Gesú e i peccatori. P. Raniero Cantalamessa

Il vangelo della IV domenica di Quaresima è una delle pagine più celebri del vangelo di Luca e di tutti e quattro i vangeli: la parabola del figliol prodigo. Tutto, in questa parabola, è sorprendente; mai Dio era stato dipinto agli uomini con questi tratti. Ha toccato più cuori questa parabola da sola che tutti i discorsi dei predicatori messi insieme. Essa ha un potere incredibile di agire sulla mente, sul cuore, sulla fantasia, sulla memoria. Sa toccare le corde più diverse: il rimpianto, la vergogna, la nostalgia.


La parabola è introdotta con queste parole: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro”.

Allora egli disse loro questa parabola…” (Lc 15, 1-2). Seguendo questa indicazione, vogliamo riflettere sull’atteggiamento di Gesú verso i peccatori, spaziando su tutto il vangelo, mossi dallo scopo che ci siamo prefissi in questo commento ai vangeli della Quaresima, di conoscere meglio chi era Gesú, cosa sappiamo storicamente di lui.


È nota l’accoglienza che Gesú riserva ai peccatori nel vangelo e l’opposizione che essa gli procurò da parte dei difensori della legge che lo accusavano di essere “un mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori” (Lc 7, 34). Uno dei detti storicamente meglio attestati di Gesú suona: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2, 17). Sentendosi da lui accolti e non giudicati, i peccatori lo ascoltavano volentieri.


Ma chi erano i peccatori, quale categoria di persone veniva designata con questo termine? Qualcuno, nell’intento di scagionare del tutto gli avversari di Gesú, i farisei, ha sostenuto che con questo termine si intendono “i trasgressori deliberati e impenitenti della legge”, in altre parole i criminali, i fuori legge. Se fosse così, gli avversari di Gesú avevano tutta la ragione di scandalizzarsi e di ritenerlo persona irresponsabile e socialmente pericolosa. Sarebbe come se oggi un sacerdote frequentasse abitualmente mafiosi e criminali e accettasse i loro inviti a pranzo, con il pretesto di parlare loro di Dio.


In realtà le cose non stanno così. I farisei avevano una loro visione della legge e di ciò che è conforme o contrario ad essa e consideravano reprobi tutti quelli che non si conformavano alla loro rigida interpretazione della legge. Peccatori, insomma, erano per loro tutti quelli che non seguivano le loro tradizioni e i loro dettami. Seguendo la stessa logica, gli Esseni di Qumran consideravano ingiusti e violatori della legge i farisei stessi! Succede anche oggi. Certi gruppi ultraortodossi considerano automaticamente eretici tutti quelli che non la pensano esattamente come loro.


Un eminente studioso scrive a questo riguardo: “Non è vero che Gesú aprisse le porte del regno a criminali incalliti e impenitenti, o negasse l’esistenza di ‘peccatori’. Gesú si oppose agli steccati che venivano eretti nel corpo d’Israele, per i quali alcuni israeliti venivano trattati come se fossero fuori del patto e esclusi dalla grazia di Dio” (James Dunn).


Gesú non nega che esista il peccato e che esistano i peccatori. Il fatto di chiamarli “malati” lo dimostra. Su questo punto egli è più rigoroso dei suoi avversari. Se questi condannano l’adulterio di fatto, egli condanna anche l’adulterio di desiderio; se la legge diceva di non uccidere, lui dice che non si deve neppure odiare o insultare il fratello. Ai peccatori che si avvicinano a lui, egli dice: “Va’ e non peccare più”; non dice: “Va’ e continua come prima”.

Quello che Gesú condanna è di stabilire per conto proprio qual è la vera giustizia e disprezzare gli altri, negando loro perfino la possibilità di cambiare. È significativo il modo in cui Luca introduce la parabola del fariseo e del pubblicano: “Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9). Gesú era più severo verso coloro che, sprezzanti, condannavano i peccatori, che verso i peccatori stessi.


Ma il fatto più nuovo e inaudito nel rapporto tra Gesú e i peccatori non è la sua bontà e misericordia verso di loro. Questo si può spiegare umanamente. C’è, nel suo atteggiamento, qualcosa che non si può spiegare umanamente, cioè ritenendo che Gesú fosse un uomo come gli altri, ed è il fatto di rimettere i peccati.


Gesú dice al paralitico: “Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati”. “Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?”, gridano inorriditi i suoi avversari. E Gesú: “Affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di rimettere i peccati, Alzati, disse al paralitico, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”. Nessuno poteva verificare se i peccati di quell’uomo erano stati rimessi o no, ma tutti potevano costatare che si alzava e camminava. Il miracolo visibile attestava quello invisibile.


Anche l’esame dei rapporti di Gesú con i peccatori, contribuisce dunque a dare una risposta alla domanda: Chi era Gesú? Un uomo come gli altri, un profeta, o qualcosa di più e di diverso? Durante la sua vita terrena Gesú non affermò mai esplicitamente di essere Dio (e abbiamo spiegato inprecedenza anche perché), ma agì attribuendosi poteri che sono esclusivi di Dio.


Torniamo adesso al vangelo di domani e alla parabola del figliol prodigo. C’è un l’elemento comune che unisce tra loro le tre parabole della pecorella smarrita, della dramma perduta e del figliol prodigo narrate una di seguito all’altra nel capitolo 15 di Luca. Cosa dice il pastore che ha ritrovato la pecorella smarrita e la donna che ha ritrovato la sua dramma? “Rallegratevi con me!”. E cosa dice Gesù a conclusione di ognuna delle tre parabole? “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

Il leitmotiv delle tre parabole è dunque la gioia di Dio. (C’è gioia “davanti agli angeli di Dio”, è un modo tutto ebraico di dire che c’è gioia “in Dio”). Nella nostra parabola, la gioia straripa e diventa festa. Quel padre non sta più nella pelle e non sa cosa inventare: ordina di tirare fuori il vestito di lusso, l’anello con il sigillo di famiglia, di uccidere il vitello grasso, e dice a tutti: ”Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.


In un suo romanzo, Dostoevskij descrive un quadretto che ha tutta l’aria di una scena osservata dal vero. Una donna del popolo tiene in braccio il suo bambino di poche settimane, quando questi - per la prima volta, a detta di lei- le sorride. Tutta compunta, ella si fa il segno della croce e a chi le chiede il perché di quel gesto risponde: “Ecco, allo stesso modo che una madre è felice quando nota il primo sorriso del suo bimbo, così si rallegra Iddio ogni volta che un peccatore si mette in ginocchio e rivolge a lui una preghiera fatta con tutto il cuore” (L’Idiota, Milano 1983, p. 272). Chissà che qualcuno, ascoltando, non decida di dare finalmente a Dio un po’ di questa gioia, di fargli un sorriso prima di morire…

Nessun commento: