Ratzinger - Benedetto XVI. L'annuncio del Regno di Dio

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Brani da "J. Ratzinger, La Chiesa, Edizioni Paoline 1991, pp.14-20", tratti da:http://web.i2000net.it/ioculano/chiesa/chiesa3.htm

Partiamo dal fatto che l’annuncio di Gesù riguardava direttamente non la Chiesa, ma il regno di Dio (o «regno dei cieli»). Lo dimostra una circostanza puramente statistica: il regno di Dio ricorre nel Nuovo Testamento centoventidue volte: di queste, ben novantanove nei vangeli sinottici, novanta delle quali si trovano in parole di Gesù. Possiamo cosě comprendere l’affermazione di Loisy, divenuta col tempo popolare: Gesù ha annunciato il regno, ed č venuta la Chiesa. Ma una lettura storica dei testi dimostra che questa contrapposizione tra regno e Chiesa non č obiettiva. Secondo la concezione giudaica, difatti, la specificità del regno di Dio consiste nel radunare e purificare gli uomini per questo regno. «Proprio perché riteneva prossima la fine, Gesù dovette voler radunare il popolo di Dio del tempo della salvezza». Nella profezia postesilica, la venuta del regno č preceduta dal profeta Elia o dall’«angelo» rimasto anonimo, il quale prepara il popolo per tale regno. Giovanni Battista, proprio perché č l’annunciatore del Messia, riunisce la comunità della fine dei tempi e la purifica. Cosě pure la comunità di Qumran, proprio a motivo della sua fede escatologica, si era riunita come comunità della nuova alleanza. Per questo J. Jeremias conclude con questa formulazione: «Ciò dev’essere puntualizzato fortemente: tutta l’opera di Gesù mira solo a raccogliere il popolo escatologico di Dio».
Di questo popolo Gesù parla in molte immagini, in particolare nelle parabole della crescita, nelle quali il «presto» dell’escatologia ravvicinata, caratteristica di Giovanni Battista e di Qumran, sfocia nell’adesso della cristologia. Gesù stesso č l’opera di Dio, la sua venuta, la sua signoria. «Regno di Dio» in bocca a Gesù non significa qualche cosa o qualche luogo, ma l’agire attuale di Dio. Perciò non č errato tradurre l’affermazione programmatica di Mc 1,15 «Il regno di Dio č giunto»: Dio č giunto. Di qui emerge ancora una volta la connessione con Gesù, con la sua persona: egli stesso č la vicinanza di Dio. Dove è Gesù, ivi è il regno. A tale riguardo, la frase di Loisy va cosě modificata: Č stato promesso il regno, ed č venuto Gesù. Solo in questo modo si comprende rettamente il paradosso di promessa e compimento.
Ma Gesù non č mai solo. Egli č anzi venuto per riunire quelli che erano dispersi (cfr. Gv 11,52; Mt 12,30). Perciò tutta la sua opera sta nel radunare il popolo nuovo. Sicché abbiamo giŕ due elementi essenziali per la futura nozione di Chiesa, e cioè: nel nuovo popolo di Dio, nel senso di Gesù, č insita la dinamica per cui tutti divengono una cosa sola, quell’andare gli uni verso gli altri andando verso Dio. E inoltre il punto di raccolta interiore del nuovo popolo č Cristo; esso, d’altro canto, diventa un popolo solo attraverso la chiamata di Cristo e attraverso la risposta alla chiamata, alla persona di Cristo…
L’altro rilievo ci introduce giŕ nel prossimo tema: i discepoli chiedono a Gesů una loro preghiera comune. «Presso i gruppi religiosi dell’ambiente circostante, un proprio ordine di preghiera costituisce infatti un essenziale segno distintivo della comunità» Perciò la richiesta di una preghiera esprime la consapevolezza da parte dei discepoli di essere divenuti una nuova comunità facente capo a Gesù. Qui essi sono come la cellula primigenia della Chiesa, e ci mostrano al tempo stesso che la Chiesa č una comunità unificata essenzialmente a partire dalla preghiera. La preghiera con Gesù ci dŕ la comune apertura a Dio.
Di qui seguono automaticamente altri due passaggi. Anzitutto dobbiamo tener conto del fatto che la comunità dei discepoli di Gesù non č un gruppo amorfo. In mezzo a loro c’è il nucleo compatto dei Dodici, accanto al quale, secondo Luca (10,1-20), si colloca altresì la cerchia dei settanta o settantadue discepoli. Va tenuto presente che solo dopo la risurrezione i Dodici ricevono il titolo di «apostoli». Prima di allora sono chiamati semplicemente «i Dodici». Questo numero, che fa di loro una comunità chiaramente circoscritta, č cosě importante che, dopo il tradimento di Giuda, viene nuovamente integrato (At 1,15-26). Marco descrive espressamente la loro vocazione con le parole: «e Gesù ne costituì Dodici» (3,14). Il loro primo compito č quello di formare insieme i Dodici; a ciò si aggiungono poi due funzioni: «che stessero con lui e potesse inviarli a predicare» (Mc 3,14). Il simbolismo dei Dodici č perciò di decisiva importanza: č il numero dei figli di Giacobbe, il numero delle tribù d’Israele. Con la formazione del gruppo dei Dodici Gesù si presenta come il capostipite di un nuovo Israele; a sua origine e fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva essere espressa con maggiore chiarezza la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza fisica, bensì attraverso il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui vengono inviati a trasmetterlo. Qui č giŕ possibile riconoscere anche il tema di unità e molteplicità, dove nell’indivisibile comunità dei Dodici che solo in quanto tale realizzano il loro simbolismo — la loro missione — domina certamente il punto di vista del popolo nuovo nella sua unità.
Il gruppo dei settanta o settantadue, di cui parla Luca, integra questo simbolismo: settanta (settantadue) era, secondo la tradizione giudaica (Gn 10; Es 1,5; Dt 32,8), il numero dei popoli del mondo. Il fatto che l’Antico Testamento greco, nato in Alessandria, sia stato attribuito a settanta (o settantadue) traduttori doveva significare che con quel testo in lingua greca il libro sacro di Israele era diventato la Bibbia di tutti i popoli, come in effetti č poi avvenuto, avendo i cristiani adottato tale traduzione. Il numero di settanta discepoli manifesta la pretesa di Gesù nei confronti dell’intera umanità, che come tale deve formare la schiera dei suoi discepoli; essi stanno a indicare che il nuovo Israele abbraccerà tutti i popoli della terra.
La preghiera comune che i discepoli hanno ricevuto da Gesù ci mette su un’ulteriore traccia. Duarante la sua vita terrena Gesù aveva partecipato insieme ai Dodici al culto del tempio di Israele. Il Padre nostro era il primo inizio di una speciale comunità di preghiera con e a partire da Gesù. Inoltre nella notte, prima della passione, Gesù compie un altro passo in tale direzione quando trasforma la Pasqua di Israele in un culto totalmente nuovo, che logicamente doveva portare fuori dalla comunità del tempio e con ciò fondare definitivamente un popolo della «nuova alleanza». Le parole di istituzione dell’eucarestia, sia nella tradizione marciana sia in quella paolina, hanno sempre a che fare con l’alleanza; esse rimandano al Sinai e alla nuova alleanza preannunziata da Geremia. I sinottici e il vangelo di Giovanni stabiliscono inoltre, sia pure in modi diversi, il nesso con l’evento pasquale, e infine richiamano anche le parole del Servo sofferente in Isaia. Con la Pasqua e il rito dell’alleanza sinaitica vengono recepiti i due atti fondativi di Israele attraverso i quali esso divenne e diviene sempre nuovamente un popolo. Il nesso di questo sfondo cultuale originario, su cui si basava e viveva Israele, con le parole-chiave della tradizione profetica fonde passato, presente e futuro nella prospettiva di una nuova alleanza. Il senso del tutto č chiaro: «Come in passato l’antico Israele venerava nel tempio il proprio centro e la garanzia della propria unità e nella celebrazione comunitaria della Pasqua realizzava in maniera viva tale unità, cosě ora questo nuovo banchetto deve essere il vincolo di unità di un nuovo popolo di Dio. Non c’è più bisogno di un luogo centrale costituito dall’unico tempio esteriore… Il corpo di Cristo, che č il centro del banchetto del Signore, č l’unico nuovo tempio che congiunge in unità i cristiani ben più realmente di quanto possa fare un tempio di pietre».
Allo stesso ordine di idee appartiene un’altra serie di testi della tradizione evangelica. Tanto Matteo e Marco come «anche Giovanni tramandano (naturalmente in diversi contesti) l’espressione di Gesù, secondo la quale egli ricostruirà in tre giorni il tempio distrutto e lo sostituirà con uno migliore (Mc 14,58 e Mt 26,61; Mc 15,29 e Mt 27,40; Gv 2,19; cfr. Mc 11,15-19 par.;Mt 12,6). Sia nei sinottici che in Giovanni č chiaro che il nuovo tempio, “non fatto da mani d’uomo”, č il corpo glorioso di Gesù stesso…». Ciò significa: «Gesù annuncia il crollo del culto antico e con esso dell’antico popolo e ordinamento salvifico, e promette un nuovo culto più elevato, al cui centro ci sarà il suo stesso corpo glorioso».
Ne segue che la fondazione della santissima eucaristia nella sera che precede la passione non può essere vista come una qualsiasi azione più o meno isolata. Essa č la stipulazione di un patto e, come tale, la concreta fondazione del nuovo popolo, che diviene tale attraverso il suo rapporto di alleanza con Dio. Potremmo anche dire: in virtù dell’evento eucaristico, Gesù coinvolge i discepoli nel suo rapporto con Dio e pertanto anche nella sua missione che ha di mira «i molti», ossia l’umanità di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Questi discepoli diventano «popolo» attraverso la comunione col corpo e sangue di Gesù, che č al tempo stesso comunione con Dio. L’idea veterotestamentaria dell’alleanza, che Gesù accoglie nella sua predicazione, riceve un nuovo centro: la comunione col corpo di Cristo. Potremmo dire: il popolo della nuova alleanza diventa popolo a partire dal corpo e dal sangue di Cristo, ed č solo a partire da questo centro che č popolo. Può essere chiamato «popolo di Dio» perché, per la comunione con Cristo si apre il rapporto con Dio, che l’uomo non č in grado di stabilire da sé.

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