Sant'Agostino. "Fides christianorum resurrectio Christi est"
Fides christianorum resurrectio Christi est" (sant'Agostino). Se non è resuscitato non si può credere in lui. Si può solo, al più, venerarlo come maestro. Si può rievocarlo, non invocarlo. Si può ricordarlo ma non incontrarlo Giannio VALENTE"Fides christianorum resurrectio Christi est" (sant'Agostino)tratto da 30 Giorni, anno XIX, febbraio 2001, p. 30s."Fides christianorum resurrectio Christi est" (sant'Agostino). Se non è resuscitato non si può credere in lui. Si può solo, al più, venerarlo come maestro. Si può rievocarlo, non invocarlo. Si può ricordarlo ma non incontrarlo «Avevano solo con lui alcune questioni riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita». Il governatore Porcio Festo non seppe spiegare meglio a re Agrippa e a sua sorella e convivente Berenice il motivo per cui i sommi sacerdoti d'Israele erano così accaniti contro quel giudeo di Tarso, cittadino romano, che lui teneva in prigione, tanto da invocarne la condanna a morte. Sant'Agostino, quattro secoli più tardi, userà meno parole del funzionario romano per descrivere cosa è il cristianesimo: «Fides christianorum resurrectio Christi est». La fede dei cristiani è la resurrezione di Cristo. Eppure, a Pasqua del 1976, il quotidiano "Le Monde" rivolse a esponenti noti e meno noti delle comunità cristiane di Francia una domanda: "Che ne sarebbe della vostra fede se il piccone dell'archeologo, in qualche luogo dell'antica Palestina, dissotterrasse le ossa di Gesù di Nazareth?". Molti semplici fedeli risposero turbati. "Sarebbe la prova che la mia fede non era che una illusione", rispose un oscuro parroco di periferia. Ma alcuni altri, soprattutto i teologi e i biblisti di professione, fecero spallucce. Uno di loro, prete cattolico e psicanalista, spiegò: "La scoperta dello scheletro di Gesù rafforzerebbe la mia credenza, perché distruggerebbe il mito della rianimazione di un cadavere. La presenza delle ossa del Nazareno mi rafforzerebbe nella fede, che, per essere tale, deve essere del tutto indimostrabile". Un altro, riverito teologo protestante, aggiunse: "Questo non m'impedirebbe di credere nella resurrezione. Anzi, un simile ritrovamento sbloccherebbe la fede, obbligandola a non fidarsi più del visibile". Nell'ultimo quarto del secolo ventesimo, ad arginare ogni deriva scettica, nella Chiesa c'è stata una ferma riaffermazione di verità perenni. Qualche teologo indiano che era andato fuori solco è stato anche rimesso in riga. Eppure, proprio in questo tempo, sotto la bandiera delle ritrovate certezze si è consumata la grande metamorfosi. La riduzione del cristianesimo a idealismo religioso, a sistema di idee vere a priori, che negli anni Settanta era prerogativa dei teologi "à la page", ora sembra diventata linguaggio comune della predicazione ordinaria. Tanti generosi sacerdoti di oggi si affannano a convincere fedeli e increduli che la resurrezione di Gesù è una realtà sovrannaturale, trascendente in cui si "deve" credere per il suo valore salvifico. E spesso finiscono per assomigliare all'ossessivo protagonista che suscitava repulsione in una vecchia poesia di Giorgio Caproni: «Gridava come un ossesso. / "Cristo è qui! E' qui!/ LUI! Qui tra noi! Adesso!/ Anche se non si vede!/ Anche se non si sente!"// La voce, era repellente». La fede come un autoconvincimento che si deve avere "prima", una certezza a priori che ci si deve fabbricare dentro di sé, magari leggendo il Vangelo. Sembrano tutti misticamente ispirarsi alla frase del piccolo principe di Saint-Exupéry: "L'essenziale è invisibile agli occhi". Chiudiamo gli occhi, stringiamo le labbra e crediamo. Che distanza irrimediabile dai primi che lo dissero risorto. Da quei racconti dei primi giorni dalla resurrezione che Vittorio Messori è tornato a scrutare nel suo ultimo libro dal titolo suggestivo ("Dicono che è risorto", Sei, Torino 2000). Né mistici né visionari Loro non avevano alcuna fede "previa", tanto meno credevano nella verità teologica della resurrezione "prima" di averlo visto risorto. C'erano stati quei tre anni, quella compagnia quotidiana, percorsa da un fremito d'attrattiva umana eccezionale. Avevano percepito, in quegli anni, che in quel "rabbuni" c'era qualcosa di esorbitante. Qualcosa che aveva a che vedere con la promessa e l'attesa custodite dal popolo ebraico. Ma non è che avessero capito bene di cosa si trattava. E alla sua resurrezione, poi, chi ci pensava? Durante quegli anni passati insieme, non è che Gesù ne avesse parlato molto. Annota Messori: "Questa resurrezione, che monopolizzerà la fede dei discepoli, non sembra essere un tema centrale nella predicazione di Gesù stesso... Non viene dall'insistenza del Maestro, che avrebbe "fanatizzato" i discepoli, spingendoli ad attenderla e, poi, a inventarla". Gli accenni di Gesù alla sua resurrezione sono impliciti, quasi distratti, a volte enigmatici, come quando parla del "segno di Giona". Allusioni fatte per essere comprese solo "post factum", da chi, dopo, lo incontrerà risorto. Tutti i Vangeli sono disseminati di indizi di questo ritegno del Signore nell'alludere alla sua vittoria sulla morte, e della scarsa prontezza degli apostoli nel saper cogliere questi accenni fugaci. Quando, dopo la trasfigurazione, Gesù ordina ai tre prediletti Giacomo, Pietro e Giovanni "di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse resuscitato dai morti", l'evangelista Marco racconta che "essi tennero per sé la cosa, domandandosi però cosa volesse dire resuscitare dai morti" (Mc 9,9s.). Anche le parole sconsolate dei due discepoli di Emmaus non tradiscono alcuna attesa di una imminente resurrezione. La loro speranza di liberazione è rimasta annichilita sotto il peso di quella morte ignominiosa ("Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute") senza che si affacci sul loro sconforto alcuna attesa di riscatto. "Gesù" sottolinea Messori "deve parlare loro per tutto il viaggio, per convincerli che "bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria". Ai due, pur suoi discepoli, pur testimoni dei suoi discorsi prima della Passione, questa sembra una novità che non avevano notato nel suo insegnamento". Quanto constatato dall'esperienza La resurrezione di colui che avevano riconosciuto come il Messia d'Israele era del resto l'ultima cosa che dei giudei, quali erano gli apostoli, potessero immaginarsi. Come ha spiegato l'ebraista Karl Schubert, dell'Università di Vienna, "l'ultima cosa che un ebreo si attendeva dal Messia era che dovesse patire, morire e poi resuscitare. L'ultima cosa che ci si aspettava, per i tempi messianici, erano una croce e un sepolcro vuoto in mezzo alla storia". Da tutti gli ebrei, figli dell'attesa di Israele, sia quelli dell'ala "relativista" sadducea (che addirittura negavano ogni possibilità di vita eterna) sia quelli della corrente "metafisica" farisaica, l'avvento glorioso del Messia era atteso nei tempi ultimi, e per lui non era annunciata né la morte né tanto meno la resurrezione individuale. La resurrezione e la vita eterna, come verità dottrinali professate dalla corrente messianica maggioritaria, sarebbero state un evento collettivo: tutti i morti sarebbero risorti per sottoporsi al giudizio finale. Come sottolineava l'esegeta protestante tedesco Joachim Jeremias, "il primitivo annuncio cristiano sulla resurrezione di Gesù, con un intervallo di tempo che lo separa dalla resurrezione universale di tutti i morti, rappresenta una novità assoluta per il giudaismo". E come ha dovuto ammettere perfino il razionalista Charles Guignebert, che pure considerava le apparizioni del risorto come frutto della mente allucinata di Pietro, "non vediamo davvero quali scritture predicessero la resurrezione del Messia [...]. Per quanto ne sappiamo, non esisteva nell'Antico Testamento una dottrina concernente la resurrezione che fosse suscettibile di applicarsi a Gesù". Confermato, in questo giudizio, anche dall'autorevole studioso ebreo David Flusser: "Non c'è nulla nell'intero giudaismo dei tempi di Gesù, nulla in nessuna corrente a noi conosciuta che sappia qualcosa di un "Figlio dell'uomo" che dovesse morire e poi risorgere". Non è quindi da una riflessione sulle profezie giudaiche che può essere sorto l'annuncio della resurrezione. In esse non era adombrato nessun Messia "obbligato" a risorgere. Semmai, nota Messori, nella prima comunità cristiana si seguì il percorso a ritroso, cercando di trovare "post factum" nel complesso delle profezie messianiche dei preannunci di quell'avvenimento imprevisto, in apparente contrasto con esse. «Non è la fede nella Legge e nei Profeti» conclude Messori «che "crea" la resurrezione. E' la resa all'evento di quella resurrezione che cerca in "Legge e Profeti" conferma a quanto ha dovuto constatare dall'esperienza». Le profezie, quelle vere, si comprendono dopo che si sono compiute. I primi indizi visibili I grandi demitizzatori razionalisti partivano dal postulato di David Friederich Strauss: "Il divino non può essere accaduto così (anzitutto in modo immediato, e poi per di più in modo rozzo) o ciò che è accaduto così non può essere divino". A sentir loro, i racconti degli incontri col risorto erano una proiezione del fervore mistico della prima comunità cristiana. Per dirla con Ernest Renan, quella domenica mattina, "nella comunità cristiana si diffusero le voci più strane. Il grido: "E' risorto!" corse tra i fedeli come un fulmine. L'amore fece trovare a quel grido un credito facile ovunque. Che cosa era successo? [...]. Le città orientali sono mute dopo il tramonto del sole. Anche nei cuori il silenzio era profondo. I più piccoli rumori che per caso si sentissero venivano interpretati nel senso dell'attesa di tutti. Di solito, l'attesa crea il suo oggetto. In quelle ore decisive una corrente d'aria, una finestra che scricchiola, un casuale mormorio, fissano per sempre la credenza dei popoli. E quando nell'aria si sentì un alito, essi credettero di sentire dei suoni. Alcuni dissero di aver distinto la parola "shalòm": salute, pace...". La verve corrosiva di Renan potrebbe a ragione applicarsi ai discorsi di tanti ecclesiastici di oggi che pretendono di essere loro a dimostrare la verità della resurrezione per intrinseca necessità metafisica (che sia accaduta o no, è un dettaglio che poco importa, ininfluente). Tutti, in fondo, sono in questo figli dell'esegeta Bultmann per il quale "se la resurrezione fosse storica, la fede diverrebbe superflua". Ma allora, andò davvero così? Fu la nostalgia della prima comunità a sublimare lo scacco della morte in croce alla luce dell'«idea» della resurrezione? Fu la loro affranta coscienza religiosa collettiva a fabbricare idealisticamente la fede? E fu questa fede a far diventare reale ciò che non era mai accaduto? Erano, ormai, un gruppetto demoralizzato e sgomento di provinciali ininfluenti, ignoranti, umiliati. Anche quelli che gli erano stati più vicini, nelle ore della passione, non avevano cercato rifugio in granitiche certezze. Erano stati a ciò che vedevano. Davanti al disastro, alla fine di tutto, erano fuggiti. Altro che colonne della fede irriducibile. Pietro, che Gesù stesso aveva scelto per confermare gli altri, lo aveva addirittura rinnegato. Aspettavano solo, nascosti «per timore dei giudei», che passasse la burrasca, per tornare, i più, agli antichi mestieri, con più durezza e tristezza di prima. Non avevano neanche il problema di rimanere insieme nel ricordo di un passato bello, né di tenere unita la comunità per conservare un qualche misero potere. Se ne sarebbero andati, ognuno per i fatti suoi. Una resurrezione prodotta dall'entusiasmo visionario era in quei momenti così fuori luogo, che anche davanti ai primi indizi di ciò che era accaduto quei poveretti rimasero incerti, frastornati. Maria Maddalena, la prima e privilegiata testimone del sepolcro vuoto, è invasa all'inizio non dalla fede nella resurrezione, ma dalla certezza di un furto: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». Solo a Giovanni, il discepolo prediletto, basta sbirciare nel sepolcro vuoto per intuire cosa è accaduto. Ma non si tratta di una prestazione di fervore visionario, bensì di una maggiore prontezza di sguardo nel valutare i primi scarni indizi visibili della resurrezione, come ha dimostrato anche lo studio, ignorato dal grande circuito, di don Antonio Persili, parroco a Tivoli. Gli altri, come dice lo stesso evangelista Giovanni, «non avevano ancora compreso la scrittura, che egli cioè doveva resuscitare dai morti». A Maria di Magdala, che di ritorno dal sepolcro annuncia a tutti di aver incontrato il Signore risorto, «essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere» (Mc 16,11). Si mostrano titubanti persino davanti alla realtà di lui che appare: «Quando lo videro, gli si prostrarono davanti. Alcuni però dubitavano» (Mt 28,17). Sulle umane incertezze di simili testimoni, così riluttanti a guardare «con gli occhi della fede» e così materialmente sospesi alla concretezza dei propri sensi hanno fatto del facile sarcasmo gli intellettuali (agnostici, atei o mistici) di tutti i tempi. Eppure anche esse confermano che non si trattò di uno sforzo religioso, ma di un arrendersi alla realtà, alle cose così come erano di fatto. Solo un evento reale, imprevisto e imprevedibile dopo il fallimento del Calvario, poteva vincere le umanissime obiezioni di quel gruppetto di ebrei prima impauriti e prostrati. E farne gli instancabili testimoni di un annuncio inaudito. Appunti di fatti registrati Un fatto, un incontro, non va dimostrato né spiegato. Un fatto, un incontro con una persona viva, si può solo registrare, raccontare, descrivere quando accade. Così fecero i primi. Innanzitutto tra di loro. «Maria di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore!"...» (Gv 20,18). «Gli dissero allora gli altri discepoli: "Abbiamo visto il Signore!"» (Gv 30,25). Lo avevano visto morire realmente a Gerusalemme, nel giorno più affollato dell'anno, e tutto sembrava finito. E con gli stessi sensi lo vedevano e toccavano ora come realmente risorto. Pieni di stupore grato, come un regalo imprevisto, imprevedibile, insperato, oltre ogni attesa, eppure al cuore così caro. Questo solo, in quel momento, contava. Soltanto dopo, qualche anno dopo, si intuì che era importante anche raccogliere le circostanze, i particolari, i ricordi delle situazioni in cui quegli incontri erano avvenuti. Nota l'esegeta Günther Bornkamm: «Si annunciò che il crocifisso era risorto, che era il Messia, il Cristo Salvatore. Solo in un secondo tempo si cercò di ricostruire "come"». Si prenda ad esempio il sepolcro vuoto. Messori parla di «sorprendente silenzio» di tutta la predicazione primitiva (ad eccezione del Vangelo di Matteo) non soltanto sugli sbirri del sinedrio ma, in genere, sulla scoperta del sepolcro vuoto. «L'annuncio primitivo del cristianesimo, quale ci appare dal Nuovo Testamento, sembra quasi dimenticare la tomba. Il fatto che sia rimasta vuota non entra nel Credo, e tutta la prima predicazione insiste, come prova della resurrezione, solo sulle apparizioni. Sono queste ultime che, evidentemente, devono aver spazzato via ogni bisogno di insistere su un fatto visto come ovvio. Se Gesù è riapparso vivo, in carne e ossa, se è vissuto di nuovo con i suoi, che ora ne testimoniano, mangiando e bevendo, allora è scontato che non è rimasto nel sepolcro, che quel luogo è rimasto vuoto, se non per le tracce materiali che sappiamo e che inducono Giovanni, dopo averle viste, a credere». Soffermarsi troppo sulla tomba prestata da Giuseppe di Arimatea sarebbe stato solo indizio di una fissazione un pò macabra. La permanenza nel sepolcro «è solo un ricordo triste, spazzato via dalla gioia della pasqua. Non c'è affatto -a smentita ulteriore di chi vuole vedere i racconti di resurrezione come ispirati innanzitutto da preoccupazioni apologetiche- il bisogno di affannarsi in dimostrazioni, rese ormai inutili per coloro che si presentano come i "testimoni" del ritorno alla vita del Crocifisso». Così sono stati scritti i Vangeli. Non si voleva dimostrare o convincere di nulla. Non erano testi di riflessione religiosa. Non un'apologia per esaltare i poteri di un leader carismatico nel cui ricordo mantenere unita la comunità di adepti. Ma scarni resoconti, cronache sommarie di fatti constatati e registrati. Stesi per aiutare chi, tra gli ebrei o i gentili, rimaneva stupito e grato davanti a ciò che il Risorto continuava a operare tra i suoi nel presente («Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola coi prodigi che l'accompagnavano», così si chiude il Vangelo di Marco). Questa finalità funzionale spiega anche lo stile dei Vangeli, l'esilità del tessuto narrativo. La sobrietà, quella che è stata definita "impassibilità" dei testi evangelici anche nel raccontare i miracoli o gli incontri col Risorto. Una premura rispettosa nell'accennare al mistero così lontana dalla presuntuosa penetrazione di arcani che segna le favole religiose inventate dall'uomo e anche dalla stessa morbosa "curiositas", dal bisogno di «provare» che traspare nei vangeli apocrifi. A chi li scorre con occhio libero da pregiudizi, anche i silenzi, le lacune e le apparenti discordanze dei racconti pasquali rivelano l'intenzione con cui furono scritti: cenni di cronaca stesi su carta per aiutare chi diffondeva l'annuncio. Anche il grande teologo Karl Barth riconosceva che «i racconti delle apparizioni appaiono sconnessi e disarticolati come per effetto di un terremoto». Nota Messori: «Quell'esplosione di luce, di certezza insperata, di gioia che è stata la resurrezione ha messo tutto sottosopra. Il terremoto emotivo ha incrinato la compattezza che la narrazione aveva potuto serbare fino a qui [...]. Proprio in questa incertezza, in questa "confusione", gli evangelisti mostrano ciò che sono: gente semplice, pragmatica, capace di muoversi bene solo sul piano della vita quotidiana». I diversi evangelisti selezionarono episodi diversi tra le tante manifestazioni delle quali i testimoni oculari avevano memoria. Ma ciò non produce alcuna contraddittorietà tra i loro scritti. Suggerisce ancora Messori: «I singoli Vangeli non raccontano una storia diversa, ma scelgono particolari diversi della tradizione particolare che tramandavano o delle testimonianze che avevano a disposizione. [...] In definitiva, come osservava già l'esegeta John A. T. Roberson, «le divergenze nelle narrazioni pasquali sono proprio del genere di quelle che dovremmo attenderci in resoconti autentici. Resoconti bene architettati sarebbero assai più armonizzati, assai più privi di contraddizioni». La lealtà degli evangelisti li ha addirittura costretti ad annotare particolari sconvenienti, che evidentemente, essendo di pubblico dominio, non potevano essere occultati. Come la fuga degli apostoli davanti al supplizio del loro Signore, o il fatto che le prime a vederlo risorto furono delle donne, in un tempo in cui nessun tribunale ebraico accettava come verosimili le testimonianze di fonte femminile. Così già il pagano Celso aveva buon gioco nel denigrare «i galilei che credono a una resurrezione testimoniata soltanto da qualche femmina isterica». Coi sensi hanno verificato Così Agostino, nel "De civitate Dei", segnala la distanza irrimediabile tra la fede cristiana e le idealizzazioni religiose prodotte dall'uomo per dare una finzione di eterno alle proprie costruzioni: «Illa illum amando esse deum credidit; Ista istum Deum esse credendo amavit» (Roma, siccome amava Romolo, lo fece dio; la Chiesa invece, siccome lo riconobbe Dio, lo amò). Solo perché lo hanno visto vivo («toccatemi e vedete che non sono un fantasma», Lc 24,24; «abbiamo mangiato e bevuto insieme a lui dopo la sua resurrezione», At 10,41) lo hanno riconosciuto e quindi lo hanno amato, così come si può amare solo una persona realmente viva. Il contrario delle idealizzazioni, dove non interessa che ciò che si crede sia reale, ma solo che serva per mantenere un ordine stabilito. Perché chi ha un certo potere, continui ad averlo. " Per questo la cosa più tragica non sono le obiezioni degli increduli. Ma che oggi anche nella Chiesa questo riconoscimento di realtà sembra diventato superfluo. Come se se ne potesse fare a meno. Di ciò che lui, vivo, opera oggi. E che è raccontato in paradigma in ciò che operò tra i primi. Scrive Messori: «Se Gesù non è risorto, non si può credere in lui come Salvatore: si può solo, al più, venerarlo come maestro. Si può rievocarlo, ma non invocarlo. Si può parlare di lui, ma non parlare a lui. Si può ricordarlo, ma non ascoltarlo. Se non è risorto, sono i cristiani a far vivere lui. Non è lui a far vivere loro. Di molti altri, di centinaia di sventurati suoi contemporanei, è possibile dire: Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto. Perché, però, sia quel che la fede crede, è necessario che si possa anche aggiungere: "Ma, dopo tre giorni, resuscitò dai morti"». Questo testimoniarono i discepoli, per averlo verificato coi sensi. Come ricorda sant'Agostino sempre nel "De civitate Dei": «Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt» (E' risorto il terzo giorno come gli apostoli, anche con i loro sensi, hanno verificato).
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