Un percorso di secoli: dal Cristo vivo e trionfante a quello morto e patiens. Alla scoperta del soggetto iconografico che condensa in sé la natura umana e quella divina del Figlio di Dio
di Marco Bona Castellotti
Perché il tema della croce dipinta e del suo mistero? Se mi si ponesse la domanda di quale espressione d’arte riflette più intensamente il senso del Mistero di Dio, non potrei che rispondere: una croce dipinta italiana del XII secolo. Ma un altro mistero soggiace al tema della croce dipinta ed è un mistero di carattere culturale: quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell’iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e patiens sulla croce in Oriente e in Occidente. Il volto di Cristo della Croce 432 degli Uffizi, che si data intorno alla metà del XII secolo, di autore anonimo, a mio parere rappresenta una vetta assoluta nella storia dell’arte, nella sua apparente mancanza di espressione di dolore e nella sua evidente espressione di mestizia e di lontananza. Nella crocifissione che compare su un codice della Biblioteca Laurenziana di Firenze, detto codice di Ràbula, nome dell’autore delle miniature, probabilmente di origine siriaca, possiamo vedere una raffigurazione del tema già molto progredita nella densità degli elementi che la compongono: Cristo, i due ladroni, a sinistra la Vergine e san Giovanni, Stefanato e Longino (Longino è quello che raccoglie il sangue sgorgato dal costato di Cristo in un calice e lo porta a Mantova, infatti il calice del sangue di Cristo per tradizione è ancora conservato a Mantova e ivi venerato), i tre soldati che giocano sotto la croce e il gruppo delle pie donne sulla destra estrema.
È probabile che il codice sia di origine siriaca, in quanto la raffigurazione di Cristo e di tutti i personaggi che compongono la scena è molto realistica; ad esempio il Cristo veste una specie di gonnellone, il colobium di origine siriaca, porta la barba, diversamente dall’iconografia del Cristo di origine ellenistica che è imberbe. La cultura ellenistica è una cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro, imberbe piuttosto che questo, realista, come è realista tutto quanto il cristianesimo di origine orientale. Il sole e la luna compaiono spesso nelle raffigurazioni della crocifissione e hanno una precisa allusione al Vangelo di Luca, che dice che «obscuratus est sol» nel momento della morte di Cristo, ma potrebbero anche stringere un nesso con certe iconografie più antiche, pagane, proprio di area siriaca, che accompagnano la raffigurazione di alcune divinità, come Serapide o Iupiter Heliopolitanus o Mitra, divinità legate al culto del sole, culto dal quale il cristianesimo recupera molti elementi, vedi il concetto di Cristo come Sol invictus.Arte aniconica
Nei primi tre secoli l’arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo. Con l’avvento di Costantino avviene il trionfo della croce, e Costantino aveva usato come vessillo della sua vittoria la croce stessa. Nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l’alfa e l’omega e il monogramma continua anche molto dopo l’epoca costantiniana. Intorno al 340 si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce operata dalla madre di Costantino, sant’Elena. Quindi la croce comincia il suo cammino trionfale, ma non un cammino iconografico perché la croce, specialmente la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell’iconografia, in quanto la crocifissione è un supplizio pagano. Nel 340 il supplizio della croce viene abolito. La croce, come si vede nel grande mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, ha ancora una valenza simbolica. L’unico elemento che richiama Cristo è quel medaglione che sta al centro ma tutto il resto invece è ricondotto a pura geometrizzazione. Quali sono le ragioni? Qui cominciano a infittirsi i misteri collegati all’iconografia della croce, e bisogna sconfinare finché è possibile nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie a esso connesse. Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo è quella di Eutichio il quale negava la natura umana di Cristo, lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato. Si mette ordine nel problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio detto “in Trullo” nel quale un comma, l’undicesimo, esprime chiaramente il problema: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo». Quindi finalmente si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce; ma a quali condizioni? A condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte e anche a questo punto il problema, il mistero, si infittisce e molti hanno cercato di capire perché Cristo è trionfante, non bastando le scritture soltanto a giustificare la vita di Cristo in croce, da morto.
Nello straordinario affresco di Santa Maria Antiqua a Roma, dell’VIII secolo, Cristo è vivo, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati, trionfante per la sua solenne calma oltre la morte. È probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si ritrovi nella risposta alla teoria eutichiana che venne promulgata durante il Concilio di Calcedonia, nel V secolo, nel quale si affermò che nell’unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana. La compresenza di queste due nature doveva superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in forma onnicomprensiva e sintetica, il concetto della passione. Movimento iconoclasta
L’iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all’XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII secolo. L’affresco di Santa Maria Antiqua probabilmente appartiene a un anonimo maestro costantinopolitano, lo si data di solito verso la fine dell’VIII secolo, perché a Roma potevano confluire maestri di area orientale in quel momento, per una ragione storica molto semplice, storicamente individuabile, ed è costituita dal grande movimento iconoclasta che si colloca fra il 730 e l’840 all’incirca, che aveva dato vita a una vera e propria guerra di religione, contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore. Da che cosa nasceva questo movimento iconoclasta, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da gli ambienti intellettuali che si muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso. Nacque, il movimento iconoclasta, da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una rivoluzione che portò a eccidi. Alle origini del movimento iconoclasta ci fu un’influenza islamica. L’arte islamica è aniconica, è pura decorazione; ma furono proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici, ancora una volta dell’Oriente cristiano, a conservare e custodire una iconografia sacra realistica, perché gli ambienti popolari volevano una immagine davanti a sé, non un’idea.
Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, quanto invece accade in Oriente due secoli prima è ancora avvolto dal mistero. Per quale ragione nei primi due decenni del Mille, intorno al 1020, compare un codice, miniato nel monastero di Stoudios a Costantinopoli, in una delle cui miniature Cristo viene raffigurato in croce morto? Per quale ragione nel mosaico, stupefacente, di Dafnì, Cristo ha reclinato il capo, il suo corpo si è arcuato, ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità come invece era fino a quel momento, e il capo si appoggia sulla spalla? Perché gli occhi sono quasi completamente chiusi e Cristo è morto - benché non sia una morte totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno, è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte -, gli occhi sono chiusi e qualcosa di nuovo è accaduto nel frattempo? Fra le miriadi di ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n’è una che è da considerarsi la più attendibile. Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi: come giustificare che Dio potesse morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto. Ed era arrivato a questa soluzione teologica: morì, sì, in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, sì che pur morto viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nella vita di Dio. Ma perché potesse il fedele essere ancora più certo che in un corpo morto, nel corpo morto di Cristo, la vita ancora proseguisse, venne raffigurato per la prima volta il fiotto di sangue che sgorga dal costato. Vivo e trionfante
Il grande crocefisso di avorio che proveniva in origine dalla cattedrale di Leon, ora conservato nel Museo Archeologico di Madrid, la croce di Ferdinando I di Castiglia del 1160, dimostra come la tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura, ma anche si diffonde in ambiente latino, in Spagna e specialmente in Italia. Cristo ha un’aria quasi spettrale dovuta al fatto che i grandi occhi spalancati, perché è vivo e trionfante, sono di porcellana, porcellana azzurra, quindi tutto quanto cerca di puntare sul tema della sospensione pur essendo straordinariamente concreto nella sua forza d’urto.Il fenomeno della fioritura delle croci dipinte è italiano, ma non si sa se la prima croce dipinta fosse italiana. La cosa strana e curiosa è che, comunque, dopo Dafnì, dopo il pensiero che si esprime nel monastero di Stoudios, dopo Nichetas Sthetatos, dopo che Cristo muore o comunque si abbandona in qualcosa di molto simile alla morte in Oriente, in Occidente - che dovrebbe essere così aggiornato culturalmente - Cristo continua a trionfare fino agli inizi del 1200.In un’altra delle straordinarie croci dipinte italiane, quella di Rosano, conservata agli Uffizi, la croce è mozza nel capocroce, ma è completa in tutti gli altri elementi e cominciano a comparire intorno alla figura di Cristo anche i tabelloni che di solito illustrano in dettaglio tutti i momenti della passione di Cristo, ma Cristo è vivo.È piuttosto sconvolgente il particolare del volto. Certo l’influenza bizantina è ancora molto forte, ma questa influenza bizantina si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di concretezza di immagine che è italiana; ed è vero che Cristo è raffigurato quasi impassibile, non colpito e non espressivamente segnato dal dolore, ma è anche evidente che in questo sguardo così incantato c’è un senso di lontananza, di tristezza, di mestizia che ha come bisogno di espandersi e di trovare una forma nuova per esprimersi e diventare sempre più vero, lasciare la sua condizione totemica che, nella sua inafferrabilità è insufficiente ad appagare anche la pietas di chi vuole invece essere sempre più vicino alla figura di Cristo.La croce di Pisa mantiene ancora la struttura con i tabelloni ai fianchi di Cristo, che in qualche modo sono il segno di una tradizione antica; inoltre c’è come un eccesso di linearismo: Cristo non è più con gli occhi spalancati, non è più vivo ma è morto, ma questa morte, a ben guardare, ha ancora i caratteri del Cristo morto di Dafnì, il che fa supporre - per la tripartizione della chioma, l’eccesso di linearismo, con cui viene segnata la curva del naso, le palpebre, ma soprattutto l’abbandono incorporeo, quasi lievitante, quasi sognante -, che l’autore è orientale. È certamente la prima croce di area italiana nella quale Cristo muore. E allora è da pensare che l’autore fosse già soggetto a quel fatto assolutamente rivoluzionario nella cultura europea, che rappresenta la ragione certa della svolta di proporzioni colossali, soprattutto di una svolta senza confini che portò anche come riflesso figurativo la morte di Cristo in croce? Questo fatto non è altro che l’avvento di san Francesco e del suo pensiero, della sua predicazione. L’avvento di san Francesco
La meravigliosa croce di Giunta Pisano, databile poco dopo il 1220, oggi si trova nella chiesa di San Domenico a Bologna. Cosa è successo? Quanto è lontano questo volto di Cristo - oramai affondato dalla sofferenza, assolutamente morto, senza ombra di esitazione, e così capace anche di coinvolgere lo spettatore, il devoto, di portarlo con sé - dalla croce di Dafnì. È qualcosa di dirompente quello che è accaduto. Perché nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l’identificazione con Cristo morto è diventata uno dei cardini così di tutta quanta la sua spiritualità, così della pietà, e da ciò ne è scaturito tutto quanto ne è conseguito poi sul piano figurativo. Non c’è nulla di più efficace, di più eloquente, utile, a spiegare cos’è accaduto, delle parole di Jacopone da Todi, che in clima francescano a un certo punto canta: «Voglio me stesso renegare e la croce voglio portare». Quasi in un crescendo di dolore terreno Giunta dipinge intorno a quegli anni anche la croce di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Si è abbandonata la linearità ascensionale, tutto quanto è diventato come più concreto, perché il cammino poi continua per quello a cui in fondo si doveva arrivare e si arriverà soltanto con Giotto: portare fino all’estremo della sua verità l’umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.La croce dipinta di Coppo di Marcovaldo, nel museo di San Gimignano, è del 1274. Certe resistenze antiche permangono, vedi appunto ancora l’illustrazione episodica dei tabelloni, con le storie di Cristo, e poi l’alleggerimento della figura del Cristo morto che in qualche modo richiama al fatto, alla possibilità di lasciarlo come parzialmente, impalpabilmente in vita. Quanto c’è di nuovo in un pittore come Coppo di Marcovaldo è da attribuirsi a un suo immediato predecessore benché più giovane di lui, che aveva effettivamente fatto un passo anche ulteriore rispetto a Giunta: Cimabue. Allora c’è qualcosa di nuovo, innanzitutto c’è un alleggerimento di certe parti, però non da intendersi come retroattivo, come una volontà di tornare al passato, nell’impalpabilità della figura, ma invece è da intendersi come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato. Per arrivare a questo ci vuole un’altra rivoluzione: consimile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano. Proprio in funzione della umanità dichiarata di Cristo, nella sua morte (ma questa volta è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale può essere anche attraversata da un fremito di vita, perché nel crocefisso del Tempio Malatestiano Cristo è morto ma è umano e divino), mai ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità, e la sua concentrazione di umano e divino è definitivamente decretata.
Tratto da Tracce
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