Università di Ferrara 10 aprile 2000
Nella lettera pastorale che vi ho inviato in occasione dell’Anno Santo vi chiedevo di vivere il Giubileo in modo tale che si realizzi in ciascuno di voi la profezia: "volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto" (Zac. 12,10). Questa sera, all’inizio della S. Quaresima, siamo nella nostra Cattedrale semplicemente per questo: per volgere lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto.
L’apostolo Paolo parla di "occhi della mente" (cfr. Ef 2,18) che devono essere illuminati da uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza del mistero della Croce.
Questo mistero ha come due dimensioni; la "Parola della Croce" (cfr. 1Cor 1,18) ci dice due verità intimamente connesse: la verità su Dio, e la verità sull’uomo. Riflettiamo pacatamente su ciascuna di queste due verità.
1. LA PAROLA DELLA CROCE DICE CHI È DIO
Riascoltiamo S. Bernardo: "Egli nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi infatti conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? (Ger 29,11). Ma il chiodo penetrando fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore … E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo … appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge (Lc 1,78)" [Sermoni sul Cantico dei cantici; Ser. LXI, 4; Ed. Vivere in, Vol. 2, Roma 1996, pag. 166-167].
"E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore": la Croce è la suprema rivelazione di ciò che dimora dentro al cuore di Dio. E pertanto l’apostolo può dire di "non sapere altri in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso" (1Cor 2,2). Alla domanda più alta che lo spirito creato possa fare: "chi è Dio?", noi rispondiamo: "cerca la risposta nel Crocefisso". Al desiderio di cui è impastato il cuore umano, il desiderio di vedere Dio (cfr 1,2,q.3, a.8), il cristiano risponde dicendo: "vedi il Crocefisso".
La Croce svela, in primo luogo, la logica interna all’articolo specifico della nostra fede: "il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). E’ la logica della condivisione della nostra condizione umana, che consiste nella partecipazione alla stessa natura umana: nell’avvenimento della Incarnazione si mostra che Dio è veramente interessato alla nostra vicenda ed ai nostri casi umani, fino al punto da venire a viverli Egli stesso.
E’ stata costante nel cuore di ogni uomo la domanda se la nostra storia personale, se la storia di tutta l’umanità nel suo insieme fosse in ultima analisi dominata o dal caso o dalla necessità di un destino impersonale: da chi, alla fine, essa dipendesse. Al popolo ebreo era stata donata la vicinanza di Dio, quale non era mai stata donata a nessun altro popolo. Egli lo istruiva attraverso la Legge, lo guidava attraverso i suoi Profeti, lo difendeva "col suo braccio Santo". Ai pagani invece era stata donata solo la piccola zattera della ragione per attraversare il tempestoso mare dell’esistenza; ma essi, come insegna S. Paolo, "pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti" (Rom 1,21). Vaneggiare nei propri ragionamenti: ecco la nostra più grande disgrazia ed il nostro rischio continuo. A ragion veduta, il sapiente pagano di poter fare "il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, ossia affidarsi ad una divina Rivelazione" [Platone, Fedone 85 C-D].
"Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati" (Ef 2,4), "quando venne la pienezza del tempo, …mandò il suo Figlio, nato da donna" (Gal 4,4). Questi, il Figlio, di fronte alla decisione del Padre, di inviarlo nella nostra carne, "pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini" (Fil 2,6-7). E poiché questi "hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe" (Eb 2,14). In questo modo, "proprio per essere stato messo alla prova" [Egli stesso] "ed aver sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (ib. 18).
Nel mistero dell’incarnazione del Verbo appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, dal momento che Egli né si disinteressa delle nostre vicissitudini né se ne prende cura "dall’alto" della sua divina condizione. Se ne prende cura "dal di dentro": venendo Egli stesso a vivere le nostre umane vicissitudini.
Ma questa logica intrinseca alla decisione dell’Incarnazione ha trovato la sua conferma inequivocabile nella sofferenza della passione, e nella morte sulla Croce. E’ la sua sofferenza e morte la "prova definitiva" della condivisione da parte di Dio della nostra condizione umana. Come ci ha appena insegnato S. Pietro Crisologo: "questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno" [Discorso 108,3; Opera omnia, CNed., vol.2, pag.323].
"Introducono voi nel mio interno": introducono la vostra condizione umana, interamente, nella mia Persona divina. Entriamo nel mistero più profondo della Croce come conferma estrema della logica dell’incarnazione.
La sofferenza e la morte ci sono sempre presentate nella S. Scrittura come conseguenza del peccato: "la morte" scrive Paolo "ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Rom 5,12). Tale è appunto il significato profondo e misterioso del racconto biblico della creazione e della caduta originaria. L’amore di Dio che ordinava la persona umana alla beatitudine della stessa vita divina, si affidava alla sua risposta libera: l’amore si offre e non costringe chi, non volendo amare, si rifiuta di lasciarsi amare. Ma la disposizione di grazia con cui Dio destinava l’uomo alla vita eterna, alla condivisione della stessa vita trinitaria, impedisce all’uomo medesimo di poter trovare la piena realizzazione di se stesso fuori del dialogo con Dio, a cui solo la grazia può condurlo ed in cui soltanto le sue più profonde aspirazioni trovano compimento.
Rifiutare l’amore di Dio non significa quindi solamente rifiutare la partecipazione, mediante la grazia, alla vita trinitaria; significa nello stesso tempo rifiutare quella piena realizzazione di se stesso, il cui nome è "felicità". E’ inoltrarsi in una strada di infelicità, che terminerà nella morte.
Nella luce della Rivelazione siamo in grado di comprendere l’assurdità totale della morte e la ragione profonda per cui non possiamo non sentirne l’intima contraddizione. Da una parte, infatti, in quanto siamo corpo e materia, non possiamo non corromperci e dissolverci; ma dall’altra parte, in quanto siamo soggetto spirituale, ci "sentiamo" chiamati all’eternità e, da questo punto di vista, è illogico ed assurdo morire, perché morire vuol dire essere definitivamente estromessi da quel dialogo di amore cui siamo stati destinati: "non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella fossa" (S. 113 B,17 ).
Fino a che punto giungerà la decisione di Dio di condividere la nostra condizione umana, decisione che si manifesta nell’Incarnazione del Verbo? la Croce risponde: fino al limite estremo, fino a condividere la nostra sofferenza e la nostra morte.
Il Verbo si è fatto uomo per soffrire la sofferenza dell’uomo e morire della morte dell’uomo (cfr. Eb 10,5-10); ha assunto interamente la nostra stessa natura e condizione umana turbata dal peccato, senza avere lui stesso la minima parte nel peccato. Il Verbo di Dio ha veramente sofferto ed è morto sulla Croce: è questa la più sconvolgente certezza della fede cristiana. Quando un uomo, uno di noi, soffre – fisicamente, moralmente o spiritualmente – o muore, è la persona che soffre, qualunque sia la parte del corpo o la facoltà dell’anima presa dalla sofferenza, ed è la persona che muore. Nello stesso modo è il Verbo che soffre tutto quello che Gesù Cristo soffre sulla Croce, poiché Gesù Cristo non è altri che il Verbo.
La Croce quindi è la massima rivelazione della potenza di Dio. La potenza di Dio è infatti la potenza del suo Amore. Ora la potenza dello amore non consiste nel dimostrare una tale forza da costringere il cuore dell’amato a corrispondere, togliendogli ogni libertà. La forza dell’amore consiste semplicemente nel dimostrarsi: nulla è più forte dell’amore nella sua debolezza, nulla è più debole nella sua forza. "se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro?" (S. Pietro Crisologo, cit.).
Ma la compassione – condivisione del Verbo incarnato, spinta fino alla morte, non è stata impotente. Se Dio stesso non potesse fare nulla contro la nostra morte e sofferenza; se Egli stesso non potesse far altro che condividerle con noi, all’uomo sarebbe tolto ogni diritto di sperare. Venire a soffrire on un disgraziato non ha senso se non per farlo uscire dalla sua condizione, insopportabile se fosse senza via di uscita. L’Amore che ha scelto la via della debolezza compassionevole, è lo stesso Amore che ha creato l’uomo non per la morte ma per la beatitudine eterna: le decisioni divine sono irreformabili. Se condivide con me la morte, non è per rimanervi imprigionato dentro con me: "poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Eb 2,14-15).
Il Verbo incarnandosi si è in qualche modo unito ad ogni uomo [cfr. Cost. Past. Gaudium et spes 22] e sulla Croce, colla sua morte e nella sua morte, Egli ha compiuto e fatto compiere in sé, a tutti gli uomini, il cammino di ritorno a Dio. "In Lui e per Lui il nuovo Adamo, questa umanità peccatrice, lui escluso, penitente in lui e per lui, è tornata a Dio con un atto di piena libertà. Atto di pentimento totale e di adorazione, di amore senza riserva, per cui è stato contraddetto e tolto di mezzo il contro-amore, che il vecchio Adamo aveva opposto all’amore divinizzante" [J.H. Nicolas, Contemplazione e vita contemplativa nel cristianesimo, LEV ed., Città del Vaticano 1990, pag. 157]. Veramente, ciò che è accaduto sulla Croce ha cambiato alla radice la nostra condizione umana: noi non siamo più condannati alla morte eterna, perché sulla croce Cristo morendo ha redento la nostra morte. La certezza che questo è realmente accaduto ci è donata dalla Risurrezione. Attraverso la Croce, la Risurrezione rivela pienamente quell’Incarnationis mysterium che noi celebriamo nel Giubileo. A causa della Risurrezione, noi sappiamo con certezza che la nostra umanità, non ideale ma quella reale [il Risorto conserva le stigmate], è definitivamente entrata nella Trinità santa e beatificante. Questo è il frutto della morte del Verbo Incarnato, poiché proprio "per questo Dio lo ha esaltato" (Fil 2,9a). Noi siamo per sempre in Dio. "L’uomo, l’essere assurdo, non è più assurdo. L’uomo, l’essere sconsolato, non è più sconsolato" (J. Ratzinger, Il cammino pasquale, ed. Ancora, Milano 2000, pag. 109).
2. LA CROCE DICE LA VERITÀ SULL’UOMO
Le ultime riflessioni ci hanno già introdotto in questo secondo punto della mia riflessione: la Croce dice all’uomo la verità sull’uomo, rivela all’uomo l’uomo. Consentitemi di iniziare da un piccolo aneddoto.
Un uomo incontra per strada il medico di famiglia che si accorge immediatamente che il suo paziente è diventato un po’ sordo. "Probabilmente lei beve troppo" gli dice "smetta di bere e sentirà meglio". Alcuni mesi più tardi, il medico reincontra il paziente, e si rende subito conto che sente meglio. "Sa" dice "ho smesso di bere, dottore, come mi ha consigliato". Dopo alcuni mesi ancora, il medico, incontrando il suo paziente, si rende conto che è ridiventato come prima duro di orecchi. "Ma come" gli dice "perché ha ripreso a bere?", "Senta, dottore" risponde l’altro "Prima bevevo ed il mio udito era cattivo. Dopo smisi di bere e sentivo meglio. Però ciò che sentivo non era così buono come il whisky" [cit. da La Sapienza della Croce, vol. III, LDC ed. Leumann 1976, pag. 38].
Il simpatico aneddoto ci rende consapevoli della condizione in cui versa la verità dell’uomo dentro alla coscienza dell’uomo stesso. E’ in una condizione di rischio: rischio di essere "rimossa". E ciò può accadere in due modi fondamentali. O questa verità viene semplicemente negata [atto della ragione], oppure essa viene rifiutata [atto della libertà]: o giudico [atto della ragione] che il bene/essere realizzato nello whisky costituisce l’intera bontà della persona o rifiuto [atto della libertà] di realizzarmi secondo la verità di me stesso. Ma, ed è qui la domanda che è spina piantata nella carne di ogni relativismo, sono me stesso, quando con un atto di libertà nego quella verità di me stesso che ho riconosciuto come verità? O non avvertiamo piuttosto che decidendomi a negare la verità su me stesso, non faccio altro che negare me stesso in una sorta di suicidio spirituale? Se è così, allora "la relazione con la verità decide della sua umanità e costituisce la dignità della sua persona" [K. Woityla, Segno di contraddizione, Ve P. ed., Milano 1977, pag. 133].
Noi questa sera vogliamo capire se e come questa verità sull’uomo è detta all’uomo dalla Croce di Cristo, per cui il rifiuto della Croce diventa anche sempre il rifiuto della verità sull’uomo. E’ nel momento della sua condanna a morte che Cristo dice di essere venuto a testimoniare la verità e si sente dire sprezzantemente da Pilato: "e cos’è la verità?". Ma lo stesso Pilato esclama: "Ecco l’uomo!" [cfr. Gv 19,5]. La preoccupazione di S. Paolo era che non fosse resa vana la Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17). Questa preoccupazione coincide con la preoccupazione che non sia reso vana l’esistenza della persona, poiché la vanificazione della Croce comporta sempre la vanificazione della persona. E’ questa la tesi che cercherò di mostrarvi questa sera nella seconda parte di questa catechesi. La quale si articolerà in due punti o momenti: nel primo momento cercherò di descrivere il dramma dell’uomo, quello che ciascuno di noi è chiamato ogni momento a vivere; nel secondo momento cercherò di mostrare la relazione che esiste fra il dramma dell’uomo e la Croce di Cristo.
2,1 [Il dramma dell’uomo]. C’è un proverbio popolare che dice: "non è tutto oro ciò che luccica". Esso può servirci da introduzione dentro al dramma dell’uomo: la confusione fra l’essere e l’apparire. Ci sono "cose" che sembrano talmente simili fra loro da essere ritenute identiche. Pascal, per esempio, dice che nulla è più simile all’amore della concupiscenza e nulla è più estraneo ad esso. In che senso questa riflessione è una buona introduzione alla introduzione del dramma dell’uomo? nel senso che fra le "cose" che sembrano più simili fra loro c’è anche la vera libertà e la pseudo-libertà, così che l’uomo è sempre nel rischio di far coincidere la libertà con la sua reale distruzione. E poiché la libertà è ciò che fa essere la persona, come vedremo, confondere vera libertà e pseudo-libertà equivale a tramutare il dramma dell’uomo in tragedia. Che resta sempre tale, anche se oggi è recitata spesso al modo di commedia o farsa. E siamo ormai dentro al nucleo essenziale del primo punto della mia riflessione: il dramma dell’uomo è il dramma della sua libertà; è il dramma implicato dentro all’esercizio della sua libertà. Ed è di questo che voglio parlare.
"Video meliora proboque et deteriora sequor", scrive il poeta latino descrivendo un’esperienza comune a tutti. La persona scopre la verità sul bene della persona stessa. Non si tratta di sapere una verità qualsiasi su se stesso: una verità che può essere conosciuta per esempio dalla psicologia, dalla sociologia o dalla biologia. E’ una conoscenza di se stesso in quanto soggetto chiamato a realizzare se stesso mediante le sue scelte libere: è una verità di se stesso in quanto chiamato ad agire. La verità della persona in atto. In fondo, ciò che dell’uomo (di me stesso) io conosco attraverso la biologia, la psicologia e la sociologia non riguarda la mia persona in quanto è causa dei suoi atti [= è libera], ma riguardo solo ciò che avviene nella mia persona.
Ho parlato di "realizzazione di se stesso". Dicendo questo ho dato la definizione di "beatitudine". Ma non si tratta di una qualsiasi realizzazione: è la realizzazione che consiste nel fare quel bene mediante il quale l’uomo come persona diventa buono ed è buono. E’ della conoscenza della verità che riguarda questa realizzazione ciò di cui sto parlando: la verità, appunto, sul bene della persona.
"Video meliora", dice il poeta. Ma aggiunge: "proboque= lo approvo". E’ un momento questo assai prezioso nella vita della nostra persona, perché è il momento in cui la conoscenza della verità sul bene comincia a penetrare dentro alla mia libertà. E’ questo un punto assai importante per capire il dramma della persona. Una cultura superficiale e disumana come quella in cui viviamo ci ha convinti, come fosse un fatto indiscutibile, che la libertà della persona consiste nell’indifferenza, nella neutralità della nostra volontà di fronte al bene conosciuto e al suo contrario. Se noi stiamo veramente attenti a ciò che accade in noi, noi vediamo al contrario che esiste una profonda sintonia fra il bene conosciuto e il desiderio della persona. Anche nel mondo dello spirito esiste il fenomeno della "risonanza" studiata dai fisici. Se nella stessa stanza ci sono due diapason e faccio vibrare il primo, anche l’altro inizia a vibrare.
Esiste una corrispondenza fra il bene conosciuto dalla mia ragione e la mia volontà, la mia persona: una corrispondenza che precisamene manifesta, rivela che io sono fatto per realizzare quel bene. Rivela che la ragione conosce la verità sul bene di me stesso: "io sono fatta per amare, non per odiare" dice Antigone. Nel momento in cui, direbbe Paolo, "acconsento nel mio intimo alla legge di Dio" (Rom 7,22), io sono come preso, afferrato ed imprigionato dalla verità. In altre parole, "dal momento in cui, constatando una data verità, l’ho riconosciuta come verità col il mio proprio atto di conoscenza, ho posto me stesso e la mia libertà nella trappola della verità" [T. Styczen, Essere se stessi è trascendere se stessi, in K. Woitila, Persona ed atto, Rusconi ed. Milano 1999, pag. 722]. Nel momento in cui Antigone dovendo scegliere se dare sepoltura al fratello esponendosi così alla pena capitale, oppure vivere nella città rifiutandosi di compiere l’atto di pietà, capisce di essere fatta per amare, in quel momento ella è già stata "intrappolata dentro alla verità" dell’amore.
"Deteriora sequor", prosegue il poeta, ancora una volta descrivendo ciascuno di noi: faccio non il bene, ma il male. Qui sta tutto il dramma umano! Dal momento in cui ho conosciuto la verità sul bene della persona ["io sono fatta per amare, non per odiare"], c’è un solo modo vero di realizzarmi: confermare nell’atto della libera scelta la verità già da me precedentemente conosciuta [Antigone deve dare sepoltura a suo fratello, costi quel che costi]. Ciò che è in questione non è la verità stessa [non si tratta di accettare o non, dopo aver fatto le debite misure, che il Nilo è più lungo del Rio delle Amazzoni]. La posta in gioco sono io stesso. E’ il mio "essere-non essere" me stesso. Non posso negare nei fatti quella verità da me conosciuta, senza negare me stesso [se Antigone non conferma in atto di essere fatta per amare con l’atto della sepoltura, non prevarica contro il fratello: prevarica contro se stessa ]. "Non posso trascurare con l’atto di libera scelta la verità da me conosciuta, senza operare una frattura in me stesso, che arriva al profondo del proprio io. Ecco allora il mio proprio io, certamente lo stesso che come soggetto della conoscenza prende – assumendo il ruolo di testimone oculare – la parte della verità conosciuta, contraddice se stesso rinnegando – come soggetto della libera scelta – la verità da sé conosciuta. E’ difficile pensare a un più assurdo e nello stesso tempo più autodistruttivo uso della propria libertà" (T. Styyczen, cit. pag. 722). "Noi siamo liberi quando ci sottomettiamo alla verità", scrive S. Agostino. La libertà è vera, costruisce l’uomo nell’uomo, quando si sottomette alla verità sul bene della persona. La condizione drammatica dell’uomo è che esso può decidere di essere libero contro (la verità di) se stesso. Nessuno più di Dostoevskij ha visto questa condizione drammatica.
Ora questa condizione drammatica può essere vissuta in due modi opposti: la libertà sfidata dalla verità si realizza o come libertà nella verità oppure come libertà contro la verità. Nella seconda ipotesi il dramma diventa tragedia.
Essa può essere "recitata", e di fatto lo è stato, in tre modi fondamentali. Il primo è stato quello di "liberare la libertà dalla verità" attribuendo alla libertà della persona la facoltà non solo di sottomettersi o non alla verità, ma il potere di determinare la verità sull’uomo in base alle convenzioni sociali. La verità sull’uomo è decisa semplicemente dalle convenzioni, dal patto sociale. Di conseguenza, la condizione sufficiente per determinare che cosa è bene/male per l’uomo diventa esclusivamente il patto delle parti interessate, e la via unica per concluderlo, la votazione. Perché il dramma si è trasformato in tragedia? perché in questo modo ogni prevaricazione contro l’uomo è possibile dal momento che è l’uomo stesso a consentire di essere prevaricato.
Il secondo modo è stato quello di "liberare la libertà dalla verità", giudicando che questo legame semplicemente non esiste, dal momento che non esiste nessuna verità sul bene della persona. Ciascuno ricerchi il proprio utile. Il primo grande teorico di questa posizione è stato D. Hume [cfr. per es. A treatise on Human Nature, vol. II, punto III, se. 3: "Non è contrario alla ragione che io preferisca la distruzione del mondo intero piuttosto che graffiarmi un dito; né è contrario alla ragione che io scelga la mia completa rovina". Cfr. trad. it. Laterza, Bari 1987, pag. 437]. Qui la tragedia si andrà sempre più trasformando in farsa: la farsa del gaio nichilismo relativista contemporaneo.
Alla radice di questi due modi di "recitare" il dramma umano sta la terza modalità, la vera tragedia accaduta nell’uomo di oggi: l’ho chiamata nella mia lettera pastorale per il Giubileo il "collasso della ragione". Essa ha come mutilata se stessa, rifiutandosi di donare all’uomo il pane della libertà, la conoscenza della verità sul bene. E’ stata come una sorta di rinuncia a se stesso: la decisione di non entrare nel dramma della libertà; anzi di uscirne, perché ogni uomo vi si trova dentro. Ed il risultato è stato il più grande asservimento dell’uomo: non c’è alternativa. O l’uomo realizza se stesso subordinandosi alla verità ed è libero; o l’uomo realizza se stesso negando la verità conosciuta, ed allora asservisce se stesso al potente di turno che decide quale è il bene della persona imponendola colla violenza o colla persuasione occulta.
2,2 [La Croce di Cristo]. Ho appena finito di descrivere la decisione dell’uomo di rendere vana la Croce di Cristo: è stata questa la modalità di vanificare la Croce di Cristo. Quella di trasformare il dramma della libertà in tragedia vissuta ormai come una farsa. Perché questa situazione vanifica la Croce di Cristo?
E’ necessario riportarci subito al centro della fede cristiana individuato nella Professione di fede colle seguenti parole: "per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo… e si è fatto uomo". Dunque, al centro della fede cristiana sta la convinzione che l’uomo è in pericolo di perdersi, che ha bisogno di essere salvato e liberato da questo rischio. Questo pericolo, questa condizione di rischio è talmente grave che il Figlio stesso di Dio non si esime dall’impegnarsi Egli stesso in quest’opera di liberazione. Togli questa visione dell’uomo, nega che l’uomo si trovi in questo rischio e tutto il Vangelo diventa semplicemente insignificante. In che modo questa visione dell’uomo può essere negata?
Prima di rispondere, permettetemi ancora una volta di attirare la vostra attenzione sulla "posta in gioco" quando dico: l’uomo è in pericolo di perdersi. Non sto parlando di un pericolo qualsiasi: pericolo di perdere la salute fisica o psichica colla malattia; pericolo di perdere la propria ricchezza e così via. Ciò che qui è a rischio sei tu stesso: è il tuo io stesso che è in pericolo di essere distrutto. Da chi? dalla tua libertà! In che senso? nel senso che la libertà, colle sue scelte, costruisce la tua persona solo se e solo quando è la libertà nella verità; nel senso che la libertà può rifiutare di porsi al servizio della verità, portando all’inevitabile distruzione dell’uomo che sceglie.
E’ di questo che il cristianesimo ed ogni attenta e ragionevole considerazione dell’uomo parlano, quando dicono che ogni uomo è sempre nel rischio di perdere se stesso.
Ed ora ripropongo la domanda lasciata in sospeso: chi nega questa condizione di pericolo estremo in cui versa l’uomo? la negazione può assumere due forme fondamentali. La prima: l’uomo non è affatto in pericolo perché ha in se stesso la forza necessaria e sufficiente per essere libero nella verità; egli è sempre capace di fare il bene [= pelagianesimo]. La seconda: tutto il discorso precedente è semplicemente privo di senso, poiché è l’uomo stesso che determina, che possiede il potere di determinare quale è il vero bene dell’uomo ed il suo vero male. Attribuendo alla sua libertà il potere di determinare la verità su di sé [la sua essenza o natura], la persona umana si è semplicemente posta fori dal dramma della sua possibile cancellazione, poiché si è posta "al di là del bene e del male". Che senso ha parlare, come fa il cristianesimo, di una salvezza dell’uomo? nessuno. Perché? perché semplicemente l’uomo non sta correndo nessun pericolo: la tragedia s’è trasformata in farsa. Ed allora … in una farsa cosa ci sta a fare la Croce di Cristo? nulla.
Il nostro cammino faticoso, perché partito "dal basso" per incontrarsi con la Croce, si incontra ora col cammino di discesa dalla Croce all’uomo: ora possiamo finalmente ascoltare che cosa dice all’uomo sull’uomo la Croce.
Se Dio si fa uomo per salvare l’uomo; se Dio per salvare l’uomo si fa crocifiggere, allora due cose risultano evidenti: l’uomo si trova veramente in grave pericolo di perdere se stesso; Dio si interessa veramente, a Dio preme supremamente che l’uomo non si perda. E pertanto nella luce della Croce vengo a sapere le due verità più paradossali dell’uomo: l’uomo è l’essere più a rischio in tutto il creato; l’uomo è l’essere più grande di tutto il creato. Nessuno e niente umilia ed esalta maggiormente l’uomo della Croce di Cristo: togli la Croce, e l’uomo si infrangerà o contro lo scoglio della disperazione o contro lo scoglio dell’autoesaltazione. La coscienza e della miseria drammatica dell’uomo e della sua incomparabile dignità è parte integrante della fede cristiana incentrata nel mistero della Croce.
Ma è di fondamentale importanza sapere che la Croce non solo "dice": non è solo luce. Essa è anche forza che libera l’uomo dal rischio di negare con la sua scelta quella verità sul suo bene che lui stesso ha riconosciuto colla sua ragione.
Solo "uno che ha vissuto interiormente l’atto della prevaricazione della verità come dramma dell’autoprevarivazione, come problema del suo "essere" o "non essere" se stesso, come cosa del livello di salvare o cancellare il suo volto … solo uno che ha vissuto l’atto della prevaricazione della verità come suo dramma personale" [T. Styczen, op. cit., pag. 748], può guardare la Croce con occhi profondi. E reciprocamente, solo chi guarda la Croce con occhi profondi può capire il dramma di una libertà che può affermare il suicidio dell’uomo come auto-creazione dell’uomo. Carissimi giovani: guardate sempre alla Croce di Cristo perché solo così non si oscurerà mai in voi la consapevolezza dell’intera verità della vostra persona.
Conclusione
Carissimi fratelli e sorelle, la nostra meditazione sulla Croce ci ha mostrato Chi è veramente Dio. Ci ha mostrato che in essa è il vero "tornante" della nostra storia: ciò che è accaduto sopra essa ha completamente cambiato la nostra condizione. Essa ha reso possibile ciò che il cuore desidera: la vera beatitudine; ha reso possibile pervenirvi perché ha liberato la nostra libertà: l’ha resa capace di amare. Poiché questo era la nostra condizione:
"E’ come se qualcuno riuscisse a vedere da lontano la patria, ma ci sia il mare che lo separa da essa. Egli vede dove andare, ma gli manca il mezzo con cui andare … C’è di mezzo il mare di questo secolo attraverso il quale dobbiamo andare, mentre molti non vedono neppure dove devono andare. Perciò, affinché ci fosse anche il mezzo con cui andare, venne di là Colui al quale volevamo andare. E che cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa Croce potrà stringersi, talvolta, anche chi ha gli occhi malati. E chi non riesce a vedere dove deve andare, non si stacchi dalla Croce, e la Croce lo porterà".
[S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni II, 2, Rusconi ed., Milano 1994, pag. 54]
O Crux ave, nostra spes unica!
Nessun commento:
Posta un commento