La voce del Signore, che echeggia nel giardino di Eden, provoca lo spavento di Adamo e della sua compagna. Impauriti dalla propria nudità, essi si affrettano a nascondersi tra gli alberi: Udirono poi la voce del Signore Iddio che passeggiava. nel giardino alla brezza del giorno; allora l'uomo e la sua donna si nascosero dalla vista del Signore Iddio (Gen. 3.8). Il versetto è stato, per la tradizio-ne giudaica, una vera croce interpretativa, giacché la voce sembra qui avere una sua natura indipendente, astratta da qualsiasi parola. Sarà solo nel passo successivo, infatti, che la Scrittura menzio-nerà il discorso divino: Ma il Signore Iddio chiamò l'uomo: Dove sei? (Gen. 3.9). Se il Signore doveva ancora rivolgersi ad Adamo, cos'era dunque la voce che risuonava nel giardino? Per rimediare a questo paradosso, gli esegeti ebrei individuarono nella voce il soggetto della frase, immaginando che fosse il suo suono, quasi una forma ipostatica della divinità, a «camminare» nell'Eden. Tale interpretazione - fondata sull'uso traslato del verbo hlk, «camminare», che, nella Bibbia, viene impiegato anche per indicare il diffondersi di un rumore - non risolve tuttavia completamente. l'interrogativo del testo. Nel suono che si avverte prima ancora che Iddio abbia parlato è infatti adombrata la forte sinestesia che caratterizza la nozione ebraica di qol. Il termine, che designa non solo un suono articolato ma anche un rumore indistinto (come quello che si leva da una folla), pare definire una qualità intrinseca della persona o della cosa a cui viene riferito.
Con gol l'ebraico denomina cioè l'onda emotiva che emana da un'entità e che l'osservatore può cogliere con uno sguardo, ancor prima di percepire un suono. La voce è infatti intesa, nella Scrittura, anche come qualità visibile, quasi che il suo echeggiare faccia sorgere, anziché una reazione uditiva, uno stimolo visivo. La contaminazione tra visione e suono è uno dei tratti decisivi dell'intero simbolismo giudaico e costituisce uno dei fondamenti espressivi dell'aniconismo. Nella tradizione ebraica vige infatti il divieto di raffigurare la divinità e di costringerne la natura incommensurabile entro le linee materiali di un'immagine. Questo diniego, che il giudaismo rabbinico ha difeso con particolare impegno, lascia in realtà spazio a una sorta di compensazione sensoriale, in cui la carica espressiva che altre culture religiose affidano alle figure viene trasferita all'astratta forza evocatrice dei suoni. Ciò accade in virtú della possibilità simbolica dì mutare le percezioni visive in sonore e viceversa, mantenendo aperto, tra i due ambiti sensoriali, un continuo scambio espressivo. La cultura ebraica è cioè consapevole non solo di come sia possibile «vedere» una voce ma anche del fatto che si possa restituire la complessità di un oggetto attraverso la sua qualificazione sonora, non in quanto puro sostituto verbale bensí come frutto di una piú profonda percezione. E significativo che la seconda menzione scritturale del termine qol, che segue di non molti versetti quella della voce divina nel giardino, si riferisca a un oggetto di per sé muto: Che hai fatto? - chiede il Signore a Caino - La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra (Gen. 4. ro). In questo passo è evidentemente l'immagine indelebile del sangue a gridare verso l'alto, ed è il suo qol, la voce emotiva, a giungere ben distinto sino a Dio. Nei racconti biblici la manifestazione di Dio è d'altra parte talora accompagnata dall'apparizione della voce, che è «veduta» dal popolo. Cosí accade quando viene enunciato il decalogo, nel ventesimo capitolo dell'Esodo: Ora tutto il popolo vedeva le voci, il suono della tromba e il monte fumante: il popolo vide, tremò e se ne stette a distanza (Es. 2o. r8). Nel passo prevale lo scambio semantico tra visione e suono, giacché due dei tre attributi teofanici hanno sostanza puramente sonora e non possono essere veduti che interiormente: l'effetto espressivo che ne risulta accentua l'emozione per il manifestarsi del nume. Il testo piú importante per la ricostruzione dell'antico simbolismo della voce di Dio è senza dubbio il salmo 29, nel quale il sintagma la voce del Signore (qol Yhwh) ricorre per ben sette volte"': la voce del Signore sopra le acque ... la voce del Signore è potenza, la voce del Signore è maestà, la voce del Signore schianta i cedri ... la voce, del Signore sprizza lingue di fuoco. La voce del Signore fa turbinare il deserto ... la voce del Signore scuote le querce e sfronda le selve(Sal. 29.3-9). La possibilità di vedere il suono è qui espressa dal rimbombo, che si accompagna al moto delle acque, dal fulmine,anticipato dal tuono, e dai vortici del vento: qol rappresenta allora quell'unione di qualità visibili e sonore che meglio d'ogni altra caratteristica allude al divino; la voce dei portenti fisici con la quale. Dio si manifesta è un suono inarticolato che viene prima della parola e che, rispetto a questa, conserva un'energia piú ricca e profonda. In questo salmo, la voce è dunque l'anima segreta di ogni moto e le sette voci si susseguono con gli accenti di un'arcaica sapienza innodica, grazie alla quale il suono divino circonda l'orante da ogni parte. Il numero sette - che evidenzia l'integrità dì un ciclo - simboleggia poi la completezza dell'inventario delle voci visibili della natura, la cui concezione deriva probabilmente dalle rappresentazioni teofaniche diffuse nella letteratura delle antiche culture vicino-orientali. Il motivo delle sette voci fragorose (hepta brontai) è ripreso già in Apoc. 10.3-4: E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero sentire le loro voci. E quando ebbero parlato i sette tuoni, io stavo per scrivere, ma udii una voce dal cielo. Un parallelo significativo al testo biblico si ritrova per esempio in una formula divinatoria accadica, nella quale è descritto l'apparire, a un tempo visivo e sonoro, di Adad, il dio mesopotamico della tempesta: «Il fulmine balena da sud e nord verso est e ovest, il fulmine balena sette volte. Adad tuona una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte». Le manifestazioni della divinità attraverso le voci della natura, corredo degli inni religiosi pagani, vennero pertanto ammesse nella poesia biblica, che le riferí al Dio d'Israele, e furono accolte dall'ebraismo per la loro qualità astratta e per la capacità di evocare, senza alcuna figurazione, la forza trascendente del numinoso. La tradizione post biblica rimase fedele a questa nozione della preminenza del suono indistinto delle origini, che si sarebbe in seguito stemperato sino a trasformarsi nel discorso articolato degli uomini. In un passo del midras Genesi rabbah, Abba bar Kahana,un maestro vissuto alla fine del in secolo, racconta una parabola sulle acque primordiali: «All'inizio della creazione del mondo -egli narra - la lode dell'Onnipotente saliva dalle acque ... Il Santo, sia Egli benedetto, disse: Se queste, che non hanno bocca né facoltà di parola, mi lodano, quanto piú sarò lodato una volta che verrà creato l'uomo ... ma la generazione del diluvio si levò, ribellandosi contro di lui ... Il Santo, sia Egli benedetto, disse allora: Siano questi cancellati e al loro posto ripristinate le acque, come è detto: E la pioggia cadde sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti (Gen. 7.12)». Nel prosieguo del racconto, la lode espressa dal rumore dell'abisso è paragonata a un encomio di cor-tigiani sordi che celebrano il loro re a gesti, mentre la ribellione dell'uomo viene assimilata a sapienti oratori i quali, anziché lodare il loro Signore, ne vogliono usurpare il merito. Per il maestro della haggadah il rumore delle acque è piú adatto a esprimere la gloria di Dio di quanto lo siano le insincere parole dell'uomo e il linguaggio non verbale è di molto superiore a un eloquio forbito. Nel pensiero cabbalistico, il simbolismo della voce fu applicato alle differenti gradazioni dell'energia divina, rappresentate dalle sefirot. Nel Sefer hazohar (Il libro dello splendore) - il cui autore, alla fine del Duecento, rielaborò con perizia letteraria le riflessioni dei primi mistici ebrei - compare un'organica presentazione di qol come metafora del trascendente. Mentre le sette sefirot inferiori, da hesed a malkut, vengono definite «sette voci», la loro origine superna è detta «voce grande ... voce interiore che non può udirsi», in accordo con la concezione che fa corrispondere al minimo di articolazione verbale il grado massimo di forza numinosa. L'autore si dilunga inoltre sulla natura della voce interna, «che sussiste nel pensiero, ma non si mostra e non può essere ascoltata. Quando esce si rivela appena in un sussurro, che ancora non s'ode: è la voce grande, tenue sospiro». Il discorso mistico procede qui per antitesi, contrapponendo la grandezza dvina della voce alla sua flebile materia sonora. La lettera scelta per rappresentarla è la he, che, nella lingua ebraica, viene pronunciata con una rapidissima e quasi impercettìbìle aspirazione: «Quando sale nella gola - leggiamo ancora nello Zobar - [la voce interiore] produce una he, in un sussurro, e poi continua a fluire, senza interruzioni ». È dal suono inarticolato che trae dunque origine, secondo lo Zohar, la voce percepibile del reale. In maniera opposta a quanto avviene nel simbolismo della luce - in cui il fulgore superno si depotenzia in scintille sempre piú fioche quanto piú scende verso il mondo materiale -, nella descrizione cabbalistica dell'emanazione attraverso la voce il grado piú alto e piú vicino alla divinità è un silenzio innominabile che, a poco a poco, si trasforma in un suono continuo ma lievissimo. Solo alla fine di tale processo l'immedesimarsi della voce celeste nelle realtà sensibili darà vita al linguaggio articolato, chiaramente udibile ma al tempo stesso ormai lontano dall'energia creativa di quel primo sibilo. Nella riflessione dei mistici ebrei, il suono inarticolato dei primordi diviene allora il soffio inarrestabile che dà origine alla realtà, un vento incessante che risuona nella voce del mondo.
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