IL VOLTO DI CRISTO NELLA SACRA SCRITTURA
"Vedere Gesù" nel Vangelo di Giovanni
I discorsi dell'addio, tramandati nel Vangelo di Giovanni, oscillano in maniera tutta singolare tra tempo ed eternità, tra l'incombere della passione di Gesù e una sua nuova presenza, essendo la passione già di per sé anche "esaltazione" del Figlio. Da una parte grava su questi discorsi l'oscurità del tradimento e della diserzione, del consegnarsi di Gesù all'estrema umiliazione della croce; dall'altra, tutto questo sembra già vinto e trasfigurato nella gloria a venire. Gesù indica la sua passione come un andarsene, preludio di un nuovo e più intenso ritorno, come un cammino di cui i discepoli già sono a conoscenza. E la domanda di Tommaso non si fa attendere: «Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?». La ri-sposta di Gesù è divenuta una proposizione centrale della cristologia: «Io sono la Via e la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me». Questa rivelazione del Signore suscita una nuova domanda - o piuttosto una richiesta - questa volta presentata da Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù risponde con una nuova rivelazione, che sotto altro aspetto introduce nella profondità della sua coscienza, nel cuore della fede cristologica della Chiesa: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,2-9). L'ancestrale aspirazione dell'uomo alla visione di Dio si era espressa nell'Antico Testamento come "ricerca del volto di Dio". Anche i discepoli di Gesù sono dei cercatori del volto di Dio: per questo hanno seguito il Maestro. E ora, nella sorprendente risposta data a Filippo ecco condensata, come in un cristallo, tutta la novità del Nuovo Testamento che irrompe attraverso Cristo: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Questa rivelazione, che qualifica il cristianesimo come religione della compiutezza, ovvero della presenza divina, dà adito immediato ad una nuova domanda, volta a comprendere che cosa significhi il "già-e-non-ancora" come struttura fondamentale dell'esistenza cristiana. Un interrogativo che sentiamo risuonare in tutto il cristianesimo post-apostolico: com'è possibile vedere Cristo e contemporaneamente vedere il Padre? Il Vangelo di Giovanni affronta la questione non nei discorsi del cenacolo, ma il giorno del festoso ingresso in Gerusalemme, allorché alcuni greci, venuti per la Pasqua, si presentano a Filippo, il discepolo che nel cenacolo chiederà di poter vedere il Padre.Filippo è originario di Betsaida di Galilea, una regione fortemente ellenizzata della Terra Santa, e il desiderio espresso dai greci suona: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,20s). E la richiesta del mondo pagano, ma è anche quella dei cristiani di tutti i tempi, e pure la nostra: Vogliamo vedere Gesù! Ma com'è possibile questo? Filippo la trasmette al Signore, facendosi accompagnare da Andrea; ma non sappiamo se l'incontro dei greci con Gesù sia realmente avvenuto. Abbiamo però la risposta di Gesù, misteriosa come quasi tutte le risposte che nel quarto Vangelo il Maestro riserva ai grandi interrogativi dell'umanità. Con le sue parole egli dischiude un orizzonte del tutto inatteso in questo momento; vede infatti, in tale richiesta, l'approssimarsi della sua glorificazione, che esprime con queste parole: «... se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24). La glorificazione avviene nella passione, e da essa deriva il frutto abbondante: cioè - possiamo noi completare - la Chiesa dei gentili, l'incontro di Cristo con i greci, rappresentanti di tutti i popoli della terra.
La risposta di Gesù, in questo modo, va oltre la situazione del momento per proiettarsi nel futuro: «Certamente i greci mi vedranno, e non solo questi venuti da Filippo, ma tutto il mondo dei greci. Mi vedranno non nella mia esistenza terrena e storica, "secondo la carne" (cfr. 2Cor 5,16), ma attraverso la mia passione. Attraverso di essa io vengo, e non più soltanto in un limitato spazio fisico ma oltre tutti i confini geografici, nella vastità del mondo che desidera vedere il Padre». Gesù annuncia la sua venuta con la risurrezione, nella potenza dello Spirito Santo, e quindi un nuovo modo di "vedere" nella fede. Perciò la passione non è accantonata come qualcosa di obsoleto, ma rimane il luogo dal quale e nel quale soltanto egli può essere visto. Gesù estende la parabola del chicco di grano, che soltanto morendo diventa fecondo, a norma basilare di un'esistenza umana autentica, di un'esistenza nella fede: «Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo» (Gv 12,25s). Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos'è accaduto? L'idea del "vedere" ha assunto una dinamica insospettata. Si vede mediante un modo di vita definito "sequela". Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. E lì che, in lui, si vede anche il Padre. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia riportata da Giovanni a conclusione del racconto della passione: «Guarderanno a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; cfr. Zc 12,10)2. Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell'intera esistenza. Sotto l'aspetto terminologico occorre precisare che l'espressione "volto di Cristo" non compare nei testi giovannei, che tuttavia appaiono intimamente legati ad una tematica centrale dell'Antico Testamento, il cui contenuto religioso si esprime in tutta una serie di testi come "ricerca del volto di Dio". Esiste pertanto una stretta continuità tra il giovanneo "guardare a Cristo" e il tendere veterotestamentario alla visione del volto di Dio. Paolo dà risalto anche al legame terminologico quando, nella seconda lettera ai Corinzi, parla della gloria di Dio che risplende sul volto di Cristo (4,6). Su questo torneremo più avanti. I passi neotestamentari (Giovanni e Paolo) sul vedere Dio in Cristo sono profondamente ispirati dalla pietà d'Israele e mediante essa si collegano alla storia universale delle religioni; o meglio: essi orientano verso Cristo l'indistinta aspirazione della religiosità umana, portandola a incontrare la risposta. Se vogliamo comprendere, in tutta la sua profondità, la teologia neo-testamentaria del volto di Cristo, dobbiamo richiamarci all'Antico Testamento.
La ricerca del volto di Dio nell'AT
Il termine panîm ("volto") ricorre circa 400 volte nell'Antico Testamento; quasi la metà dei passi riguarda una persona umana o qualche misterioso essere intermedio come cherubini e serafini; a Dio stesso si riferisce oltre un quarto dei passi, quindi un buon centinaio'. Questa frequenza del termine in tutta la letteratura veterotestamentaria ci suggerisce l'importanza del concetto di cui esso è tramite. Dovremo anche chiarire alcune espressioni caratteristiche, quali "cercare il volto di Dio", "splendore del volto di Dio", ecc. Come va interpretata questa nostalgia della visione in una religione che, proibendo del tutto le immagini, sembra escludere assolutamente il "vedere" dal culto e dalla pietà? A che cosa mira l'israelita quando cerca il volto di Dio, pur sapendo che non può esistere alcuna immagi-ne di lui? Si è cercato di far risalire tutto questo complesso lessicale, nelle sue svariate forme, ai culti pagani: la "visione del volto" richiamerebbe la contemplazione di un'immagine; la "luce del volto" fa pensare a divinità astrali, e così via. Si tratta di ipotesi indimostrabili, che nell'insieme hanno trovato scarso credito presso gli studiosi. Si può comunque aderire al presupposto che la terminologia della ricerca del volto di Dio provenga in qualche modo dal culto delle immagini. Ciò aiuta a comprendere meglio la radicalità del passo compiuto dall'Antico Testamento: l'immagine è abbandonata, mentre la ricerca del volto rimane. Viene meno la forma concretizzata, la riduzione della divinità ad oggetto, ma Dio conserva il suo volto. Proprio perché non riproducibile in immagini, egli rimane Colui che ha un volto, che può vedere e può essere veduto. L'antica forma cultuale, che aveva materializzato Dio riducendolo ad un "particolare", è stata dissolta, lasciando così emergere il suo significato più profondo: questo Dio ha un volto, è una "persona". Simian-Yofre nel suo art. cit. «Pànim», assai dettagliato sotto il profilo filologico, ha così riassunto la questione: «Per la sua idoneità a esprimere sentimenti e reazioni, pànîm designa il soggetto in quanto si rivolge ad altri... cioè quale soggetto di relazioni. Pànîm è un concetto che esprime relazioni». Possiamo dire che, nel venir meno del culto delle immagini, proprio col vocabolo pànîm ha preso forma il concetto di persona, e precisamente come dimensione relazionale. Accanto a pànîm occorre menzionare, quale ulteriore forma della medesima intuizione, il termine sem ("nome"): il Dio dell'Antico Testamento rivela il suo nome, col quale può essere invocato. Anche il nome è un concetto relazionale: chi ha un nome può ascoltare e rivolgere a sua volta la parola ad altri; attraverso il suo nome può essere invocato. La filosofia greca ha identificato l'idea di natura, ma non ha conosciuto il concetto e la natura della persona. Per essa la persona non esiste; c'è soltanto l'individuo, ma come una delle molteplici espressioni della natura, l'unica realtà che conta. Quella peculiarità che noi definiamo persona è invece venuta alla luce nel quadro della fede biblica, quando dal rifiuto dell'immagine emerse ciò che vi è di più autentico: quell'essenza che può vedere ed essere vista, che può ascoltare, parlare ed essere interpellata. Fu dunque secondo logica che pànîm venisse reso prevalentemente col greco prósópon ("volto/faccia"), una parola assente dalla filosofia greca come termine tecnico. E giustamente prósopon divenne in latino persona, una parola che poco alla volta vide riconosciuto il suo pieno significato anche in ambito filosofico. Inoltre, non fu un caso se l'approfondimento della nuova nozione, l'evidenziarsi del mistero della persona, avvenne proprio nella disputa sulla dottrina della Trinità. Si può ritenere questo: il termine ebraico pànîm esprime Dio come persona, come un essere che si rivolge a noi e ci ascolta, vede, parla, è capace di amare e di adirarsi; un Dio che è al di sopra d'ogni cosa e tuttavia ha davvero un volto. Esattamente in questo l'uomo è simile a Dio, è sua immagine; dal volto egli può riconoscere chi è Dio, che cos'è e com'è. Verso questo volto si orienta, lo cerca con tutto il suo cuore. Mi sembra importante che a entrambi i concetti - "nome" e "volto" -, da un lato sia soggiacente una profonda intuizione spirituale, divenuta possibile soltanto col rifiuto dell'immagine esteriore; e dall'altro che non si alimenti una nozione puramente concettuale: il guardare sensibile e l'idea del volto restano essenziali. Cerchiamo ora, attraverso un paio d'esempi, di cogliere più da vicino come concretamente, nella fede e nella pietà d'Israele, si presenti la relazione evocata dal termine papam. Risalta in primo luogo l'atteggiamento fondamentale della ricerca del volto di Dio. Recita il salmo 105,3s: «Gioisca il cuore di chi cerca.il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto». Il salmo 24 enumera le condizioni richieste per chi desidera entrare nella santa dimora del Signore: mani pure e cuore puro. Tutto è poi condensato nelle parole: «Questa è la generazione di coloro che lo cercano, di quanti desiderano il tuo volto, o Dio di Giacobbe» (Sal 24,6). Ambedue i salmi si richiamano all'ingresso nel santuario, al corteo che introduce l'arca santa nel tempio. Non si può dun-que negare un contesto cultuale: il volto di Dio lo si può incontrare nel tempio, lo si cerca ponendosi in cammino verso il luogo santo. Tuttavia il significato di panîm va oltre il puro dato del culto. Ciò è evidente in Os 5,15, dove Dio, riferendosi a Israele, dice: «Me ne tornerò alla mia dimora, finché non si saranno pentiti e cercheranno il mio volto, e si volgeranno di nuovo a me nella loro angoscia». Questo "cercare" e "volgersi" deve abbracciare tutto l'uomo; soltanto quando egli è "giusto" con tutto il suo cuore, essendo secondo Dio, può sperare nell'incontro con il volto del Signore. Giustamente scrive Simian-Yofre: «Cercare il volto del Signore è un comando di valore universale e permanente». Ciò risulta con chiarezza dal salmo 17: la preghiera del giusto che non si lascia distogliere dalla via di Dio, anche se deve subire le aspre minacce dei suoi persecutori. Nell'insieme si delineano due forme d'esistenza. Da una parte, coloro che si affidano totalmente alle realtà materiali e se ne saziano. Senza provare invidia, il giusto sofferente dice al Signore: «Ricolma pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per la loro prole». L'orante, invece, vede il proprio destino diversamente: «Nella giustizia io contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza». Egli vuole un appagamento che non è quello del ventre; desidera saziarsi alla vista del suo Dio; sa che la sua ricerca troverà compimento nella visione. Due aspetti sono importanti in quest'ultimo testo. Innanzitutto, ciò che conferisce all' orante la capacità di vedere Dio è la giustizia. Una parola che compendia l'atteggiamento basilare della pietà veterotestamentaria, ed è l'esatto corrispondente di ciò che il Nuovo Testamento e la Chiesa chiameranno fede. La giustizia è un modo di vita conformato sulla parola di Dio, è un dimorare in questa parola mettendola in pratica. Possiamo dire: giustizia è vita secondo Dio. Il salmo 17 è in consonanza col salmo 24: la ricerca del volto di Dio è un atteggiamento che coinvolge tutta la vita; per poter alla fine contemplare il volto di Dio, l'uomo dev'essere da Dio totalmente illuminato. Va inoltre osservato che il giusto si attende il dono della visione -della beatitudine che darà compimento a tutti i suoi desideri -per il momento del "risveglio". Il salmo, in questo modo, si proietta chiaramente oltre l'esistenza storica dell'uomo; è l'attesa di un risveglio che segnerà l'inizio della vera vita. Proprio per questo il giusto si distingue dai suoi avversari senza Dio, i quali ripongono tutta la loro felicità, e quindi il fine dell'esi-stenza umana, unicamente nella soddisfazione del momento, nel successo e nella sazietà materiale. Essi restano nell'ambito del mondano, imbrigliati nei limiti temporali della vita terrena. Di conseguenza, non può valere per loro il criterio della "giustizia"; si deve allungare la mano là dove sono disponibili successo e soddisfazioni. La giustizia, come "vita secondo Dio", rinvia oltre la nuda materialità e temporalità dell'esistenza terrena. In questa luce, l'osservanza dei precetti di Dio e la prospettiva escatologica appaiono intimamente connesse. Anche se l'idea della vita nuova è qui semplicemente accennata, senza ulteriore sviluppo, l'orientamento escatologico dell'esistenza è di fatto ben evidente per chi cerca il volto di Dio con tutta la sua vita, nella certezza di poterlo contemplare "al risveglio". La ricerca del volto di Dio comporta il superamento del tempo e la speranza escatologica. L'Antico Testamento offre tuttavia anche un anticipo di "ciò che sarà". Nel salmo 24 abbiamo osservato la connessione tra la ricerca del volto di Dio e il culto, rilevando peraltro la necessità di andare oltre il culto. Nel salmo 17 l'elemento cultuale è del tutto assente, ma nella maggioranza dei testi veterotestamentari l'espressione "cercare il volto di Dio" ha un significato cultuale, anzi è addirittura un termine tecnico dell'incontro con Dio nel culto. I tre calendari liturgici (Es 23,14-19; 34,18-26; Dt 16,1-17) menzionano due volte ciascuno l'espressione. Con formulazione quasi identica si stabilisce l'obbligo per gli uomini, tre volte l'anno, di visitare il santuario ("contemplare il volto di JHwH"). «Dt 31,11 prevede, ogni sette anni, la proclamazione della legge davanti a tutto il popolo convenuto per la festa delle capanne nel santuario (di Gerusalemme) a "contemplare il volto di JHwH"». Così, l'evento cultuale diviene un incontro con Dio, una forma di contemplazione del divino; ma alla luce dell'insieme dei testi si rivela più che altro come una sorta di anticipazione, che rinvia oltre se stessa.
Quest'orizzonte complessivo si ripropone quando consideriamo le espressioni riferite alla luce del volto di Dio o all'occultarsi della sua faccia. Luce e vita sono, per l'uomo dell'Antico Testamento, concetti intimamente connessi. Quando si parla dello splendore del volto divino, s'indica Dio come fonte della vita. Sal 4,7b supplica: «Risplenda su di noi, o Signore, la luce del tuo volto», e questo per ottenere vita e salvezza. Altrove la richiesta ha come oggetto la fecondità della terra, la liberazione e la prosperità del popolo: "Rialzaci, Signore nostro Dio, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi"» (Sal 80,4.8.20). Entra in tema anche l'illuminazione del cuore, affinché l'uomo possa riconoscere i suoi peccati (Sal 90,8). Viceversa, quando Dio nasconde la sua faccia, tutto fa ritorno alla polvere. Per questo, la preghiera affinché Dio non nasconda il suo volto è supplica per la vita stessa, per la capacità di vedere, senza di che nulla può esserci di buono. Il silenzio di Dio, l'occultamento della sua faccia significano punizione. Purtroppo, il nascondersi di Dio può suscitare nel peccatore una sicurezza ingannevole, quasi che Dio non esista. Sembra possibile vivere tranquillamente senza di lui, contro di lui, voltandogli le spalle. Questa sicurezza dell'uomo senza Dio è davvero la sua più profonda rovina. Proprio in questo nostro tem-po del silenzio di Dio, quando il suo volto sembra divenuto ir-riconoscibile, non dovremmo riflettere con un po' di timore sul significato del suo nascondimento? Non dovremmo vedere in ciò la vera sciagura del mondo, e quindi con maggior forza e insistenza gridare a Dio affinché mostri il suo volto? Non si è fatta ancora più urgente, in tale situazione, la ricerca del volto di Dio?
Mosè e Cristo
A completamento di questi accenni sui presupposti veterotestamentari della ricerca del volto di Cristo e di Dio come ce la propone il NT, desidero ancora prendere in esame un testo basilare dell'AT, che lo stesso Paolo - come già è stato accennato - ha ripreso in 2Cor 3,4 - 4,6 leggendolo alla luce di Cristo. Diventa così ancor più palese tutta la novità del cristianesimo, come l'intima unità dei due Testamenti. Intendo il complesso di Es 32-34, dove si racconta il peccato d'Israele, l'adorazione del vitello d'oro, la punizione dei peccatori e infine la contesa di Mosè con Dio, per indurlo ad accogliere di nuovo il suo popolo, dal quale minacciad'allontanarsi. L'intercessione di Mosè raggiunge il suo culmine nell'offerta che fa di se stesso: «Ecco, questo popolo ha com-messo un grande peccato... Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (32,31s). Nel cap. 33 dell'Esodo il nostro tema compare in due passi che sembrano quasi contraddirsi, ma che si sono rivelati di somma importanza per la ricerca cristiana del volto di Dio. Dapprima si descrive il confidenziale rapporto tra Mosè e Dio: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino» (33,11). In seguito Mosè chiede a Dio: «Fammi vedere la tua gloria!». Questa è la risposta: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. [...] Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sulla rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e tu vedrai le mie spalle. Ma il mio volto non si può vedere» (33,18.20-23). Da una parte, dunque, c'è il colloquiare faccia a faccia come tra amici, dall'altra l'impossibilità di vedere in questa vita il volto di Dio: l'uomo può conoscerlo soltanto di spalle. Ovvia-mente, nella rilettura cristiana dell'Antico Testamento, questo passo doveva assumere un nuovo significato. Dalle parole di Stefano davanti al sinedrio (At 7,37) deduciamo che la promessa contenuta nel Deuteronomio restava ben presente ai cristiani: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Ma in seguito Israele dovette prendere atto della malinconica considerazione con cui si chiude il Deuteronomio: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, col quale il Signore s'intratteneva faccia a faccia» (34,10). Stefano vuol di-re che la promessa, fino allora rimasta aperta, si è finalmente avverata in Gesù di Nazaret, il quale, come Mosè sul monte, ha offerto se stesso quale vittima d'espiazione. L'offerta di Mosè non era stata accolta; Cristo invece è divenuto realmente per noi peccato, ha preso su di sé la maledizione (Gal 3,13) e ora è nostro intercessore presso il Padre (1 Gv 2,1). Egli stava ininterrottamente faccia a faccia con il Padre - assai più che un profeta, assai più che un amico, ma come Figlio -, e sul suo volto rifulge per noi la gloria di Dio (2Cor 4,6). Da allora, per gli uomini, la ricerca del volto di Dio si è fatta più concreta: consiste nell'incontro con Cristo, nell'amicizia con lui, che non ci chiama più servi, ma amici (Gv 15,10). Se il conversare di Mosè faccia a faccia con Dio era per il lettore cristiano dell'Esodo un evidente richiamo a Cristo, l'impossibilità della visione piena, limitata alle "spalle di Dio", non poteva però riguardare allo stesso modo Gesù. Nella figura di Mosè era quindi significato sia il mistero di Cristo, sia il cammino dei suoi discepoli, ai quali - perciò a tutti noi, seguaci di Cristo - andava riferito il secondo testo. E questa, fondamentalmente, l'interpretazione di Es 33 presso i Padri; varia tuttavia nei particolari, in specie per il difficile riferimento alla visione delle "spalle di Dio", allo stare nella fenditura della roccia, alle mani di Dio che ci ricoprono. Personalmente, sono sempre attratto dall'interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa. Che cosa significa poter vedere Dio soltanto di spalle - scrive il Nisseno - se non che ci è possibile incontrare Dio esclusivamente camminando dietro a Gesù; perciò solamente attraverso la sequela, che è un procedere sulle orme di Gesù, quindi alle spalle di Dio?. Vedere Dio, in questo mondo, significa fare di tutta la nostra esistenza un cammino verso il Dio vivente, nella sequela di Gesù Cristo, il quale ci addita la sua strada, che è l'itinerario del mistero pasquale di passione e morte, di risurrezione e ascensione.
Contemplare Cristo nell'esistenza cristiana
La testimonianza centrale dell'AT sulla visione del volto di Dio ci ha introdotti al NT. In che cosa consiste la vera novità nel Nuovo Testamento? Non si tratta certo di un'idea. La novità è un fatto, o meglio una persona: Gesù Cristo. Nella sua luce numerosi aspetti della religiosità veterotestamentaria si riorganizzano e assumono, soprattutto dopo la distruzione del tempio, una nuova concretezza. Adesso è lui il volto di Dio per noi. Sulla base di questa coscienza ha preso vita la grande arte delle icone, che tuttavia non possono pretendere di rappresentare la meta finale della nostra ricerca del volto di Cristo. Questo vale naturalmente anche per le cosiddette achiropite, ovvero immagini "non fatte da mano d'uomo" che secondo la tradizione avrebbero ispirato le icone di Cristo. Nella disputa tra culto delle immagini e iconoclastia era questo il punto discriminante: l'icona non può diventare un'immagine di Dio a sé stante, quasi a voler rendere la divinità materialmente afferrabile. Deve invece esprimere il dinamismo del superamento, cioè rinviare oltre se stessa, farsi invito a intraprendere la ricerca del volto del Signore: un richiamo a oltrepassare la dimensione materiale e a mantenersi sull'itinerario della sequela, che non potrà mai concludersi in questa vita. Per esprimerci ad un livello teologicamente più rigoroso: l'icona reca in sé una tensione escatologica, e soltanto in questa prospettiva è possibile contemplarla correttamente. Nel secolo XIX da questi impulsi rinasce, collegandosi a forme di pietà tardomedievale, la devozione al Sacro Volto, che giunge ad espressione somma con Teresa di Lisieux, la quale non esita a definirsi "del Bambino Gesù e del Volto Santo". Entrambi questi titoli fanno riferimento alla kénosis di Dio, al suo farsi piccolo in Cristo, al suo discendere nella povertà dell' esistenza umana. E mentre il primo sottolinea preferibilmente l'amabilità di questa discesa, il secondo mette l'accento sull'aspetto della passione, poiché in questo mondo Cristo si presenta col "capo coperto di sangue e ferite" (O caput cruentatum!). In tal modo egli rivela tutto il mistero dell'amore di Dio e il suo vero volto. Volendo approfondire ulteriormente, possiamo distinguere tre momenti basilari nella pietà cristiana - fondata sul Nuovo Testamento - della ricerca del volto di Cristo e del volto di Dio. In primo luogo la sequela, ovvero l'intera esistenza orientata all'incontro con Gesù. In essa il posto centrale spetta all'amore del prossimo; quell'amore che alla luce del crocifisso ci fa riconoscere il volto di Gesù in chi è povero, debole e sofferente. Mettendoci al servizio dei bisognosi, è lui che amiamo, a lui ci accostiamo, lo vediamo e lo tocchiamo (cfr. Mt 25,31-46). Nella realtà, ci è possibile riconoscere Gesù nei poveri soltanto se il suo vero volto già ci è divenuto familiare e prossimo, e questo soprattutto nel mistero dell'Eucaristia, dove continuamente si ripropone per noi la contesa di Mosè sul monte: ora sul monte c'è il Signore Gesù, che per noi "si fa peccato". Egli è il chicco di grano che muore, per potersi donare a tutti noi nell'Eucaristia, vero pane di vita nelle nostre mani. L'Eucaristia, come già per i discepoli di Emmaus, diventa un "vedere": lo riconosciamo allo spezzare del pane, ci cadono dagli occhi le scaglie, guardiamo a colui che abbiamo trafitto, contempliamo il suo capo insanguinato. Così, imparando a conoscere lui, possiamo riconoscerlo nei poveri. In questo senso, appartengono alla pietà liturgica la personale devozione alla passione, l'incontro intimo con Gesù e la stessa pietà popolare. La vera icona nasce da quest'incontro con Gesù e conduce a lui, e di conseguenza, irresistibilmente, anche al prossimo.
Oltre a questi due momenti, tra loro inseparabili, della contemplazione del volto di Cristo, ne riconosciamo un terzo: quello escatologico. Come l'icona è destinata a rinviare sempre oltre se stessa, così la celebrazione eucaristica esprime una ten-sione dinamica verso il Cristo che viene, verso quel "risveglio" in cui egli ci sazierà con il suo volto, con il volto del Dio trinitario. La stessa attenzione al prossimo, le varie forme dell'impegno sociale, devono mirare oltre il momento presente. L'amore, certamente, interviene dove adesso è necessario, soccorre i sofferenti e i bisognosi al presente. La teologia politica voleva posporre quest'aiuto, da offrire subito, al compito primario della costruzione di un mondo migliore. Ma si trattava, e si tratta, d'un intento presuntuoso, col quale si riducono gli individui a strumenti di sogni politici futuri, destinati per lo più a rimanere irrealizzabili. Nemmeno qui, però, manca il solito "granello di verità": in effetti, l'offerta d'aiuto al singolo fa parte della grande lotta dell'amore, della lotta della fede per il compimento del regno di Dio. Il Regno non è una realtà politica realizzabile dall'uomo, ma è dono di Dio, che a noi non è concesso di forzare. E tuttavia sta in rapporto col nostro impegno di sequela nel servizio, poiché l'amore che attraverso l'aiuto materiale non offrisse anche Dio, che non conducesse anche a Dio, che non orientasse al suo volto, darebbe sempre troppo poco. Amore del prossimo e culto sono anticipazioni di ciò che in questo mondo sopravvive come speranza; sono energie della speranza che conducono a ciò che di più grande sta per venire, cioè alla vera salvezza e al vero compimento: la contemplazione del volto di Dio.
Le religioni mondiali e la fede
A conclusione della nostra riflessione vogliamo tornare sul problema della connessione di questa tematica con la storia delle religioni nel suo insieme. Avevamo osservato come l'abolizione delle immagini cultuali - che peraltro avevano mantenuto viva la ricerca del volto di Dio - conducesse al riconoscimento di un Dio personale, e in seguito al concetto di per-sona. E a questo punto che si dividono le vie della storia religiosa. Le grandi costruzioni religiose che non conoscono un Dio personale (ad es. il neoplatonismo e il buddismo, o importanti correnti dell'induismo) enumerano comunque numerose divinità alle quali vengono rivolte preghiere, essendo in grado di aiutare o di nuocere. Queste sono raffigurabili con immagini, hanno un volto, in qualche modo sono anche persone. Sono "dèi", ma non sono Dio. Rappresentano delle potenze operanti in quello spazio intermedio, oltre il quale molti non riescono ad andare. Non appartengono al regno del "definitivo", del "totalmente altro", del vero "autentico". La realtà autentica - che Plotino chiama l'Uno, al di sopra d' ogni essere e d' ogni nome, e che nella concezione buddistica è il Nulla assoluto - non ha nome e non ha volto. Il fine ultimo di ogni purificazione e di ogni forma di salvezza sta nell'uscire dalla cerchia dei nomi e dei volti, delle distinzioni e delle contrapposizioni, per entrare nell'anonimato dell'Uno o del Nulla. La novità della religione biblica era e consiste nel fatto che quest'essere originario, il Dio vero di cui non può darsi alcuna immagine, ha nondimeno un volto e un nome, è persona. La salvezza non sta più nel cadere nell'anonimato, ma in quel "saziarsi del suo volto", che al nostro "risveglio" ci verrà concesso. A questo risveglio, a questo saziarsi il cristiano va incontro, tenendo fisso lo sguardo sul Trafitto, cercando il volto di Gesù Cristo.
Le religioni mondiali e la fede
A conclusione della nostra riflessione vogliamo tornare sul problema della connessione di questa tematica con la storia delle religioni nel suo insieme. Avevamo osservato come l'abolizione delle immagini cultuali - che peraltro avevano mantenuto viva la ricerca del volto di Dio - conducesse al riconoscimento di un Dio personale, e in seguito al concetto di per-sona. E a questo punto che si dividono le vie della storia religiosa. Le grandi costruzioni religiose che non conoscono un Dio personale (ad es. il neoplatonismo e il buddismo, o importanti correnti dell'induismo) enumerano comunque numerose divinità alle quali vengono rivolte preghiere, essendo in grado di aiutare o di nuocere. Queste sono raffigurabili con immagini, hanno un volto, in qualche modo sono anche persone. Sono "dèi", ma non sono Dio. Rappresentano delle potenze operanti in quello spazio intermedio, oltre il quale molti non riescono ad andare. Non appartengono al regno del "definitivo", del "totalmente altro", del vero "autentico". La realtà autentica - che Plotino chiama l'Uno, al di sopra d' ogni essere e d' ogni nome, e che nella concezione buddistica è il Nulla assoluto - non ha nome e non ha volto. Il fine ultimo di ogni purificazione e di ogni forma di salvezza sta nell'uscire dalla cerchia dei nomi e dei volti, delle distinzioni e delle contrapposizioni, per entrare nell'anonimato dell'Uno o del Nulla. La novità della religione biblica era e consiste nel fatto che quest'essere originario, il Dio vero di cui non può darsi alcuna immagine, ha nondimeno un volto e un nome, è persona. La salvezza non sta più nel cadere nell'anonimato, ma in quel "saziarsi del suo volto", che al nostro "risveglio" ci verrà concesso. A questo risveglio, a questo saziarsi il cristiano va incontro, tenendo fisso lo sguardo sul Trafitto, cercando il volto di Gesù Cristo.
In J. Ratzinger, In cammino verso Gesù, Milano 2004
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