Nel libro dell’Esodo è scritto: “(Mosé) gli disse:«Mostrami la tua gloria». (Dio) rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia» (Es 33,18-19); e nel Deuteronomio Mosé così parla al popolo d’Israele: “Poiché il Signore Dio tuo è un Dio misericordioso; non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri” (Dt 4,31). Una caratteristica fondamentale del Dio che le Scritture ebraiche ci presentano è quella della misericordia. Si tratta di una qualità fondamentale dell’atteggiamento divino nei riguardi delle sue creature e soprattutto dei suoi eletti. La misericordia di Dio di cui ci parla l’Antico Testamento è qualcosa che è in stretto rapporto con l’amore e con la stessa giustizia, che non è la giustizia umana. Anche quando Dio è amareggiato dal suo popolo e lascia profilare i castighi che sopravverranno, egli rimane il Dio della vita che attende con pazienza il ritorno (una parola molto usata nell’AT) del peccatore, perché possa vivere in pienezza.
Il Dio degli ebrei è anche il Dio dei cristiani e l’evangelista Luca lo ha capito così bene, che ne dà un saggio, presentandoci al c. 15 del suo vangelo tre parabole molto significative: due brevi e simili, la terza più sviluppata e ricca di emozione e d’insegnamento teologico. Cominciamo dalle prime due.
“Gli esattori delle tasse e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. I farisei e i dottori della legge mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con essi». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Chi di voi, se possiede cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto per andare a cercare quella che si è smarrita, finché non la ritrova? Quando la trova, se la mette sulle spalle contento, ritorna a casa, cònvoca gli amici e i vicini e dice loro: "Fate festa con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta". Così, vi dico, ci sarà gioia nel cielo più per un peccatore che si converte, che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione».
«O quale donna, se possiede dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza bene la casa e si mette a cercare attentamente, finché non la trova? Quando l' ha trovata, chiama le amiche e le vicine di casa e dice loro: "Fate festa con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta". Così, vi dico, gli angeli di Dio fanno grande festa per un solo peccatore che si converte»” (Lc 15,1-10).
Queste due prime parabole sono brevi e di grande efficacia. Esse sono la risposta immediata all’osservazione critica dei farisei e dei dottori della legge circa il rapporto che Gesù intrattiene con i peccatori. Qual è il vero senso delle parole di Gesù? Egli in realtà vuol correggere e ri-orientare l’atteggiamento dei suoi critici nei riguardi della legge divina. Questi sono scandalizzati dalla frequentazione di persone che con i loro peccati contaminano chi ha a che fare con loro: essi si attengono ad una concezione di purità legale con cui credono di proteggere la legge. Gesù corregge questo modo di vedere ri-orientandolo sull’autentico significato della legge di Dio: la legge esiste per la legge o a favore dell’uomo? Se Dio ha posto la legge a vantaggio dell’uomo, cioè per la sua salvezza, allora non si può abbandonare il peccatore a se stesso. Dio ha dato la legge all’uomo, perché lo ama e lo vuole salvare: egli è un Dio di misericordia. Questa è la grande verità che l’ebreo Gesù rivela nella sua interezza agli astanti. Dio è come un pastore ricco di cento pecore, di cui se ne perde una; egli non riposa finché non la ritrova e, felice, se la pone in spalla per tornare a casa a festeggiare l’evento con gli amici. Lo stesso significato ha il ritrovamento della moneta da parte della donna che ne aveva dieci, ma ne aveva perso solo una. Le novantanove pecore e le nove dramme non sono senza importanza per i loro possessori, ma la loro passione è per ciò che si era perso e che ora si è ritrovato. La festa in cielo per un solo peccatore pentito è la gioia di Dio per aver ridato la vita a chi egli ama.
La terza parabola, quella del “figliol prodigo”, è più circostanziata e contiene oltre alla verità espressa nelle due precedenti, un’altra verità anch’essa espressione della misericordia di Dio: l’amore intatto per il suo popolo.
“E diceva: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi subito la parte di eredità che mi spetta". Allora il padre divise le sostanze tra i due figli. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolti tutti i suoi beni, emigrò in una regione lontana e là spese tutti i suoi averi, vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe dato fondo a tutte le sue sostanze, in quel paese si diffuse una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Andò allora da uno degli abitanti di quel paese e si mise alle sue dipendenze. Quello lo mandò nei campi a pascolare i porci. Per la fame avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora, rientrando in se stesso, disse: "Tutti i dipendenti in casa di mio padre hanno cibo in abbondanza, io invece qui muoio di fame! Ritornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e dinanzi a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi mercenari". Si mise in cammino e ritornò da suo padre. Mentre era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione. Gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il cielo e dinanzi a te. Non sono più degno di essere considerato tuo figlio". Ma il padre ordinò ai servi: "Presto, portate qui la veste migliore e fategliela indossare; mettetegli l' anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso e ammazzatelo. Facciamo festa con un banchetto, perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa. Ora, il figlio maggiore si trovava nei campi. Al suo ritorno, quando fu vicino a casa, udì musica e danze. Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse successo. Il servo gli rispose: "È ritornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché ha riavuto suo figlio sano e salvo". Egli si adirò e non voleva entrare in casa. Allora suo padre uscì per cercare di convincerlo. Ma egli rispose a suo padre: "Da tanti anni io ti servo e non ho mai disubbidito a un tuo comando. Eppure tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ora invece che torna a casa questo tuo figlio che ha dilapidato i tuoi beni con le meretrici, per lui tu hai fatto ammazzare il vitello grasso". Gli rispose il padre: "Figlio mio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è anche tuo; ma si doveva far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
Questa bellissima parabola va letta tutta attentamente. Di solito, ci si sofferma sulla prima parte, i vv. 11-24, che è pure di straordinario valore, ma si tralascia la seconda parte, i vv. 25-32, che non è meno importante, perché integra il concetto di misericordia divina. La prima parte rapisce l’attenzione dei lettori o ascoltatori, perché il racconto che fa Gesù è trascinante e commovente; egli narra di un giovane presuntuoso e privo d’esperienza che per una pretesa libertà intende prendere una sua via, abbandonando quella che lo tratteneva nel benessere e di certo in una non minore libertà. Il giovane finisce male, ma dal male talora viene il bene, perché egli capisce tante cose, si converte e ritorna (la parola preziosa dell’AT) al padre che lo ama. Non richiesta di umiliazione e di penitenze, ma gioia, affetto e festa è quello che trova il giovane.
Il recupero alla vita non è un aggiustamento di conti amministrativi o finanziari, bensì una nuova creazione, che pretende l’esplosione del gaudio che solo l’amore sa provocare. Il fratello maggiore che viene ad apprendere tutto questo, si rattrista, si arrabbia, quasi si pente di essere stato un “giusto”, ma il padre esce anche incontro a lui per confermargli una grande verità: chi è già figlio e come tale si comporta, non ha da invidiare nessuno né da avere timore di essere spossessati di alcunché, perché rimane nella pienezza dei suoi diritti.
L’amore di un padre vero è senza pentimenti! Noi sappiamo ormai da sempre chi è il padre e chi è ciascuno dei due figli, ma dobbiamo riscoprirlo ogni giorno, per convertirci e deliziarci della grazia di Dio. Il padre buono è misericordioso è Dio che non si oppone alla libertà dei suoi figli, anche quando sa che stanno intraprendendo una strada sbagliata; egli sa attendere con pazienza il rientro in se stessi e nella vera libertà, che reintegra nei diritti di figli. I due fratelli invece rappresentano storicamente il primogenito figlio di Dio, Israele, e il secondogenito convertito alla volontà divina incarnata in Gesù Cristo; teologicamente però essi rappresentano una realtà perenne: noi tutti siamo entrambi i fratelli; ora siamo il fratello minore che pensa di acquistare la libertà sganciandosi da Dio, ora siamo il fratello maggiore, ligio alle norme, ma di un’obbedienza grigia ed opaca, che talora dimentica di possedere già tutto l’amore di Dio. È una verità della storia, è una verità della vita. In realtà, siamo tutti veramente fratelli e tutti amati da un unico vero padre, quello celeste.
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