Ignace DE LA POTTERIE. Testi sulla Risurrezione di Gesù in Giovanni

Ignace DE LA POTTERIEGuardare per credere (Cap. XX di Giovanni. Intervista di Antonio Socci)tratto da Il Sabato, 14.11.1992, n. 46, p. 60-65.Si chiama «pedagogia del vedere». E' quella a cui Gesù ricorre nel capitolo 20 di Giovanni. Che leggiamo in traduzione sbagliata. Padre Ignace de la Potterie, gesuita e famoso biblista, lancia la polemica Gesù Cristo è veramente risorto dai morti? E' davvero apparso ai suoi nella sua carne gloriosa, facendo mettere a Tommaso le mani dentro le sue ferite? Sono domande esplose in questo periodo non in accademie teologiche, ma -e forse non era mai accaduto- sui giornali, come uno scottante problema d'attualità. E' colpa -secondo Monsignore Gianfranco Ravasi intervistato dal "Corriere della sera"- di «una pattuglia di giornalisti»: noi. Al teologo di "Famiglia cristiana" non va giù che le ricerche archeologiche confermino clamorosamente la storicità dei Vangeli. Egli denuncia il fatto che «continua in modo scomposto e frenetico l'interesse per il Gesù della storia». Un altro illustre teologo, dalle colonne di "Avvenire" polemizza così: «Si sente in giro una declamazione della "carne" di Cristo, associata a retorica "antintellettualistica" che nulla ha a che vedere con la salvezza cristiana integrale». Per aver sottolineato la storicità e la fisicità della resurrezione e delle apparizioni di Gesù, due importanti teologi tedeschi, Walter Kasper e Karl Lehmann, ci hanno accusato di "grossolanità". Seguono Karl Rahner per cui le apparizioni pasquali non vanno viste «come esperienza quasi grossolanamente sensibile». Campione di questo "centrismo" teologico è anche Raymond Brown, fra i più noti biblisti cattolici americani, ed editore del "Grande commentario biblico", che ha appena ripubblicato da Queriniana "La concezione verginale e la risurrezione corporea di Gesù". La domanda è: la resurrezione di Gesù Cristo è o non è un fatto, «l'avvenimento unico e strepitoso che fa da perno a tutta la storia umana» (Paolo VI)? E le apparizioni sono fatti storici di cui esistono testimoni oculari o no? Padre Ignace de la Potterie, consultore dell'ex Sant'Uffizio e conosciuto come esperto del Vangelo di Giovanni, ha accettato di rispondere a queste domande. La conversazione comincia con una rivelazione curiosa. Nella Bibbia oggi in circolazione -sia quella della Cei tipica per la liturgia, sia quella di Gerusalemme- alla fine dell'episodio di san Tommaso si leggono queste parole di Gesù: «Perché mi hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20,29). Padre de la Potterie parla di una traduzione sbagliata. Torneremo più avanti su questo fatto. «Nel Vangelo di san Giovanni» premette il gesuita dell'Istituto biblico «il "vedere" ha un'importanza fondamentale. E specialmente tutto il capitolo 20, quello delle apparizioni del Risorto, l'evangelista insiste sul "vedere" come primo passo indispensabile per arrivare a credere. In poche righe troviamo 13 volte questo verbo. All'inizio c'è un vedere sensibile che poi conduce alla contemplazione, nella profondità del visibile, si tocca il Mistero. C'è dunque uno sviluppo del "vedere", è Gesù stesso che insegna ai suoi a guardare, è il suo metodo pedagogico». Ravasi, nell'intervista al "Corriere", attacca così: «trascurando il dato trascendente per quello storico si compie un'operazione monofisita, si riduce Gesù a una sola natura, quella umana. Una ricerca solo storica, dunque, è illegittima dal punto di vista teologico». De la Potterie: Ma con quale diritto si pretende di imputare a questi credenti quel "solo" di sapore eretico (fa pensare al «sola fide» di Lutero), accusandoli addirittura di monofisismo: ma chi ha mai detto "solo" Gesù della storia? Non "solo", ma "anche". Il problema è che sembra che si voglia oggi eliminare la storia. Questo sì è monofisismo! Sant'Agostino commenta l'episodio di san Tommaso scrivendo: «Toccò l'umanità, riconobbe la divinità: toccò la carne, fissò l'occhio sul Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne ed ha abitato in mezzo a noi». De la Potterie: Certo. Vedere l'uomo gli fu necessario per riconoscere Dio. Nell'ultima Cena Gesù dice: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (14,9). E' il versetto centrale del quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente, anche i suoi nemici lo vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per pervenire progressivamente a contemplare in lui, con l'occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto carne. E' Gesù, con le parole, i gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al Mistero e conduce dal "vedere" un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il "vedere" fisico, per tutto il Vangelo, è la via d'accesso al Mistero. Questa pedagogia del vedere diventa esplicita -è Gesù stesso che la spiega- nel capitolo 20. E pochi finora sembrano averlo capito. Dunque cosa è possibile scoprire... De la Potterie: Il punto di partenza è ciò che si vede con questi nostri occhi di carne: si comincia dai segni, come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale in cui s'imbatte Maria Maddalena, che poi riconosce in lui Gesù... E' una progressione. Anche del verbo vedere: prima il verbo greco "bleso", che vuol dire scorgere, notare qualcosa. Poi "theorein" che troviamo per la Maddalena e vuol dire guardare attentamente, osservare. Poi il verbo "horan", al perfetto greco che esprime la forma perfetta del verbo vedere e che io tradurrei qui «ora vedo perfettamente, contemplo il senso profondo di ciò che vedo». Dunque dall'accorgersi di qualcosa alla contemplazione del Mistero di Dio nella realtà visibile, questa è la dinamica della prima fede cristiana, secondo i Vangeli. E' una "storia" raccontata attraverso gli occhi degli apostoli. De la Potterie: Certo. L'evangelista però cerca di descrivere, nei primi testimoni della resurrezione, l'approfondimento progressivo del loro sguardo su Gesù. Il semplice "blepein" (accorgersi) dell'inizio, diventa uno sguardo attento, scrutatore (theorein), ma la pienezza della fede pasquale è espressa solo dal verbo al perfetto (heôraka ton Kyrion). «Ho visto il Signore» come annuncia la Maddalena ai discepoli. L'evangelista ha curato tutti i particolari di questo capitolo? De la Potterie: Il capitolo è costruito in maniera concentrica. Primo episodio: i due apostoli, Pietro e Giovanni, al sepolcro (vv. 1-10). Secondo: l'apparizione alla Maddalena (vv. 11-18). Terzo: l'apparizione ai discepoli senza Tommaso (vv. 19-25). Infine, quarto: l'apparizione in presenza di Tommaso (vv. 26-29). Il primo episodio è parallelo al quarto e il secondo al terzo. Questa struttura sottolinea che la fede in Cristo risorto si basa sulla testimonianza «di quelli che "hanno visto" il sepolcro vuoto e il Signore vivo». Sono parole di padre Mollat. Non si parla più spesso in questo modo oggi. Si fanno oggi molti distinguo sulla fisicità del Risorto al punto da teorizzare che «se il corpo di Gesù si corruppe nella tomba e pertanto la sua vittoria sulla morte non implicò una risurrezione corporea» (Crown) cambia solo il significato teologico. Eppure prendendo alla lettera san Giovanni, Gesù torna fra i suoi con la sua carne, le sue ferite che Tommaso può toccare. De la Potterie: Infatti la resurrezione della carne, non è un mito, non è un «theolegumenon», cioè un puro significato teologico (cfr. "30Giorni" agosto-settembre 1992, pag. 71). E' innanzitutto un «fatto», come disse Paolo VI al Congresso sulla Resurrezione nel 1970. Però il Signore glorioso, anche nel suo corpo, non è più limitato dal tempo e dallo spazio. Dopo che è salito al Padre non ha più i limiti dell'uomo di prima pur essendo la stessa persona: è il Signore risorto. Così, nonostante le porte chiuse, entra e si mette in mezzo a loro. Gesù aveva promesso molte volte «io torno in mezzo a voi». Ecco questo prepara il nuovo modo della sua presenza nella Chiesa, Gesù Cristo ormai risorto, rimarrà misteriosamente presente fra noi. Di questa presenza futura invisibile e permanente le apparizioni del Risorto visibile ma misterioso sono allo stesso tempo l'annuncio e il segno. Secondo Ravasi «è necessario distinguere fra l'apostolo e l'anonimo evangelista». Gran parte degli esegeti cattolici la pensano così. Anche Brown: «Gli evangelisti appartengono alla seconda generazione dei cristiani e non furono essi stessi testimoni oculari». E aggiunge che la lettera di Paolo ai Corinti è «l'unica testimonianza della risurrezione nel Nuovo Testamento scritta da uno che sostiene di aver visto Gesù risorto». Per quale motivo si dice che «è necessario fare quella distinzione»? De la Potterie: I Vangeli che fine fanno? E il Vangelo di Giovanni? E' tutto un mito? Quel Vangelo è innanzitutto la testimoniaza di uno che «ha visto». Si rilegga, prima di scrivere queste cose, il prologo della Prima lettera di Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi ciò che noi abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, del Verbo della vita (poiché la vita si è manifestata, noi abbigamo veduto e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era rivolta verso il Padre e si è manifestata a noi) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi». Dunque, cosa riferisce il testimone Giovanni? De la Potterie: Limitiamoci alle apparizioni pasquali. Il primo episodio, Pietro e Giovanni al sepolcro, la tomba vuota, le bende e Giovanni che «cominciò a credere» (non «credette» come recita la traduzione normale, perché subito dopo aggiunge: «Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura»). E' la fede iniziale del discepolo che Gesù amava. Anche per la Maddalena è molto chiara la purificazione progressiva del suo sguardo. Quando riconosce quell'uomo dice «Maestro, sei tu!» No, non è più il maestro di prima. Maria è legata alla vecchia immagine che aveva di lui. Ma poi accetta il riconoscimento della fede: è il Signore risorto. E lui stesso che glielo dice. Allora capisce: Gesù non è più come prima pur essendo sempre la stessa persona. Poi l'apparizione ai discepoli senza Tommaso. De la Potterie: I discepoli sono pieni di gioia «alla vista del Signore». Diranno a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore». Lo avevano riconosciuto prima che aprisse bocca, perché avevano accettato la testimonianza della Maddalena. E' molto importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò che Tommaso non fa. Lui diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su testimonianza, infine vedere e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che permette di cogliere il senso delle cose, tutta la profondità della realtà. E' questo che Gesù rimprovera a Tommaso, non essersi fdato? De la Potterie: E' molto importante l'episodio di Tommaso. Anche lui appartiene ai dodici, quindi a coloro che dovevano vedere fisicamente il Signore risorto e testimoniarlo davanti alla storia e all'umanità. Però anche a lui, inizialmente, è chiesto di credere alle testimonianze, come gli altri avevano già creduto alla testimonianza della Maddalena (e come è chiesto a noi). Non fidarsi delle testimonianze: qui sta l'errore di Tommaso. Arriviamo così al famoso versetto 29: «Beati coloro che crederanno senza aver visto». Gesù stesso sembra opporsi al bisogno dell'uomo di vedere. Sembra chiedere una fede cieca. De la Potterie: No. Quel verbo non è al futuro, come viene interpretato. Sia nel testo greco che nella Vulgata latina il verbo è all'aoristo (tempo passato): «Tu hai creduto perché hai visto» dice Gesù a Tommaso «beati coloro che anche senza aver visto (me direttamente) hanno creduto». Anche Tommaso avrebbe già dovuto fidarsi della testimonianza degli altri, i quali avevano già creduto sulla testimonianza della Maddalena. C'è un cammino da fare per ciascuno. Dunque il verbo al passato si riferisce agli apostoli? De la Potterie: Sì, o piuttosto al discepolo amato. Lui «ha cominciato a credere» («Vidi et credidi», 20,8). Ha cominciato a credere con i segni. Non è quindi la richiesta di una fede cieca... De la Potterie: Esatto. E' la beatitudine promessa a chi comincia a credere a partire dai segni e dà credito alla testimonianza. E perché è stato stravolto il tempo di quel verbo? De la Potterie: Perché si pensa subito ai credenti nella Chiesa. Tipico è il caso di Bultmann che traduce al presente: «Beati coloro che non vedono e credono». Nella traduzione delle Paoline G. Segalla commenta: «Ad una fede si deve arrivare, però senza la pretesa di Tommaso: il riferimento è ai futuri credenti». Ma quel verbo era al passato, non al futuro come lo comprendono anche Schnackenburg e la Bibbia di Gerusalemme. Ed è passata così anche l'interpretazione di Bultmann. De la Potterie: Indirettamente sì. Se si traduce al futuro quel verbo, allora Bultmann può interpretare la frase di Gesù «come una critica radicale dei "segni" e delle apparizioni pasquali e come una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore» (D. Mollat). E' esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso, non è di aver "visto" Gesù, poiché Gesù stesso ha voluto manifestarsi a lui. Il rimprovero cade sul fatto che Tommaso ha rifiutato, all'inizio, di dare credito all'annuncio dei discepoli. E ha voluto porre e definire lui stesso le condizioni della fede. Tuttavia Gesù accede al suo desiderio e si lascia toccare, ma lo invita formalmente a superare quella posizione equivoca e pericolosa in cui si era posto. L'interpretazione di Bultmann ha fatto scuola fra i cattolici. De la Potterie: Lo si vede soprattutto nell'imbarazzo con cui vengono trattate le apparizioni pasquali. Dice Bultmann: «Le apparizioni ai discepoli rappresentano una concessione alla loro debolezza. In fondo non sarebbero richieste». C'è qui una critica radicale al valore stesso dei racconti pasquali, a cui è dato un valore molto relativo. Questi -per Bultmann, seguito da molti teologi contemporanei- «non sono da comprendere come racconti di eventi storici, così da indurre forse il lettore ingenuo a voler fare anche lui la stessa esperienza, e neanche come sostitutivo di tale vedere perché si vuole una garanzia della resurrezione». Insomma è la pura posizione protestante: la fede cieca («sola fide»). E cosa sono allora, per Bultmann e gli altri, questi racconti? De la Potterie: Dice Bultmann: «Sono soltanto immagini simboliche per la comunità nella quale sta colui che è salito al Padre». E così la resurrezione fisica di Gesù che fine fa? Un puro simbolo. Ma se quel versetto finale vuol dire che tutte quelle apparizioni non servono a nulla perché allora sono state riferite dall'evangelista? Se avesse ragione Bultmann il rimprovero di Gesù andrebbe esteso a tutti gli apostoli e anche alla Maddalena, anche loro hanno creduto «perché hanno veduto». Invece Gesù sembra voler insegnare a Tommaso a "guardare" con l'intelligenza di Giovanni al sepolcro. De la Potterie: Esatto. Infatti c'è un parallelismo strutturale fra i due episodi e Gesù dice «Beati coloro che non hanno visto» (me) però «hanno cominciato a credere» vedendo i segni. Si tratta di Giovanni (e Pietro) quando ha trovato il sepolcro vuoto (20,8). Dunque Gesù sottolinea l'importanza di "accorgersi" dei segni e dare credito ragionevole alle testimonianze? De la Potterie: Questa è la sua pedagogia. Lo stesso Agostino insegna questo cammino: dal vedere fisico a contemplare il mistero. E per il Concilio di Calcedonia Gesù è vero uomo e vero Dio. Allora il vedere fisico è decisivo, perché anche le testimonianze sono fondate su un fatto storico visto. Così all'origine della fede ci sono dei segni reali di cui «accorgersi» e delle testimonianze. Già sant'Atanasio invitava il suo interlocutore a credere alla resurrezione di Cristo «in base a ciò che accade davanti ai suoi occhi... in base a ciò che vedete». De la Potterie: Con Atanasio tutti i Padri della Chiesa. La fede cristiana è un cammino dello sguardo e –direi- lo è anche l'esegesi. Non sono del tutto d'accordo con padre De Lubac quando, alla fine di "Esegesi medievale", sostiene che l'approccio dei Padri è ormai una cosa del passato. Specialmente il 20° capitolo di san Giovanni mi sembra invitare all'antica e bellissima pratica cristiana della contemplazione delle scene dei Vangeli. Ignazio di Loyola, all'inizio dei tempi moderni, ha posto questa "applicatio sensuum" nei suoi esercizi spirituali: ci invita a guardare, contemplare, vedere, toccare... Sappiamo che era rimasto molto colpito da una pagina di Ludolfo di Sassonia. Ignace DE LA POTTERIEStupiti, non perplessitratto da 30 Giorni, anno X, novembre 1992, p. 72-73.Lo scorso mese, nel dibattito sulla storicità della Resurrezione tra il vescovo di Magonza Karl Lehmann e "30Giorni", sono stato chiamato personalmente in causa. Perciò vorrei fare alcune puntualizzazioni. Innanzitutto è contestata da monsignor Lehmann una frase di Paolo VI, detta a braccio durante il simposio "Resurrexit" del 1970 e riferita al giornalista di "30Giorni" Antonio Socci da me stesso che ero testimone. Secondo questa frase di Paolo VI, era importantissimo sottolineare «il fatto empirico e sensibile delle apparizioni pasquali» altrimenti, egli aggiungeva, si trasforma «il cristianesimo in una gnosi»; questo fu detto interrompendo il discorso rivolto agli studiosi al termine dei lavori. Questa frase colpì molti dei presenti e ha infastidito invece altri, tra cui oggi monsignor Lehmann, che ribatte a Socci che quella frase, essendo stata detta a braccio, non fa fede, e che invece fa fede solo il testo stampato di quel famoso discorso. Un'obiezione certamente lecita se non fosse che anche entro il testo stampato il Pontefice ribadì queste cose parlando «dei tentativi di una gnosi sempre rinascente sotto molteplici forme (...) la cui temibile inclinazione porta ad evacuare insensibilmente tutte le ricchezze e la portata di ciò che è innanzitutto un fatto: la Resurrezione del Salvatore». E ancora: «Vediamo questa tendenza manifestare le sue estreme conseguenze drammatiche, arrivando fino a negare, come accade fra fedeli che si dicono cristiani, il valore delle testimonianze ispirate, o, più recentemente, interpretando in modo puramente mitico, spirituale o morale la Resurrezione fisica di Gesù». Dunque la frase detta a braccio è solo un equivalente del testo stampato. Anzi, lo rafforza. Ma in quel discorso Paolo VI va ancora più al fondo del problema. Vediamone alcuni punti. Citando Romano Guardini, Paolo VI evidenzia il doppio aspetto della Resurrezione, che non viene colto sufficientemente oggi: da una parte l'aspetto del "mistero", della singolarità, e dall'altra la realtà "fisica" della Resurrezione. Ecco due citazioni di Guardini nel discorso del Papa: «Egli (Gesù) si muove con una libertà nuova, sconosciuta sulla terra, ma allo stesso tempo viene affermato che Egli è Gesù di Nazareth, in carne e ossa, come è vissuto precedentemente con i suoi, e non un fantasma». Seconda citazione di Guardini nel discorso del Papa: «Il Signore è trasformato. Egli vive in un modo diverso da prima. La sua esistenza presente è per noi incomprensibile. Eppure è corporea, contiene Gesù tutto intero... anzi, attraverso le sue piaghe, contiene tutta la sua vita vissuta, la sorte che egli ha subito, la sua passione e la sua morte». Questa insistenza sulla fisicità del Cristo Risorto non è casuale. Anche Sant'Ireneo contro gli gnostici sottolinea sempre l'aspetto "corporale" della salvezza. Uno dei temi fondamentali di Sant'Ireneo è infatti la "salus carnis", la salvezza della carne; prima per Gesù nella Resurrezione, e poi per noi, nell'escatologia. Che la carne sia salvata è contro tutta la gnosi antica, «sempre rinascente». Ci sono pagine bellissime dei Padri dei primi secoli sul doppio aspetto, quello della fisicità ma anche della singolarità, della Resurrezione; proprio in questo sta tutto il mistero di Cristo: Egli è vissuto tra noi, è morto, ha sofferto, ma è anche risorto. Ma è sempre Lui, è lo stesso Gesù Cristo. Ci torneremo prossimamente, partendo dal IV Vangelo. Vorrei invece riprendere adesso l'articolo di Socci, che per due volte fa riferimento a Rosino Gibellini, un teologo contemporaneo, autore de "La teologia del XX secolo" (1992) che afferma come oggi sia comune tra i teologi la distinzione tra la «realtà» della Resurrezione, che viene accettata, e la sua «fattualità storica» che invece fa problema. Questa distinzione di Gibellini corrisponde esattamente a quella fatta dal vescovo Lehmann (cfr. "30Giorni" agosto/settembre, p. 59). Inoltre Gibellini spiega a Socci che «la critica di Rudolf Bultmann ai racconti delle apparizioni del Risorto è ormai universalmente accettata da tutti i teologi moderni». Ma è proprio vera questa affermazione audace? Per quanto riguarda il primo punto andiamo a rileggere l'articolo di Lehmann, pubblicato nel volume "Resurrexit" alle pp. 297-315. In effetti il vescovo di Magonza distingue tra «realtà» della Resurrezione e «fattualità storica» (in tedesco Faktizitat) della stessa. Questa distinzione mi sembra accettabile in via di analisi; ma, per Lehmann, si direbbe che la «realtà» della Resurrezione è la sola cosa importante, mentre la «fattualità storica» della tomba vuota e delle apparizioni (la "Faktizitat") sembra essere quasi secondaria. Così Lehmann, ripreso da Gibellini, dice: il mistero della Resurrezione non è storico come tale, non c'era nessun testimone. Cos'è la Resurrezione? E' l'entrata, l'ingresso nella vita trascendente, nella vita gloriosa; questo sfugge alla storia come tale. Questo evento in quanto tale non ha avuto testimoni; dunque questo evento non sarebbe "storico" in senso stretto. Però, ribattono molti autori -e noi con loro- ci sono le apparizioni pasquali, la «fattualità storica» di quelle apparizioni, come Lehmann stesso la definisce; ma questo lo lascia perplesso, non lo convince. Lehmann, infatti, afferma che parlare della «humanitas Christi resuscitati» (p. 300) è solo un'astrazione. Ma quale astrazione! Invece è concretissima l'umanità di Cristo risorto. Interrogarsi sulla storicità delle apparizioni, secondo Lehmann, sarebbe una cosa problematica; diciamo piuttosto che questo è un falso problema. Perché, se le apparizioni fanno parte senza dubbio di un insieme più ampio, sono segno per noi di una realtà trascendente, che è la Resurrezione stessa. Ma se è così, allora non sono più secondarie. Scrive padre E. Dhanis, curatore degli Atti del convegno "Resurrexit", a pag. 602: «Le cristofanie pasquali furono sperimentate almeno parzialmente come dei dati visibili. Perciò noi le chiamiamo apparizioni» (il corsivo è nostro). E ancora (p. 626): «La Resurrezione di Gesù è un evento storico, non direttamente [non c'erano testimoni], ma indirettamente, cioè è un fatto a cui può arrivare con la sua riflessione anche la ricerca dello storico» partendo da eventi, testimonianze, eccetera. E sempre padre Dhanis scriveva a pagina 631 una cosa che mi sembra importante: «All'elemento sensibile delle cristofanie si aggiunse certamente una grazia spirituale». L'accenna anche monsignor Lehmann: non tutti potevano vedere e riconoscere Gesù, Egli appariva a chi voleva Lui, non era immediatamente riconoscibile. Però era Lui! Certo, non più come prima, ma era lo stesso Gesù. Questo si vede molto bene nelle apparizioni alla Maddalena, ai discepoli di Emmaus, a Tommaso. I discepoli erano sconcertati, confusi, ma avevano la certezza che era Lui, in carne ed ossa. Avevano la certezza e la gioia di averlo visto e udito realmente. In Lc 24,39, Gesù stesso dice ai discepoli: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!». Tra il Gesù di prima e il Cristo risorto, malgrado l'aspetto problematico della sua apparenza, c'è identità: «Sono proprio io». Nel suo articolo di "30Giorni" (p. 63), A. Socci cita anche due passi del decreto "Lamentabili" (1907) contro i modernisti, i quali negavano che la Resurrezione fosse «un fatto di ordine storico» (Denz. 3446). Perciò è interessante vedere come si è espresso su questo problema Maurice Blondel, il grande filosofo cattolico di quel tempo, che ha scritto molto sul rapporto tra "Storia e dogma", e sul "Valore storico del dogma". Parlando della Resurrezione, egli diceva che bisogna accettare «la realtà fisica del corpo risorto». La ragione è che «ha potuto essere constatato da diversi testimoni, e diverse volte». Tuttavia si deve anche riconoscere «il carattere storicamente anomalo di questa constatazione»: quella verifica sperimentale non poteva essere fatta a piacimento da chiunque; e sembra che il Risorto si sia manifestato solo ai discepoli. I giudei che l'avevano conosciuto a Gerusalemme forse non l'avrebbero visto. Ha voluto confermare nella fede solo i suoi discepoli, a volte è apparso solo ad alcuni di loro. Siamo quindi di fronte al mistero. Anche monsignor Lehmann sottolinea l'aspetto di mistero della Resurrezione. Però attenzione: siccome il corpo del Risorto era un corpo "reale", apparso tra gli uomini, tra i discepoli manteneva un aspetto "visibile"; le cristofanie quindi non possono in nessun modo essere sottovalutate. Bisogna distinguere tre periodi nella vita di Gesù Cristo: prima della passione, la vita pubblica; poi la passione e il fatto della Resurrezione; terzo, i cinquanta giorni prima dell'ascensione, cioè le apparizioni pasquali. Ora, come dice molto bene papa Paolo VI nel suo discorso sopra citato: «Se non accettiamo la storicità, l'aspetto fisico delle apparizioni pasquali, tra la passione e l'ascensione» non c'è continuità tra il Gesù storico e Cristo presente oggi nella Chiesa; si deve mantenere in questo periodo intermedio un aspetto fisico, misterioso certamente, ma fisico. Vorrei concludere facendo presente che se non affermiamo la storicità della Resurrezione e delle apparizioni pasquali, se non diciamo nettamente questo ai cristiani, anche su un piano squisitamente pastorale, crolla tutto. Sono connessi tra loro tre fatti storici fondamentali: la realtà fisica della concezione verginale, dell'Incarnazione; quella dei miracoli, durante la vita pubblica; e quella della Resurrezione corporale di Cristo. Sono i pilastri di tutta la realtà del Verbo incarnato. Se si mettono in dubbio questi fatti, il semplice fedele si trova confuso senza saper più cosa deve credere. Lo stesso Paolo VI, nel discorso in oggetto, citava un'omelia di Gregorio Magno ("Hom. 26 in Ev.") contenuta nell'antico breviario alla Domenica in Albis. Un testo molto bello, dove, facendo un paragone, san Gregorio diceva: «Davanti a questo mistero (la Resurrezione), siamo colti di ammirazione esattamente come davanti al mistero dell'incarnazione e della nascita verginale». C'è un legame e un confronto da fare tra questi tre pilastri della vita di Gesù Cristo: il concepimento verginale, i miracoli e la Resurrezione. Invece oggi c'è la tendenza a mettere in dubbio queste realtà. Per certe forme estreme della critica moderna, sul Gesù storico noi non sappiamo scientificamente quasi niente; ma per Bultmann, per esempio, questo non ha nessuna importanza, perché per lui Gesù era un semplice ebreo, non il Figlio di Dio. Riprendiamo piuttosto i termini straordinari della fede apostolica: «Ciò che era fin dal principio, ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita, poiché la Vita si è manifestata, e abbiamo visto e diamo testimonianza...; e lo annunziamo anche a voi... E vi scriviamo queste cose affinché la nostra gioia sia piena... La nostra comunione è comunione con il Padre e col suo Figlio Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).Ignace DE LA POTTERIEGiovanni vide e credette (la risurrezione nel cap. XX di Giovanni)tratto da 30 Giorni, anno XII, marzo 1994, p. 62-65.Nel capitolo 20 del suo Vangelo il verbo "vedere" ricorre 13 volte. Come disse Paolo VI, se i cristiani non sottolineano il carattere empirico e sensibile delle apparizioni del Risorto corrono il rischio di «trasformare il cristianesimo in gnosi» Per introdurre l'argomento della storicità della resurrezione di Cristo vorrei menzionare due fatti, uno più recente, un altro più lontano nel tempo. Il primo fatto che dimostra l'importanza del tema è la pubblicazione in Italia di un nuovo libro di W. Marxsen, "Il terzo giorno resuscitò... La resurrezione di Gesù: un fatto storico?" (1992). Cito qualche passaggio di quest'opera: «Non si può credere alla resurrezione come ad un avvenimento accaduto nel passato», scrive Marxsen a pagina 60; «anzi non si può credere assolutamente in un avvenimento, qualunque osso sia». E a pagina 61: «Quando un credente dice: "Io credo nella nascita verginale, credo nei miracoli, credo nella resurrezione", se con queste espressioni intende parlare di fatti realmente accaduti, queste formulazioni sono allora impossibili». Per questo autore l'oggetto della fede cristiana è solo la coscienza di essere riconciliato con Dio; e la resurrezione è solo una realtà di fede. E' la posizione tipicamente protestante della sola fede senza eventi, in fondo la classica posizione di Bultmann. Il secondo fatto a cui accennavo è stata l'udienza concessa da Paolo VI ai partecipanti ad un Convegno internazionale sulla resurrezione che si svolse a Roma nel 1970. Ad un certo punto il Papa, abbandonando il discorso preparato, disse: «E' importantissimo, signori, sottolineare il fatto empirico e sensibile dell'apparizione pasquale. Se non facciamo questo, noi cristiani corriamo il grande rischio di trasformare il cristianesimo in una gnosi». Anche nel seguito del discorso, che è stato pubblicato, Paolo VI continuava su questa linea parlando di «tentativi di una gnosi sempre rinascente, la cui temibile inclinazione porta ad evacuare insensibilmente tutta la ricchezza e la portata di ciò che è essenzialmente un fatto, la Resurrezione del Salvatore»; e citava come conseguenze pratiche la negazione del valore storico dei Vangeli e l'interpretazione «in modo puramente mitico o morale della Resurrezione fisica di Gesù». Fatta questa premessa, che ci aiuta a comprendere l'attualità dell'argomento, passiamo ora ad analizzare il capitolo 20 del Vangelo di Giovanni. Il capitolo è composto da quattro episodi: nel primo (vv. 1-10) Maria Maddalena va al sepolcro e scopre che è vuoto. Porta la notizia ai discepoli, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro. Nel secondo episodio (vv. 11-18) Gesù appare alla Maddalena nel giardino vicino alla tomba; lei porterà la notizia della resurrezione ai discepoli. Nel terzo episodio (vv. 19-25) Gesù appare ai discepoli riuniti quando non è presente Tommaso. Nell'ultimo episodio (vv. 26-29), Gesù appare nuovamente, una settimana dopo, ai discepoli: questa volta Tommaso è presente. Una realtà visibile Ma è ugualmente importante analizzare le due parole chiave utilizzate da san Giovanni nel capitolo: «vedere e credere». E dunque si può dare questo come titolo di tutto il capitolo: dal vedere al credere. Nell'uso di questi due verbi c'è una significativa progressione. L'uno va verso l'altro ed entrambi crescono insieme. Il padre Donatien Mollat ha scritto in proposito: «Il capitolo progredisce in un movimento continuo verso la proclamazione finale: "Beati quelli che, non avendo visto, hanno creduto"»; e più avanti: «Appare fondamentale in questo capitolo la fede nel Cristo risorto che si basa essenzialmente sulla Scrittura e anche sulla testimonianza di coloro che hanno visto il sepolcro vuoto e hanno visto il Signore vivo». Dal vedere cresce progressivamente il credere. Il verbo "vedere" è usato 13 volte in questi episodi e si passa dalla visione sensibile (verbo blepein) allo sguardo attento e osservatore (verbo theôrein) per arrivare alla visione perfetta, alla consapevolezza, alla contemplazione di ciò che percepisco con gli occhi (verbo horan, usato prima all'aoristo e quindi al perfetto). L'uso del perfetto (heôraka) indica che è avvenuto il riconoscimento, che attraverso la realtà sensibile si è contemplata un'altra realtà. Infatti è il verbo usato dalla Maddalena che corre dai discepoli e dice: «Ho visto il Signore!». Passiamo ora ad analizzare brevemente i quattro passi evangelici. Nel primo vengono descritti due movimenti: quello di Maria di Magdala che scopre il sepolcro vuoto e corre ad avvertire i discepoli, poi quello di Pietro e Giovanni che corrono verso la tomba di Gesù. Ciò che è interessante è che in entrambi i movimenti troviamo la stessa conclusione. La Maddalena dice: «Il sepolcro è aperto e non sappiamo dove l'hanno posto». Mentre dopo che Pietro e Giovanni sono usciti dalla tomba il Vangelo afferma: «Non conoscevano ancora le Scritture, cioè che egli doveva risorgere dai morti». La conclusione è la stessa, l'ignoranza. Non hanno nessuna idea del fatto che Gesù doveva risorgere. Commenta padre Mollat: «Questo stadio iniziale di impreparazione e come di cecità nei testimoni di fronte alla resurrezione è fondamentale: questa impreparazione radicale non fa che mettere meglio in rilievo la realtà dell'intervento divino e il suo aspetto di atto creatore. La fede pasquale è stata per i discepoli di Gesù come un risveglio». Nell'episodio Pietro entra per primo nel sepolcro e vede solo le cose materiali, poi entra Giovanni «che vide e credette». Secondo molti autori questa di Giovanni è già la fede pasquale. Ma è troppo presto perché ciò sia vero. Giovanni ha solo intuito qualcosa da quei segni, dalle bende ben ripiegate nel sepolcro vuoto. Ma se avesse avuto la fede pasquale, lui e Pietro non sarebbero ritornati a casa loro ed alle loro abituali occupazioni come se niente fosse accaduto. Avrebbero, eccitati, radunato tutti gli altri e avrebbero dato l'annuncio. L'uso assoluto del verbo «credette» suggerisce piuttosto l'accettazione calma e serena di un mistero in parte ancora inspiegabile, una piena fiducia nell'amore divino. Questa spiegazione è suggerita anche dal fatto che Giovanni afferma nel Vangelo che quella mattina della resurrezione faceva ancora buio. Come mai poteva essere ancora buio ed essere allo stesso tempo visibile l'interno della tomba? Gli altri Vangeli dicono infatti che era l'alba. Ma questa affermazione di Giovanni potrebbe avere un carattere simbolico e significare l'impreparazione dei discepoli, spiegando così il fatto che dopo la scoperta essi tornino a casa. Solo Giovanni, il discepolo amato, ha intuito qualcosa. E' inquieto, ma non ha ancora capito. Perciò traduciamo: «Cominciò a credere». «Ho visto il Signore!» Nel secondo episodio del capitolo «Gesù appare a Maria Maddalena. E' un progresso rispetto a prima, quando c'erano solo dei segni. Adesso dai segni si passa alla presenza fisica di Gesù, una presenza che però non viene subito riconosciuta dalla donna. Il centro dell'episodio è la trasformazione dello sguardo di Maria che è passata dal constatare che la pietra del sepolcro è rotolata via (blepein) allo sguardo attento verso quest'uomo, in apparenza un giardiniere (theôrein); quando lo ha riconosciuto, lo chiama ancora «Maestro», come nel passato, e vuol quindi trattenerlo. Solo allora però risuona dalla bocca di Gesù il messaggio pasquale: «Non sono ancora salito al Padre, ma va' a trovare i fratelli e dì loro: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro"». E' Maria porta l'annuncio: «ho visto il Signore!» (heôraka, al perfetto); non più «il Maestro», ma «il Signore». Nel terzo episodio del capitolo Cristo appare per la prima volta ai discepoli riuniti. Ora non si tratta più di un uomo che sta in un giardino; qui il Signore appare a porte chiuse (un aspetto sottolineato due volte): è una vera cristofania. Siccome viene dal mondo trascendente, non è ostacolato dalle porte chiuse. Gesù non ha più contatti con la città e con il giudaismo, viene dall'alto: è l'inizio della Chiesa. Prende posto in mezzo ai discepoli, un segno che rimane presente nella sua Chiesa. Mostra loro le piaghe: il ricordo della passione non è cancellato ma è attualizzato nella Pasqua. Poi Giovanni dice che «alitò» su di loro. E' un verbo utilizzato anche per la creazione nella "Genesi". Cristo fa di loro delle nuove creature. Non è ancora il dono della Pentecoste, ma l'infusione della fede pasquale, che ricrea i discepoli come credenti, come nuove creature: possono adesso cominciare la loro missione apostolica. Nell'ultimo episodio Gesù riappare ai discepoli una settimana dopo. Adesso c'è anche Tommaso, assente la prima volta. L'inizio è lo stesso, la vera novità è costituita dalla presenza di Tommaso, che riveste qui un duplice ruolo: essendo «uno dei Dodici» deve aver visto il Signore risorto; ma d'altra parte, lui è anche uno di quelli che non l'ha visto la prima volta e quindi rappresenta un pò tutti noi. Così il caso di Tommaso prefigura l'atteggiamento di tutti i credenti. Perciò vale per tutti l'invito: «Diventa un uomo di fede». Ma poi Gesù dice: «Perché mi hai visto, Tommaso, hai creduto», e l'evangelista utilizza due volte il perfetto. Ma viene rimproverato da Gesù perché avrebbe già dovuto credere per la testimonianza degli altri discepoli, i quali a loro volta avevano creduto a ciò che aveva detto loro la Maddalena. Credere sui segni Gesù dice allora all'apostolo: «Beati coloro che senza aver visto hanno creduto». Su questo versetto c'è molta confusione. Per Bultmann e per Marxsen sarebbe una critica radicale all'importanza dei segni e dell'apparizione pasquale del risorto. Una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore. Il fedele non deve vedere i segni come fatti storici ma come una rappresentazione simbolica che serve a far comprendere l'efficacia della croce. Allora la resurrezione non c'è! Ma un'altra lettura sbagliata è anche quella che traduce: «Beati coloro che senza aver visto crederanno». Non è corretto tradurre con un futuro. Ci sono due verbi all'aoristo, e in tutti gli altri casi di aoristo utilizzati da Giovanni questi hanno valore di anteriorità. Gesù si riferisce quindi al passato ed è questa la ripresa di quanto è accaduto all'inizio del capitolo, cioè il fatto che i discepoli hanno cominciato a credere già sui segni e poi anche sulla testimonianza degli altri senza avere visto il risorto. [...]

Nessun commento: