Signore, di' a mio fratello che abbia insieme a me l'eredità.
non voglio privarlo dell'eredità,
non voglio possedere da solo,
so bene che non diventerà insufficiente quanto possiedo
nel caso siano in molti a possederlo con me.
Quel che possiedo è quella che ancor più si estende
crescendo il numero dei possessori:
ha nome carità.
S. Agostino
Dal Vangelo secondo Luca 12,13-21
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
Il commento
“Eredità” e “cupidigia”, ogni conflitto tra “fratelli” sorge dalla inconciliabilità di questi due termini. Dove vi è eredità non può esservi cupidigia. L'eredità è un dono che scaturisce dal legame con colui che fa testamento. E' frutto della sua liberalità, del suo amore. Noi tutti, "fratelli" nati dallo stesso Padre, per pura Grazia, siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo. Di nostro, come Caino con Abele, abbiamo messo solo superbia, gelosie e peccati. Come il figlio prodigo abbiamo dilapidato tutto. Come Adamo abbiamo perduto il Paradiso.
"O uomo!" ci dice oggi il Signore, perché nel “tale” tra la folla e in ciascuno di noi Egli intercetta proprio Adamo: ricco "presso Dio" nel Paradiso, di fronte al "raccolto abbondante" ricevuto in "eredità", si è fermato a "dialogare con se stesso" ed è rimasto intrappolato nella menzogna del demonio. Come accade a noi quando, di fronte alla storia, ci rintaniamo nella nostra ragione facendo spazio alle adulazioni del nemico che ci convincono d'essere come dio.
E allora, eccoci a testa bassa ad "accumulare tesori per noi stessi", moglie, marito, amici, denaro; "non sappiamo che fare" dei doni di Dio, non "abbiamo dove metterli" tanto il cuore è indurito; e così, nella paura di perderli, li serriamo nei "granai" del nostro egoismo, sempre "più grandi" per saziare il vuoto crescente e incolmabile di un dio senza paradiso.
“Dirò a me stesso”: è la follia di chi si crede nello stesso tempo autore e fruitore della vita, dio e creatura; la “stoltezza” demoniaca che si fa cupidigia, desiderio rapace e arrogante, perché sempre inappagato.
O si è Dio o si è creatura. Siamo tutti “uomini ricchi” la cui vita può dare sempre un raccolto abbondante, Cristo Gesù vivo in noi. Pensare di servirsi di Lui per installarsi e “mangiare, bere e divertirsi”, è trasformare la vita in una folle corsa verso il nulla, preda dell’illusione di “avere a disposizione molti beni”, dimenticando che sono dati in amministrazione e non ce se ne può appropriare, perché di tutti ne sarà chiesto conto.
Spendiamo i giorni a progettare e mettere in agenda "per molti anni" riposo e godimento, e non riserviamo neanche un giorno alla morte, unica certezza. Offriamo a noi stessi la sessualità, con la quale Dio ci ha fatti “eredi” della creazione e della vita, per farne uno strumento di piacere che trasforma l’altro in un oggetto di consumo.
Così come in tante circostanze, quando un "fratello" - moglie o marito, figli o amici - un altro Adamo ingannato come noi, ci “ruba l'eredità" che abbiamo ridotto a meschina proprietà della carne: l’affetto, la stima, il nostro tempo, l'onore, la carriera, i diritti; quando la "notte" degli eventi oscuri e dolorosi viene a "chiederci la vita" e ce ne trova miseramente sprovvisti, incapaci di donarla perché ormai ridotta a un brandello lacerato dall'egoismo, rivelando la "stoltezza" di chi fa "dipendere la vita dai beni" destinati a corrompersi.
E’ allora che ci facciamo maestri del Maestro, pretendendo di insegnargli come e cosa giudicare per giustificare la nostra cupidigia che ci ha separati da Lui e dai fratelli: “chi mi ha costituito giudice” secondo i criteri del mondo e della carne? Chi ha posto la mia vita a “mediare” tra una cupidigia e l'altra?
Ma Gesù, che è Dio, “giudica” anche oggi attraverso la croce: i progetti fondati sull'egoismo sono le spine conficcate nella testa, preoccupazioni, angosce e notti insonni; le ricchezze accumulate con avidità sono i chiodi che illuminano la nostra incapacità di donarci.
La croce, infatti, ci è data per comprendere che “la vita non dipende da ciò che l’uomo possiede”, ma dall'uso che si fa dei beni dati in amministrazione: un solo modo rende la vita autentica e innestata nell'eternità, quello che ci fa “arricchire presso Dio”, che significa vivere seguendo la sapienza della croce.
Il sapiente vive crocifisso con Cristo, fissando lo sguardo sul Cielo; è figlio del Padre, sa che la vita può essere vissuta solo donandola, esattamente come è stata ricevuta. Partecipa già della risurrezione di Gesù, è libero e con Lui giudica ogni cosa con sapienza, perché ha sperimentato che nulla potrà mai separarlo dal suo amore.
Il sapiente ha conosciuto il perdono, lo stolto vive nel rimorso. Per il sapiente la vita, con i suoi beni e i suoi affetti, è segno del perdono e così diventa dono che non teme la morte. Lo stolto progetta e si tormenta, incalzato dalla paura di morire, senza sapere “di chi sarà quello che ha preparato”.
Per divenire sapienti abbiamo bisogno di Gesù, il “giudice” che sulla Croce si è fatto “mediatore”. Ha giudicato il peccato e ha posto la sua vita come mediazione per il riscatto. Il Signore si è lasciato uccidere dalla nostra cupidigia ed è risorto per donarci l'autentica "eredità": dal Cielo viene ogni giorno a giudicare vivi e morti, sapienti e stolti. Chi, come le vergini sagge, è "ricco" di Spirito Santo, può accoglierlo ed entrare nel suo banchetto di nozze che dà senso e pienezza alla vita; chi, come le vergini stolte, ha disprezzato il dono di Dio, resterà fuori dal Paradiso, chiuso nell'orgoglio che genera tristezza e solitudine.
Occorre dunque “fare attenzione” a ogni istante della nostra vita, lasciando che lo Spirito Santo di sapienza e amore colmi i piccoli vasi delle cose di ogni giorno, perché "quello che abbiamo preparato" possa annunciare a tutti il Vangelo e "sia di" coloro che Dio metterà sul nostro cammino; occorre essere fedeli nel poco e nel molto, discernendo eventi e relazioni per imparare come, in tutto, rimanere "presso" il Signore per “arricchirci” del suo amore; se accolto, esso si moltiplica a dismisura perché “Caritas Christi urget nos: l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti… perché quelli che vivono non vivano più per se stessi” ma per Lui (cfr. 2 Cor. 5,14).
Il suo amore, nel matrimonio ci spinge al perdono, e ci apre alle nuove vite che Dio vuole donarci, "tenendoci lontani" da settimane bianche e schermi ultrapiatti che le famiglie numerose non possono permettersi. Nello studio, ci fa spendere le ore nel sacrificio che ci fa adulti e "ricchi" di maturità e responsabilità. Nel lavoro, ci "allontana" dalla cupidigia della carriera per fare dell'ufficio un altare dove offrirsi a colleghi e dirigenti.
Nel fidanzamento ci difende dalla concupiscenza per rispettare l’altro e imparare a donarsi. In chiunque incontriamo ferito dal peccato e dal male ci fa riconoscere l'immagine del Creatore impressa in lui e scoprire così di trovarci "presso Dio"; per lui ci rende come il buon samaritano, capace di spendere le proprie sostanze per "arricchirlo" e schiudergli le porte della salvezza.
Siamo chiamati ogni giorno nell’urgenza di donare, ovunque e a tutti, "il raccolto abbondante" dell'amore che colma la "campagna" della nostra vita, “accumulando tesori” per arricchirne il Cielo, accompagnando “presso Dio” i "fratelli" che cercano in noi l'Eredità perduta.
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