Sukkah (pl. sukkot) è reso dai Settanta con skéné e da Girolamo con tabemacufum.Nei Targumim aramaici viene invece impiegato il termine metalalta (mefalleta). "" Cfr. anche Lev. 23.33-44 e Num. zq. rz-39. Entrambi questi testi menzionano un ottavo giorno di «assemblea solenne» ('aseret): tale occasione è considerata una festa a sé dalla tradizione rabbinica (p.es. in bSukkah 48a), ed è celebrata con il nome di gemini
Ultima delle tre grandi ricorrenze legate al calendario ebraico, Sukkot, la festa delle Capanne, celebrava il raccolto autunnale ed era considerata, nell'antico Israele, la solennità piú importante dell'anno. Fa la festa delle Capanne per sette giorni - prescrive il Deuteronomio (r6. r3-14) - quando avrai raccolto i frutti dell'aia e del tino, e gioisci nella tua festa, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita, il forestiero, l'orfano e la vedova che sono entro le tue città". In questa ricorrenza, che coinvolgeva l'intera popolazione, la gioia collettiva, i balli e i canti esprimevano il senso di soddisfazione della comunità, ormai sicura dell'abbondanza. Denominata anche he-hag, la «festa per eccellenza », Sukkot pare derivare da un modello cananaico, ispirata com'è alla cultura delle genti sedentarie. La Scrittura narra infatti che anche gli abitanti non ebrei di Sichem celebravano la vendemmia con banchetti`, mentre le fanciulle di Siloe erano solite eseguire le loro danze (Giud. 2 r.2 i) tra i vigneti. L'uso ebraico di accompagnare le celebrazioni tenendo in una mano rami di palma, salice e mortella, legati assieme (il cosiddetto lulav), e stringendo nell'altra il cedro (etrog), ricorda poi il costume di altre popolazioni mediterranee, come per esempio quello greco delle feste Pianepsie, quando «veniva recato in processione un ramo d'olivo» - a cui si dava il nome di eiresióné «legato con lana e coronato di ogni sorta di frutta, per significare che la scarsità e la sterilità erano finite» Almeno dopo il ritorno dall'esilio babilonese, la ricorrenza giudaica fu tuttavia caratterizzata dalla costruzione di provvisorie sukkot, nelle quali gli ebrei abitavano per sette giorni, lasciando le proprie dimore. Secondo il Levitico, questi ripari temporanei dovevano ricordare agli israeliti la vita nel deserto, ma, in realtà,il collegamento con l'esodo pare la tardiva storicizzazione di un'usanza legata al ciclo stagionale delle colture. Nella Gerusalemme antica, le capanne venivano drizzate tra le case, sui tetti, nei cortili del Tempio e nelle piazze, con un intervento sul paesaggio urbano la cui forza evocativa doveva essere già allora assai rilevante. La consuetudine di erigere capanne - che è stata conservata durante tutta la successiva vicenda della diaspora, fino ai tempi moderni - ha per altro mantenuto nei secoli la capacità di segnalare una sorta di anacronismo simbolico tra l'ambito cittadino e un passato ritenuto esemplare, cosí da rendere manifesto lo iato tra il presente e l'archetipo religioso. La celebrazione festiva comprendeva poi numerose pratiche accessorie che, sebbene non prescritte dalla Bibbia, furono tramandate dalla letteratura rabbinica. Mentre infatti la Scrittura ordina semplicemente di prendere, nel primo giorno, frutti di alberi speciali, rami di palme, fronde di piante folte, salici dei corsi d'acqua (Lev. 23.40), nei testi giudaici postbiblici si conserva la memoria dell'uso di tenere in mano le fronde durante alcune fasi dell'ufficio nel Tempio, per tutti i sette giorni della festa. I maestri ebrei stabilirono cosí che i quattro elementi vegetali, denominati arba `ahminim, «quattro specie »1181- cioè i tre tipi di fronde legate nel lulav a cui si aggiunge l'etrog, il cedro -, dovessero accompagnare ari-che la liturgia sinagogale, tenuti in mano dai fedeli durante la recitazione dello Hallel (Sal. 113-18) e agitati all'inizio del salmo 118 e in corrispondenza della lettura del venticinquesimo versetto. All'unione dei quattro elementi veniva attribuito un grande significato simbolico, nel quale si rifletteva tanto il piano divino quanto quello archetipico dei patriarchi e quello dell'esperienza comunitaria d'Israele; il cedro, per esempio, fu addirittura considerato simbolo di Dio e, allo stesso tempo, di Abramo, mentre i rami di palma si pensava raffigurassero Isacco, quelli di mirto Giacobbe e i salici Giuseppe. Secondo altre interpretazioni, l'etrog sarebbe invece stato un'allusione a Israele, oppure l'insieme dei quattro generi avrebbe raffigurato le parti del corpo umano: «Il ramo della palma assomiglia alla spina dorsale dell'uomo, il mirto corrisponde all'occhio, il salice alla bocca e il cedro al cuore». All'epoca del Tempio risaliva anche la consuetudine di girare attorno all'altare una volta al giorno e sette volte il settimo giorno, accompagnando la circumambulazione con le parole: «O Signore salva, fa prosperare! », oppure, secondo altri: «Ani wa-hu, salva! »`". Anche quest'uso fu mantenuto in sinagoga, dove diede vita a una processione attorno alla bimah il pulpito, ripetuta sette volte nell'ultimo giorno della festa, detto Hosa`na rabbah. Le circumambulazioni attorno all'altare durante Sukkot dovevano far parte del significato simbolico piú profondo della ricorrenza e, secondo una leggenda, sarebbero state introdotte da Abramo, nel momento stesso in cui il patriarca istituí la festa. Nel Libro dei giubilei, scritto probabilmente alla fine del II secolo a.C., si legge infatti che Abramo «costruí un altare al Signore e tende per sé e per i suoi servi e celebrò per primo la festa delle capanne ... Prese germogli di palma e frutti di alberi belli e, ogni giorno, girava intorno all'altare coi rami, sette volte al giorno e, all'alba, lodava e confidava con gioia ogni cosa al suo Signore» (Anche Giacobbe avrebbe celebrato la festa delle Capanne: Giubilei XXXI. pp 4.9).
Un altro rito collegato a Sukkot era la libazione con l'acqua,eseguita dal sacerdote nel Santuario: di essa non vi è menzione nella Bibbia, ma era seguita con grandissima partecipazione popolare e consisteva nel versare il contenuto di una boccia d'oro, riempita alla sorgente di Siloe, in un catino sull'altare; da qui il liquido defluiva mescolandosi con una libazione di vino, e scorreva attraverso un passaggio sotterraneo verso il torrente Qidron. Lo scopo della cerimonia - che era avversata da alcuni esponenti della classe sacerdotale - sembra essere stato quello di propiziare le piogge per l'inverno successivo, in modo da garantire la fertilità delle colture, come ricorda anche un passo del Talmud babilonese, nel quale Dio si rivolge ai fedeli affermando: «Versate l'acqua al mio cospetto durante la festa, cosí che siano benedette per voi le piogge durante l'anno». Anche la costruzione della capanna era connessa con la pioggia, per la quale doveva costituire un riparo, sebbene non fosse obbligatorio restare nella sukkah in caso di violente precipitazioni.«Se viene la pioggia, quand'è che si può sgombrare? - ci si domanda infatti nella Misnah - Quando essa può guastare una zuppa ... A cosa assomiglia? A un servo che sta per porgere al suo signore un bicchiere di vino e questi gli riversa in faccia un catino d'acqua». I maestri stabilirono inoltre che la capanna dovesse avere almeno tre fianchi e un tetto, cosí che vi fosse piú ombra che sole, ed era obbligatorio cenarvi almeno la sera del primo giorno. Tale dovere religioso riguardava i maschi ebrei, dall'età in cui «un bimbo non ha piú bisogno della madre», mentre «donne,schiavi e bimbi piccini» ne erano assolti. Si riteneva che costruire la sukkah significasse compiere un atto di pietà verso il Signore, quasi che essa fosse un tabernacolopronto ad accoglierne la presenza: «Fate una capanna per il guardiano che deve custodirvi», afferma a questo proposito il Signore nel midras Esodo rabbaht'
Nell'esegesi giudaica medievale si giunse a un’ enunciazione del parallelo tra i giorni di Sukkot e il diletto dei beati nel mondo a venire. Nel suo Commento alla Torah, Ya'aqov ben Aser, vissuto tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, riferisce infatti che, «in cambio dei sette giorni in cui dimorano nelle capanne, gli ebrei meritano i sette baldacchini, vale a dire: nuvola, fumo, splendore, fuoco, fiamma, gloria della Sekinah e capanna del Leviatano». Il repertorio dei materiali dei padiglioni celesti combina qui, in maniera singolare, ricordi della storia dell'Esodo (come il fumo e il fuoco della colonna divina) con altri topoi dell'immaginario escatologico, come la menzione del Leviatano, la cui pelle sembra addirittura trasformata in un riparo, forse ancora piú prezioso di quello offerto dalla gloria divina, che lo precede nell'elenco. Sebbene la leggenda di una serie di baldacchini offerti ai giusti nell'Eden fosse già attestata nel Talmud e anche nella letteratura haggadica d'età altomedievale, Ya'aqov ben Aser ne propose un importante sviluppo teorico, ricollegandola all'idea della sukkah festiva, che fu cosí trasformata, per simmetria simbolica, in una struttura immateriale. La serie numerica del sette venne utilizzata anche dai cabbalisti, che misero in relazione la festa di Sukkot col gruppo delle sefirot inferiori, da hesed (clemenza) a malkut (regno). Nell'ultimo scorcio del XII secolo, l'autore del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore) adottò, per esempio, la sukkah come simbolo della sefirah del regno, che poteva accogliere in sé gli altri sei gradi successivi dell'emanazione. In questo caso il processo di aggregazione mistica dipendeva principalmente dal devoto, la cui dimora nella capanna significava innanzitutto l'unione dell'uomo col grado divino di malkut. Forte di questa comunione con la decima e ultima sefirah, l'israelita doveva - secondo lo Zohar - disporsi ad accogliere le altre sefirot e a intrattenerle come un ospite, con una procedura iniziata dalla figura leggendaria di rav Hamnuna Sava,il quale, dopo essere entrato nella sukkah, « si rallegrava e si andava a mettere alla porta, dicendo: Invitiamo i nostri ospiti, prepariamo la tavola ... sedetevi, invitati celesti, prendete posto, ospiti di fede». La discesa delle sefirot era infatti immaginata come l'ingresso di sei personaggi biblici, «Abramo e cinque altri giusti», vale a dire Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne e Giuseppe, ciascuno identificato con un grado divino, in cui la dimora in capanne durante l'esodo è fatta corrispondere alla protezione delle «nuvole della gloria divina», in base a un implicito parallelismo con il rituale di Sukkot. Il rituale aveva lo scopo di arrecare gioia sul piano terreno e, allo stesso tempo, di allietare le sfe-re celesti «cosí che il fedele potesse provare diletto sia in questo mondo sia in quello a venire » Nella letteratura zoharica, la capanna non fu tuttavia solo uno strumento di contatto col divino ma anche una forma di protezione, in grado di difendere attivamente l'ebreo dagli influssi ester-ni. Come ricorda il compilatore del Ra'aya mehemna (Il pastore fidato), «la sukkah ripara Israele» e può essere per questo parago-nata all'arca di Noè, che, secondo i cabbalisti, aveva salvato il patriarca dalle forze del male. Compito specifico della capanna sarebbe stato quello di scampare gli occupanti dall'influsso «di tutte le genti e dei loro principi», garantendo agli ebrei la possibilità di mantenersi fedeli ai precetti. I «principi» a cui accenna il testo sono infatti gli spiriti angelici delle nazioni idolatre e, primotra tutti, il loro arconte, il malvagio Samma'el, desideroso di mescolarsi agli israeliti per renderne vana la celebrazione festiva. Nei Tiqqune bazobar (Gli ornamenti dello splendore), che, agliinizi del Trecento, segnarono il completamento della raccolta zoharica, lo statuto simbolico della sukkah si arricchí di un richiamo alla sefirah binah (intelligenza), alla quale, nell'albero sefirotico, è attribuita la funzione di tutela. La capanna assunse cosí un doppio valore referenziale e indicò tanto binah quanto il suo riflesso inferiore in malkut: «La madre superna [binab] corrisponde al riparo di pace (sukkat-salom) ma vi è anche una sukkah inferiore ... la madre terrena [malkut]» Prendendo l'avvio da quest'ultimo esito metaforico, il cabbalista cinquecentesco Yishaq Luria inserí la sukkah all'interno della sua lettura cosmologica, in cui ogni gesto del rito ebraico rappresentava un quadro della storia dei mondi. Nella sistemazione del pensiero luriano offerta da Hayyim Vital - l'allievo piú rappresentativo del maestro di Séfat - la capanna venne allora integrata nella dinamica del propagarsi della luce divina, prima per linee rette e poi in forma di involucro: «Ecco che la sukkah corrisponde alla luce avvolgente che s'indirizza verso la Femmina [malkut] per l'influsso delle clemenze della madre [binah]».
La discesa dell'energia luminosa da binab verso malkut è, un atto essenziale per il buon equilibrio dell'emanazione, che può essere attivato attraverso la costruzione della ca-panna, ovvero con un intervento del fedele, il quale influisce cosí direttamente sulla propagazione delle forze celesti: « Noi ebrei ...figli di malkut ... facciamo la sukkah per dimorare all'ombra dellaluce avvolgente, che in essa si diffonde, andandole attorno e circondandola come una capanna: in tal modo quella luce curva s'irraggerà su di noi». Le forme protettive della sukkah si fannodunque tutt'uno con la tutela della luce sefirotica, tanto che il piano mondano e quello teosofico si sovrappongono fino a identificarsi: la sukkah terrena, realizzata con materiali precari, ha acquisito un doppio celeste ed è divenuta teofania provvisoria di luce.
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