Questa volta affrontiamo un testo particolarmente importante, quello che narra la passione e la morte di Gesù. Rimarremo nella cornice del vangelo di Giovanni, anche se sarà opportuno qua e là il supporto delle narrazioni degli altri tre vangeli, i cosiddetti sinottici, cioè Marco, Matteo e Luca. Certo, ogni racconto va letto nel quadro del vangelo a cui appartiene, perché è con esso coerente, ma noi, pur non tralasciando questo aspetto redazionale, citeremo talvolta anche gli altri vangeli, perché confermano l’assunto dei nostri interventi: il Nuovo Testamento legge l’evento storico riguardante Gesù Cristo con il codice culturale dell’Antico Testamento e del giudaismo contemporaneo.
Il racconto giovanneo della Passione rispetta sostanzialmente l’articolazione delle scene che si ha nei sinottici, anche se ne fa una presentazione originale, dovuta sia al materiale testuale proprio posseduto dall’autore del vangelo sia al progetto teologico che egli svolge e per il quale rimandiamo ai nostri contributi precedenti.
La prima scena (Gv 18,1-11) si svolge nel giardino che gli altri vangeli chiamano Getsemani (Mt 26,36; Mc 14,32). Gesù vi si reca con i suoi discepoli, “andando al di là del torrente Cedron” (Gv 18,1). Giovanni non dà altri riferimenti topografici se non quello di “giardino” dove Gesù usava riunirsi con i suoi. I tre sinottici dicono invece che il luogo era sul “Monte degli Ulivi”.
Sicuramente Giovanni pensa allo stesso luogo, ma la sua prospettiva è differente. I sinottici sottolineano l’identità del “Monte degli Ulivi”, perché sono fortemente immersi in un’ atmosfera apocalittica: la passione di Gesù comincia a verificarsi nel luogo in cui, secondo le profezie doveva iniziare l’avvento di Dio e del suo regno: “Ecco, viene un giorno per il Signore; allora le tue spoglie saranno spartite in mezzo a te. Il Signore radunerà tutte le genti contro Gerusalemme per la battaglia…Il Signore uscirà e combatterà contro quelle nazioni…In quel giorno i suoi piedi si poseranno sul Monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente e il Monte degli Ulivi si fenderà in due, da oriente ad occidente, formando una valle molto profonda…Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi…” (Zac 14,1-5).
Giovanni non ha invece questa prospettiva apocalittica, anche se pure lui è convinto che la morte di Gesù e la sua risurrezione o vittoria coincidano come realtà escatologica. Egli fa sì che Gesù si rechi in un “giardino”, da dove inizierà la sua passione, e in un “giardino” lo farà seppellire (Gv 19,41s), là cioè dove si verificherà la resurrezione. Sembra quasi voler dire che, come in un giardino, quello dell’Eden (Gen 2-3), il peccato fece nascere la morte, ora in un giardino la morte di Gesù si trasforma in resurrezione. Il Getsemani è per il momento il luogo dell’arresto di Gesù e contemporaneamente, come piace allo stile giovanneo, della sua rivelazione. Quando egli domanda alle guardie chi cerchino e quelle rispondono “Gesù il Nazareno”, Gesù dichiara: “Io sono!”, evocando la rivelazione che Dio fa del suo Nome a Mosè in Es 3,14.
La seconda scena (18,12-27) si svolge davanti ai sommi sacerdoti Anna e Caifa, dai quali Gesù viene interrogato. Alla domanda di Anna circa i suoi discepoli e la sua dottrina, Gesù risponde con parole che riecheggiano quelle di Dio in Is 45,19: “Perché m’interroghi? Domanda a quelli che hanno sentito quello che ho loro insegnato; essi sanno quel che ho detto” e Isaia: “Io non ho parlato in segreto, in un angolo oscuro della terra. Non ho detto alla discendenza di Giacobbe: cercatemi in un’orrida regione! Io sono il Signore, che parlo con giustizia, che annunzio cose rette!”. Nella scena riproposta da Matteo e Marco, invece, la risposta di Gesù alla domanda del sommo sacerdote circa la sua identità, è ancora di marca apocalittica: “Io lo sono (il Cristo, cioè il Messia) e vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo” (riferimento sia a Dan 7,13 che al Salmo messianico 110,1).
La terza scena (18,28-19,16), molto lunga ed elaborata, vede Gesù davanti a Pilato solo, prima, e, davanti a lui e alla folla, dopo. Il dialogo umano tra Gesù e il governatore si svolge nell’aura del mistero di quel che si sta verificando, la lotta tra le tenebre e la luce, motivo centrale del vangelo giovanneo e tema diffuso nel giudaismo del tempo. La “verità”, che in Giovanni s’identifica con Gesù, è preclusa a chi non sa comprendere (18,38), ma è ancor peggio per chi impedisce di farla comprendere (19,11). L’evangelista non fa un reportage di cronaca dei fatti, bensì una riflessione teologica; egli si serve delle immagini storiche per esprimere una verità di ordine teologico e non viceversa. In altre parole, egli vuole mettere a fuoco una verità che trascende i confini della storia, anche se in essa avviene. Il Verbo di Dio è una realtà che confligge con le leggi del mondo. Questa incompatibilità è dipinta magnificamente nella presentazione che Pilato fa di Gesù alla folla, dopo averlo fatto flagellare: “Ecco l’uomo!” (19,5). Gesù è un re: ha una corona e un mantello di porpora, emblemi regali, ma essi nella dimensione presente sono il segno dell’umiliazione (19,1-3). E il grido di esaltazione che sulla terra si fa per un re, per Gesù si trasforma in un “Crocifiggilo!” (v.15).
La quarta scena (19,16-30) ci propone la crocifissione e la morte di Gesù, espresse in vari quadri. Il Cristo crocifisso tra due altri condannati (da Giovanni non chiamati “ladri” come dagli altri vangeli) evoca il Servo di Dio descritto da Isaia: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,12). Lo stesso riferimento biblico è fatto anche dagli altri tre vangeli, tra i quali Luca in particolare fa intercedere Gesù per i suoi persecutori (Lc 23,33). La figura del Servo sofferente è particolarmente importante e densa di significato, perché ha una portata messianica (vedi Gv 19,23-24 e Sal 22,19). Tuttavia, i quadretti che articolano la quarta scena in Giovanni sono diversi rispetto ai sinottici, ancora una volta per motivi redazionali.
Mentre ai sinottici interessa sviluppare i tratti della figura del Servo o del Giusto perseguitato (vedi Mc 15,29-36 e Sap 2,10-20), a Giovanni premono altri interessi, soprattutto di tipo ecclesiologico e sacramentale: l’affidamento della Madre, Maria, al discepolo prediletto (19,25-27), la morte come emissione dello Spirito (19,30), la fuoriuscita del sangue e dell’acqua dal colpo di lancia nel costato (19,33-35), dato perché si realizzasse il testo rituale della Pasqua ebraica: “Non gli sarà spezzato un osso” (Es 12,46): Cristo, quindi, come vero agnello pasquale (vedi (Gv 1,29).Il racconto degli ultimi giorni di vita di Gesù, fatto da Giovanni culmina e termina naturalmente con la resurrezione, che merita tutto un discorso a parte. Noi ci fermiamo qui, perché abbiamo sufficientemente constatato ancora una volta come i Padri della nostra fede, cioè la comunità apostolica, fosse costituita da ebrei che hanno espresso la loro esperienza di fede in termini ebraici. La loro predicazione ha cercato di far capire al mondo il significato profondo dell’evento pasquale, un evento che non riguardava più semplicemente una nazione, bensì l’umanità intera alle prese col problema eterno del bene e del male, della vita e della morte.
http://web.tiscalinet.it/nostreradici/passione_Giovanni.htm
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