostomo; "anzi, se vogliamo, noi abbiamo il Cristo tutto intero. Il suo corpo infatti è ora qui dinanzi a noi". E prosegue: "Credete che anche ora c'è quella mensa, alla quale anche Gesù sedette".
Secondo il Crisostomo, tale certezza di fede interpella in modo decisivo la responsabilità dei fedeli, poiché la partecipazione alla mensa del Signore non consente incoerenze di sorta: "Che nessun Giuda si accosti alla tavola!", esclama l'omileta. E non è un criterio sufficiente di dignità quello di presentarsi alla mensa con vasi d'oro: "Non era d'argento quella mensa, né d'oro il calice dal quale il Cristo diede il suo sangue ai discepoli... Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che egli sia nudo: e non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, per poi tollerare, fuori di qui, che egli stesso muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", ha detto anche: "Mi avete visto affamato, e non mi avete nutrito"; e: "Quello che non avete fatto ad uno di questi piccoli, non l'avete fatto a me". Impariamo dunque ad essere saggi, e ad onorare il Cristo come egli vuole, spendendo le ricchezze per i poveri. Dio non ha bisogno di suppellettili d'oro, ma di anime d'oro. Che vantaggio c'è se la sua mensa è piena di calici d'oro, quando egli stesso muore di fame? Prima sazia lui affamato, e allora con il superfluo ornerai la sua mensa!".
Le espressioni citate sono sufficienti per dimostrare la piena identificazione del Cristo con l'indigente. Il Crisostomo infatti è ben consapevole che, prima di qualunque precisazione ulteriore, vale la dichiarazione di principio: chi serve il povero serve Cristo, chi rifiuta il povero rifiuta Cristo. Su questo saremo giudicati (Matteo 25,31-46). Ma il Crisostomo è altrettanto consapevole che questo amore del prossimo - per essere realmente quello di Gesù - deve alimentarsi alla comunione con Dio, al suo amore per noi.
Nella sua predicazione il vescovo sottolinea con insistenza l'intimo rapporto tra il comandamento dell'amore e la vita di Dio. L'autentico testimone della carità deve poter dire, insieme all'apostolo Giovanni: "Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi!" (1 Giovanni 1-4).
In altri termini, per crescere nella carità autentica, i fedeli, e a maggior ragione i ministri ordinati, devono conoscere Gesù, entrare in profonda intimità con lui.
Ancora una volta, il discorso ritorna alla "dimensione contemplativa" del presbitero e alla qualità del suo incontro con il Signore nella Parola e nei sacramenti.

In questa stessa prospettiva può essere letto anche il famoso Dialogo con Basilio, composto ad Antiochia intorno al 390, là dove Giovanni Crisostomo parla dell'"esempio" e della "parola" come farmaci del presbitero: "Quelli che curano i corpi degli uomini", scrive, "hanno a disposizione una quantità di farmaci... Nel nostro caso, oltre all'esempio, non c'è altro strumento o altro metodo di cura al di fuori dell'insegnamento che si attua con la parola".
Nel medesimo Dialogo il Crisostomo parla del sacerdozio come di "una vita fatta di coraggio e dedizione", perché il ministero del (vero) pastore non conosce i confini angusti del tornaconto personale, ma ridonda a vantaggio di tutto il gregge.
Per il Crisostomo, proprio la cura del gregge è il "segno dell'amore", è la prova concreta che il ministro ama veramente il Signore: "Se mi ami, pasci le mie pecore...".
In quell'occasione, osserva il Crisostomo, il maestro chiese al discepolo se lo amava non per saperlo lui stesso: perché mai avrebbe dovuto farlo, lui che scruta e conosce il cuore di tutti? Neppure "intendeva dimostrare a noi quanto Pietro lo amasse: questo ci era già noto da molti altri fatti; ma voleva dimostrare quanto lui (il Signore) amasse la sua Chiesa, e insegnare a Pietro e a tutti noi quanta cura dovessimo profondere in quest'opera".
E proprio qui risiede l'incolmabile differenza tra il "mercenario" e il "pastore": "il buon Pastore dà la vita per le sue pecore" (Giovanni 10,11).


2.3. Conclusioni provvisorie

Si ha l'impressione che sia Ignazio sia Giovanni insistano di più sull'identità e sulla missione del presbitero che non sull'itinerario della sua formazione. Nella massima parte dei casi, infatti, le istanze formative restano solo implicite.
In tutti e due i Padri, comunque, abbiamo potuto rilevare una forte sottolineatura sulla necessaria unità del presbitero con Cristo.
Per entrambi gli Antiocheni, inoltre, unità perfetta con Cristo e dedizione totale al gregge non appaiono semplicemente due caratteristiche costitutive del presbitero (alle quali, di conseguenza, andrà costantemente orientato ogni itinerario di formazione sacerdotale). Esse costituiscono un'unica realtà. Sono come le due facce di una stessa medaglia. L'una invera l'altra, e non si dovrebbe dare il caso di un sacerdote che abbia l'una senza l'altra. Per il presbitero la dedizione totale al gregge è il segno della sua unità con Cristo; d'altra parte la piena dedizione al gregge lo impegna "ad accorrere" continuamente "a Gesù Cristo come all'unico tempio di Dio, come all'unico altare".
In ultima analisi, il "realismo" dei Padri antiocheni invita il presbitero a una sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (intimità, unione con lui) e dedizione pastorale (missione, servizio alla Chiesa e al mondo), fino a che attraverso una dimensione parli l'altra, e i ministri non si riducano mai a "semplici distributori", ma siano "autentici testimoni" dei misteri di Cristo e della sua Chiesa.



3. La tradizione alessandrina: Origene

Trascorro finalmente alla cosiddetta "tradizione alessandrina". Abbiamo già notato che Alessandria sembra accogliere due istanze complementari rispetto alla tradizione antiochena, vale a dire l'allegoria in esegesi e la valorizzazione della divinità del Verbo in cristologia. Più in generale, Alessandria è ben distante dal cosiddetto "materialismo" asiatico, di cui parlavamo all'inizio: questo appare evidente anche in ambito ecclesiologico e, in particolare, nella concezione del ministero ordinato.
Per illustrare gli orientamenti alessandrini sul tema della formazione sacerdotale, mi limito a un solo esempio, peraltro molto rappresentativo: mi riferisco a Origene, soprattutto alle sue Omelie sul Levitico, pronunciate a Cesarea di Palestina tra il 239 e il 242. Siamo ormai a qualche anno dalla grave crisi che - a causa dell'ordinazione sacerdotale, conferitagli intorno al 231 dal vescovo di Cesarea, all'insaputa di quello di Alessandria - oppose Origene e il suo ordinario, il vescovo Demetrio. La crisi restò aperta, e causò appunto il trasferimento di Origene a Cesarea.


3.1. Origene (+ 254)

Bisogna riconoscere anzitutto che Origene, da buon alessandrino, è più interessato a contemplare la Chiesa nel suo aspetto spirituale, come mistico Corpo di Cristo, che non nel suo aspetto visibile.
Così Origene è più attento alla cosiddetta "gerarchia della santità", in rapporto a un cammino incessante di perfezione proposto a ogni cristiano, che non alla "gerarchia visibile".
Di conseguenza, l'Alessandrino si riferisce più spesso al sacerdozio comune dei fedeli e alle sue caratteristiche, che non al sacerdozio gerarchico.
In ogni caso, seguendo il discorso di Origene sull'uno e sull'altro argomento, non sarà difficile ricavare alcune indicazioni sull'itinerario di formazione dei presbiteri.


3.1.1. Sacerdozio dei fedeli e condizioni per il suo esercizio

Una lunga serie di testi origeniani intende illustrare le condizioni richieste per l'esercizio del sacerdozio comune.
Nella nona Omelia sul Levitico Origene - riferendosi al divieto fatto ad Aronne, dopo la morte dei suoi due figli, di entrare nel sancta sanctorum "in qualunque tempo" (Levitico 16,2) - ammonisce: "Da ciò si dimostra che se uno entra a qualunque ora nel santuario, senza la dovuta preparazione, non rivestito degli indumenti pontificali, senza aver preparato le offerte prescritte ed essersi reso Dio propizio, morirà... Questo discorso riguarda tutti noi: si riferisce a tutti, ciò che qui dice la legge. Ordina infatti che sappiamo come accedere all'altare di Dio. O non sai che anche a te, cioè a tutta la Chiesa di Dio e al popolo dei credenti, è stato conferito il sacerdozio? Ascolta come Pietro parla dei fedeli: "Stirpe eletta", dice, "regale, sacerdotale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato". Tu dunque hai il sacerdozio perché sei "stirpe sacerdotale", e perciò devi offrire a Dio il sacrificio della lode, sacrificio di orazioni, sacrificio di misericordia, sacrificio di purezza, sacrificio di giustizia, sacrificio di santità. Ma perché tu possa offrire degnamente queste cose, hai bisogno di indumenti puri e distinti dagli indumenti comuni agli altri uomini, e ti è necessario il fuoco divino - non uno estraneo a Dio, ma quello che da Dio è dato agli uomini -, del quale il Figlio di Dio dice: "Sono venuto per mandare il fuoco sulla terra"".
Ancora nella quarta Omelia, prendendo lo spunto dalla legislazione levitica secondo cui il fuoco per l'olocausto doveva ardere perennemente sull'altare (Levitico 6,8-13), Origene apostrofa così i suoi fedeli: "Ascolta: deve sempre esserci il fuoco sull'altare. E tu, se vuoi essere sacerdote di Dio - come sta scritto: "Voi tutti sarete sacerdoti del Signore", e a te è detto: "Stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquistato" -; se vuoi esercitare il sacerdozio della tua anima, non lasciare mai che si allontani il fuoco dal tuo altare".
Come si vede, l'Alessandrino allude alle condizioni interiori che rendono il fedele più o meno degno di esercitare il suo sacerdozio. Così infatti prosegue la stessa Omelia: "Ciò significa quello che il Signore comanda nei vangeli, che "siano i vostri fianchi cinti e le vostre lucerne accese". Dunque sia sempre acceso per te il fuoco della fede e la lucerna della scienza".
In definitiva, da una parte i "fianchi cinti" e gli "indumenti sacerdotali", vale a dire la purezza e l'onestà della vita, dall'altra la "lucerna sempre accesa", cioè la fede e la scienza delle scritture, si configurano precisamente come le condizioni indispensabili per l'esercizio del sacerdozio comune.
A maggior ragione lo sono, evidentemente, per l'esercizio del sacerdozio ministeriale: potremmo dire anzi che nel pensiero origeniano esse costituiscono le "pietre miliari" della formazione presbiterale. Ma su questo discorso torneremo nelle conclusioni.


3.1.2. Sacerdozio dei fedeli e accoglienza della parola

Piuttosto che sui "fianchi cinti", Origene insiste maggiormente sulla "lucerna accesa", cioè sull'accoglienza e sullo studio della parola di Dio.
"Gerico crolla sotto le trombe dei sacerdoti", esordisce l'Alessandrino nella settima Omelia su Giosuè; e commenta, poco oltre: "Tu hai in te Giosué [= Gesù] come guida grazie alla fede. Se sei sacerdote, costruisciti delle "trombe metalliche" (tubae ductiles); o meglio, poiché sei sacerdote - infatti sei "stirpe regale", e di te è detto che sei "sacerdozio santo" -, costruisciti "trombe metalliche" dalle sacre scritture, di qui ricava (duc) i veri significati, di qui i tuoi discorsi; proprio per questo infatti esse si chiamano tubae ductiles. In esse canta, cioè canta con salmi, inni e cantici spirituali, canta con i simboli dei profeti, con i misteri della legge, con la dottrina degli apostoli".
Stando alla terza Omelia sulla Genesi, il "popolo eletto che Dio si è acquistato" deve accogliere nelle proprie orecchie la degna circoncisione della parola di Dio: "Voi, popolo di Dio", afferma Origene, ""popolo scelto in possesso per narrare le virtù del Signore", accogliete la degna circoncisione del verbo di Dio nelle vostre orecchie e sulle vostre labbra e nel cuore e sul prepuzio della vostra carne, e in generale in tutte le vostre membra".
"Tu, popolo di Dio", aggiunge ancora Origene in altro contesto, "sei convocato ad ascoltare la parola di Dio, e non come plebs, ma come rex. A te infatti è detto: "Stirpe regale e sacerdotale, popolo che Dio si è scelto"".
L'accoglienza delle scritture è decisiva per una piena partecipazione alla "stirpe sacerdotale". Interpretando allegoricamente Ezechiele 17, Origene illustra ai suoi fedeli due possibilità, fra loro contrapposte: l'alleanza con Nabucodonosor - segnata dalla maledizione e dall'esilio -, caratteristica di chi rifiuta la parola; oppure l'alleanza con Dio, la cui tessera distintiva è precisamente l'accoglienza delle scritture. A questa alleanza segue la benedizione e la promessa: così "noi tutti, che abbiamo accolto la parola di Dio, siamo regium semen", dichiara Origene nella dodicesima Omelia su Ezechiele. "Infatti siamo chiamati "stirpe eletta e regale sacerdozio, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato"".


3.1.3. Sacerdozio dei fedeli e "gerarchia della santità"

Queste condizioni - di integra condotta di vita, ma soprattutto di accoglienza e di studio della parola - stabiliscono una vera e propria "gerarchia della santità" nel comune sacerdozio dei cristiani.
Per esempio, Origene pensa chiaramente a una "gerarchia di meriti spirituali", assai più che a una "gerarchia visibile", quando, concludendo nella quarta Omelia sui Numeri la spiegazione del censimento e degli uffici liturgici dei leviti (Numeri 4), afferma: "Poiché dunque è questo il modo con cui Dio dispensa i suoi misteri e regola il servizio degli oggetti sacri, dobbiamo mostrarci tali, che siamo resi degni del rango sacerdotale... Noi siamo infatti "nazione santa, sacerdozio regale, popolo di adozione", perché, rispondendo con i meriti della nostra vita alla grazia ricevuta, siamo ritenuti degni del sacro ministero".
Nell'Omelia successiva, la quinta sui Numeri, avventurandosi in un'ardita interpretazione del testo (Numeri 4,7-9), egli legge in modo allegorico i vari elementi che costituiscono la "tenda del convegno". Vi si può cogliere ancora qualche allusione alla "gerarchia della santità" quando l'omileta afferma che "ci sono in questa tenda", cioè nella Chiesa del Dio vivente, "dei personaggi più elevati in merito e superiori nella grazia". In ogni caso, tutti i fedeli nel loro insieme costituiscono il "resto", cioè il popolo dei santi che gli angeli portano sulle loro mani perché non inciampi nella pietra il loro piede, e possano entrare nel luogo della promessa. Nonostante le severe precauzioni levitiche, a ognuno di loro è lecito contemplare senza sacrilegio alcuni aspetti del mistero di Dio, perché tutti insieme sono chiamati "stirpe e sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato".
Sempre nelle Omelie sui Numeri si legge la celebre interpretazione origeniana del pozzo di Beer, "di cui il Signore disse a Mosé: "Raduna il popolo, e io gli darò dell'acqua". Allora Israele cantò questo canto: "Sgorga o pozzo: cantatelo! Pozzo che i principi hanno scavato, che i re del popolo hanno perforato con lo scettro, con i loro bastoni"" (Numeri 21,16-18). Origene vede in questo pozzo Gesù Cristo stesso, la fonte della parola, e nell'accenno ai principi e ai re del popolo i diversi gradi di profondità nella lettura e nell'interpretazione delle scritture. Se poi occorre distinguere tra principi e re, Origene propone di vedere nei principi i profeti, nei re gli apostoli. "Quanto al fatto che gli apostoli possano essere chiamati re", spiega l'Alessandrino, "lo si può facilmente ricavare da ciò che è detto di tutti i credenti: "Voi siete stirpe regale, sommo sacerdozio, nazione santa"".
Resta confermato in ogni caso che per Origene la gerarchia più vera è quella che si fonda sui vari livelli di accoglienza delle scritture, mentre rimane implicito - almeno nell'ultima Omelia citata - che il riferimento alla parola di Dio è indispensabile per l'esercizio del "regale sacerdozio" comune a tutti i fedeli.


3.1.4. "Gerarchia ministeriale"

Nelle sue omelie Origene si riferisce espressamente ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi. A suo parere, tale "gerarchia visibile" deve rappresentare agli occhi dei fedeli la "gerarchia invisibile" della santità. In altri termini, nella dottrina di Origene ordinazione ministeriale e santità devono procedere di pari passo.
Nella tredicesima Omelia sull'Esodo, illustrando il significato dell'ornamento dell'omerale, "simbolo delle buone azioni", Origene richiama i fedeli a un'intima coerenza tra i loro discorsi e le loro azioni. "Questo ornamento", conclude, "è cosa dei prìncipi, che hanno progredito fino al punto di meritare di presiedere ai popoli".
"I sacerdoti", scrive ancora nella sesta Omelia sul Levitico, "devono guardarsi nei precetti della legge divina come in uno specchio, e trarre da questo esame il grado del loro merito: se si trovano rivestiti degli indumenti pontificali..., se risulta a loro di essere all'altezza [della loro vocazione] nella scienza, negli atti, nella dottrina; allora possono ritenere di aver conseguito il sommo grado del sacerdozio non solo di nome, ma anche per il loro merito effettivo. Diversamente si considerino come a un grado inferiore, anche se hanno ricevuto di nome il primo grado".
Come si vede, una stima altissima nei confronti del sacerdozio ordinato rende Origene molto esigente, quasi radicale, nei confronti dei sacri ministri. Perciò egli mette in guardia chiunque dal precipitarsi "su quelle dignità, che vengono da Dio, e sulle presidenze e i ministeri della Chiesa". E nella seconda Omelia sui Numeri chiede con dolore: "Tu credi che quelli che hanno il titolo di sacerdoti, che si gloriano di appartenere all'ordine sacerdotale, camminino secondo il loro ordine, e facciano tutto quello che si conviene al loro ordine? Allo stesso modo, tu credi che i diaconi camminino secondo l'ordine del loro ministero? E da dove viene allora che si sente spesso la gente lamentarsi, e dire: "Guarda questo vescovo, questo prete, questo diacono..."? Non si dice forse perché si vede il prete o il ministro di Dio mancare ai doveri del suo ordine?".
Così nelle sue omelie egli non esita a rimproverare apertamente i difetti più vistosi dei sacerdoti del suo tempo. Ne emerge per noi un efficace ritratto "in negativo" sui pericoli da evitare nella formazione dei presbiteri.

Un punto debole dei preti è, a parere di Origene, la sete di danaro e di guadagni temporali; insomma - diremmo noi - la tentazione dell'imborghesimento e dell'orizzontalismo esasperato. Egli lamenta che i preti si lascino assorbire dalle preoccupazioni profane, e non domandino altro che trascorrere la vita presente "pensando agli affari del mondo, ai guadagni temporali e al buon cibo". E aggiunge, in altro contesto: "Tra noi ecclesiastici si troverà chi fa di tutto per soddisfare il suo ventre, per essere onorato e per ricevere a suo vantaggio le offerte destinate alla Chiesa. Ecco qui quelli che non parlano d'altro che del ventre, e che ricavano da lì tutte le loro parole...".

Origene rimprovera ai sacerdoti anche il "carrierismo", l'arroganza e la superbia. "Talvolta", osserva nella terza Omelia sul libro dei Giudici, "si trovano fra noi - che siamo posti come esempio di umiltà, e collocati intorno all'altare del Signore come specchio per quelli che ci guardano - si trovano alcuni uomini dai quali esala il vizio dell'arroganza. Così un odore ripugnante di orgoglio si espande dall'altare del Signore".. E prosegue altrove: "Quanti preti ordinati hanno dimenticato l'umiltà! Come se fossero stati ordinati proprio per cessare di essere umili!... Ti hanno stabilito come capo: non esaltarti, ma sii tra i tuoi come uno di loro. Bisogna che tu sia umile, bisogna che tu sia umiliato; bisogna fuggire la superbia, vertice di tutti i mali".

Altri peccati dei preti sono, secondo Origene, il disprezzo - o almeno una minore considerazione - degli umili e dei poveri, e nei rapporti con i fedeli una specie di "altalena" tra un'eccessiva severità e una non meno eccessiva indulgenza.


3.2. Conclusioni provvisorie

Se raccogliamo le indicazioni che Origene fornisce sul sacerdozio comune e su quello gerarchico, possiamo ricavare il seguente itinerario di formazione presbiterale.
La "tessera" per accedere a questo itinerario è la "lucerna accesa", cioè l'ascolto della parola. Altra condizione indispensabile sono "i fianchi cinti" e gli "indumenti sacerdotali", ossia una vita integra e pura: riguardo a questo, i ministri ordinati dovranno guardarsi soprattutto dalle tentazioni dell'imborghesimento, della superbia, della minor considerazione dei poveri, della severità eccessiva e del lassismo. Ciò che è richiesto ai sacerdoti è dunque la radicale obbedienza al Signore e alla sua parola, il distacco dallo spirito del mondo, la piena fraternità con il popolo, la dedizione e il servizio. Il vertice del cammino di perfezione - cioè il punto d'arrivo dell'itinerario di formazione sacerdotale, visto che "gerarchia della santità" e "gerarchia ministeriale" devono identificarsi - è per Origene il martirio. è la "lucerna accesa", cioè l'ascolto della parola. sono "i fianchi cinti" e gli "indumenti sacerdotali", ossia una vita integra e pura: riguardo a questo, i ministri ordinati dovranno guardarsi soprattutto dalle tentazioni dell'imborghesimento, della superbia, della minor considerazione dei poveri, della severità eccessiva e del lassismo. Ciò che è richiesto ai sacerdoti è dunque la radicale obbedienza al Signore e alla sua parola, il distacco dallo spirito del mondo, la piena fraternità con il popolo, la dedizione e il servizio. Il vertice del cammino di perfezione - cioè , visto che "gerarchia della santità" e "gerarchia ministeriale" devono identificarsi - è per Origene il martirio.
Nella nona Omelia sul Levitico - alludendo al "fuoco per l'olocausto", cioè alla fede e alla scienza delle scritture, che mai deve spegnersi sull'altare di chi esercita il sacerdozio - l'Alessandrino aggiunge: "Ma ognuno di noi ha in sé" non soltanto il fuoco; ha "anche l'olocausto, e dal suo olocausto accende l'altare, perché arda sempre. Io, se rinuncio a tutto ciò che possiedo e prendo la mia croce e seguo Cristo, offro il mio olocausto sull'altare di Dio; e se consegnerò il mio corpo perché arda, avendo la carità, e conseguirò la gloria del martirio, offro il mio olocausto sull'altare di Dio".
Sono espressioni che rivelano tutta la nostalgia di Origene per il battesimo di sangue. Nella settima Omelia sui Giudici - che risale forse agli anni di Filippo l'Arabo (244-249), quando sembrava ormai sfumata l'eventualità di una testimonianza cruenta - egli esclama: "Se Dio mi concedesse di essere lavato nel mio proprio sangue, così da ricevere il secondo battesimo avendo accettato la morte per Cristo, mi allontanerei sicuro da questo mondo... Ma sono beati coloro che meritano queste cose".



4. Conclusioni

Concludo svolgendo ancora un'osservazione d'insieme sull'itinerario origeniano della formazione sacerdotale.
Non si può sfuggire all'impressione che in questo, come in altri ambiti, la posizione di Origene sia molto esigente, quando non radicale.
In ogni caso la sua riflessione sul sacerdozio (come anche quella di altri maestri alessandrini: si veda al riguardo Clemente Alessandrino), pur collegando saldamente la "gerarchia ministeriale" con la "gerarchia della santità", non presenta mai il prete come una specie di angelo: lo coglie piuttosto in un cammino molto concreto di ascesi quotidiana, in lotta con il peccato e con il male.
Tanto per fare un esempio, il progressivo distacco dal mondo che deve caratterizzare la formazione del sacerdote, non si traduce affatto nella ricerca affannosa di un luogo separato dal mondo, perché, scrive Origene nella dodicesima Omelia sul Levitico, "non è in un luogo che bisogna cercare il santuario, ma negli atti e nella vita e nei costumi. Se essi sono secondo Dio, se si conformano ai comandi di Dio, poco importa che tu sia in casa o in piazza; che dico "in piazza"? Poco importa perfino che tu ti trovi a teatro: se stai servendo il Verbo di Dio tu sei nel santuario, non avere alcun dubbio".

In definitiva la tradizione alessandrina - per una via forse inattesa, perché più "spirituale", e per certi aspetti "rigorista" -, arricchisce di concretezza l'immagine del pastore e le relative istanze di formazione, che già avevamo colto in Ignazio di Antiochia e in Giovanni Crisostomo.


Enrico dal Covolo






Sommario

Il contributo si propone di illustrare alcuni testi patristici relativi all'identità e alla formazione dei ministri ordinati, riferendosi prima alla "tradizione antiochena" e poi alla "tradizione alessandrina".
Da una parte Antiochia sembra incarnare le caratteristiche più evidenti del cosiddetto "materialismo" asiatico, sostenitore della lettera in esegesi e dell'umanità del Figlio in cristologia; mentre Alessandria pare accogliere le due istanze - rispettivamente complementari - dell'allegoria in esegesi e della divinità del Verbo in cristologia.
Anche dal punto di vista ecclesiologico, Ignazio e Crisostomo (i due autori scelti "a paradigma" della tradizione antiochena) sono più attenti alla "gerarchia ministeriale", rispetto per esempio a Origene (maestro della tradizione alessandrina), che si manifesta molto più interessato alla "gerarchia della santità".
Non si può sfuggire all'impressione che in questo, come in altri ambiti, la posizione di Origene sia molto esigente, quando non radicale. In ogni caso la sua riflessione sul sacerdozio (come anche quella di altri maestri alessandrini: si veda al riguardo Clemente Alessandrino), pur collegando saldamente la "gerarchia ministeriale" con la "gerarchia della perfezione", non presenta mai il prete come una specie di angelo: lo coglie piuttosto in un cammino molto concreto di ascesi quotidiana, in lotta con il peccato e con il male.
In definitiva la tradizione alessandrina arricchisce di concretezza - per una via forse inattesa - l'immagine del pastore delineata da Ignazio di Antiochia e da Giovanni Crisostomo.

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