Paolo VI: Omelia nella Solennità del Corpus Domini

Domenica, 12 giugno 1977

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Noi celebriamo oggi la festa del «Corpus Domini», non già nel giorno che le era tradizionalmente prefisso, il Giovedì successivo alla Domenica dedicata ad onorare la SS.ma Trinità, ma nella Domenica dopo questa solennità, e ciò per uniformare a quello civile il nostro calendario liturgico; ma dichiariamo subito che questo spostamento di ricorrenza puramente cronologica, reso opportuno anche in Italia, non vuole e non deve minimamente significare una diminuzione del culto alla santissima Eucaristia, sì bene lo vuole praticamente riaffermare e rendere più accessibile ed osservato da tutto il Popolo fedele. A voi, Pastori della Chiesa di Dio, a voi Sacerdoti, ministri di tanto sacrificio e sacramento, a voi Religiosi e Religiose, che ne professate particolarmente la devozione, a voi Cattolici tutti, sempre invitati al misterioso e santissimo convito eucaristico, noi raccomandiamo vivissimamente di rinnovare l’impegno perenne di celebrare con inalterata, anzi con accresciuta convinzione questa bellissima festività, sommamente dovuta al Cristo, che con tale prodigalità di amore e di grazia viene a noi incontro, e per ciascuno di noi, come per tutta la comunità cattolica è veramente, ineffabilmente il Pane di vita per questo nostro cammino nel tempo verso l’eterno possesso di Dio.

Venerabili Fratelli e Figli carissimi!

Ascoltate! dunque anche quest’anno una breve parola per l’adorante intelligenza del «Corpus Domini». Il primo scopo di questa celebrazione è pedagogico, cioè educativo; quello di renderci attenti, coscienti, esultanti della realtà del mistero eucaristico. L’uomo è un essere che si abitua alle cose straordinarie e spesso ne riconduce l’impressione eccezionale d’un dato momento entro un’espressione convenzionale e superficiale ordinaria. L’uomo si abitua; ed anche a riguardo di realtà, che eccedono la sua consueta capacità di comprensione, egli le considera spesso normali e come contenute nell’involucro puramente verbale che le qualifica, senza più attribuire e riconoscere la esuberante ricchezza di significato interiore loro proprio. Così avviene sovente a noi per questo ineffabile sacramento dell’Eucaristia, che non offre alla nostra conoscenza sensibile se non le immagini apparenti, le specie, del pane e del vino, mentre celano in realtà, queste specie, la carne e il sangue, e loro stesse contengono sull’altare gli elementi d’un sacrificio, d’una vittima immolata, di Cristo crocifisso, Corpo unito al proprio sangue, alla sua anima e alla Divinità del Verbo. Sì, questo è il «mistero di fede», presente nell’Eucaristia (Cfr. CONC. TRIDENT. De Eucharistia, 3); e questo è il primo sforzo spirituale, al quale questo sacramento ci invita e ci obbliga, uno sforzo conoscitivo, non sorretto da un’esperienza sperimentale, che vada oltre le sembianze (anch’esse pur tanto eloquenti, ma significative d’altro concetto che non quello materiale e ordinario (Cfr. Io. 6, 63), ma uno sforzo di fede, di adesione cioè ad una Parola dominatrice delle cose create, una Parola, un Verbo divino, presente.

Per accedere al sacramento dell’Amore bisogna varcare la soglia della fede (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III, 73, 3 ad 3). Mistero della Fede! Entrati che noi siamo nella sfera della Fede, la quale ci invita a leggere nei segni sacramentali l’ineffabile Realtà ch’essi localizzano e raffigurano, Cristo sacrificato e fattosi alimento spirituale per noi, una timida-audace domanda affiora al nostro animo trasognato: perché? Perché, o Signore, hai voluto assumere codeste sembianze? perché vieni a noi così nascosto e così svelato? Tratteniamo un istante il respiro, e ascoltiamo. Sì, una parola di Gesù è pronunciata, per così dire, dal dono eucaristico che ci è messo davanti; la riascoltiamo dal Vangelo; Gesù dice ancora e sempre: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e Io vi ristorerò» (Matth. 11, 28). Dunque Gesù è in un atteggiamento di invito, di conoscenza e di compassione per noi, anzi di offerta, di promessa, di amicizia, di bontà, di rimedio ai nostri mali, di confortatore, e ancor più di alimento, di pane, di sorgente di energia e di vita. «Io sono il pane della vita» (Io. 6, 48), soggiunge nel suo eloquente silenzio il Signore, Gesù pane! Gesù alimento? ma dove vuole arrivare il Signore? Non è già troppo ch’Egli sia venuto nel mondo per noi? anzi, che Egli si sia reso così accessibile da moltiplicare la sua sacramentale presenza per ogni altare, per ogni mensa, dove un’altra sua presenza rappresentativa e operativa, quella d’un Sacerdote, renda possibile la moltiplicazione indefinita di questo prodigio? (Cfr. DE LA TAILLE, Mysterium Fidei, Eluc. 36 ss.)

Gli aspetti di questa dottrina si dilatano e si moltiplicano a mano a mano ch’essa si fa oggetto di riflessione, fino a confondere la nostra mente, se l’intenzione sovrana del Signore non ci fosse palese dalla celebre parola dell’Apostolo Paolo, a cui questa basilica è dedicata, parola resa comunissima nel nostro consueto linguaggio religioso. E qual è questa divina e suprema intenzione, e quale parola per noi la esprime? La parola «comunione», in greco «koinonía», termine verbale questo che ricorre sempre su le nostre labbra, quando appunto voglia indicare l’assunzione di questo sacramento; «fare la comunione» significa accostarsi all’Eucaristia, ricevere Gesù nel sacramento che nella sua profonda realtà consiste nell’unità del Corpo mistico del Signore (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III, 73, 3). Noi parlando umanamente diamo piuttosto un senso nostro, soggettivo alla parola «comunione», quasi che questo atto fosse adeguatamente espresso dalla nostra azione di accostarci all’Eucaristia, mentre meno badiamo all’iniziativa di Cristo che rende a noi possibile di ricevere Lui, che a noi si offre istituendo e rinnovando questo mirabile sacramento con le parole benedette: «Prendete e mangiate; Questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi . . . Questo è il calice del mio sangue versato per voi . . .». Qui è svelata l’intenzione estrema di Cristo verso gli uomini chiamati alla sua religione, ch’è finalmente dichiarata, l’amore: «nessun amore maggiore di questo, il dare la propria vita per i propri amici, e voi siete i miei amici . . .» (Io. 15, 13 cfr. Prov. 8, 31. ss.).

Siamo noi degni, no, certo! -, siamo noi capaci d’entrare nel cuore di questa «esaltazione» religiosa? Quanti uomini non la sanno comprendere; e quanti, se pur ne intravedono il segreto, non la sanno accettare. Qui l’amore a Dio, il grande, il sommo precetto, diventa il grande il sommo dono di Dio. Noi siamo gli amati, prima che noi siamo disposti ad amare; Egli ci ha amati per primo (1 Io. 4, 10-19) e noi ci siamo, quante volte, sottratti al suo amore, noi creati da Lui, fatti per Lui, noi abbiamo ricusato d’incontrarci con Lui (cfr. parabola dell’invito al grande pranzo - Matth. 22, l-10; Luc. 14, 15-24 -), forse per il vile e segreto timore d’essere conquistati ad un Amore, che avrebbe mutato la nostra vita . . . L’Eucaristia è l’invito più diretto, più forte all’amicizia, alla sequela di Cristo. L’Eucaristia è per di più l’alimento che dà l’energia e la gioia per corrispondervi. L’Eucaristia pone così il problema della nostra vita sopra un gioco supremo d’amore, di scelta, di fedeltà, il quale gioco, se accettato da religioso si fa sociale, secondo le rivelatrici parole dell’Apostolo Paolo, che noi a noi stessi ripeteremo a conclusione e a ricordo di questa nostra celebrazione. L’Amore ricevuto da Cristo nell’Eucaristia è comunione con Lui e per ciò stesso si trasforma e si manifesta in comunione nostra con i fratelli, effettivi o possibili quali sono tutti gli uomini per noi. Nutriti del Corpo reale e sacramentale di Cristo, noi diventiamo sempre più intimamente il Corpo mistico di Cristo: «il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane, che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo : tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor. 10, 16 ss.).

Ripetiamo con S. Agostino: «O Sacramento di pietà! o segno d’unità! o vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha di che vivere» (S. AUGUSTINI Tr. 26, 19: PL 35, 1615). E così sia per noi, Fratelli e Figli carissimi!

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