Vale davvero la pena, nelle solennità, fermarsi un po' sul loro senso e riflettere così sul significato della propria esistenza, sulle sue irrequietezze, speranze ed angosce, o si tratta unicamente di un'abitudine borghese, del desiderio di un po' di fronzoli, di una devota trasfigurazione della vita, rifacendosi a tempi passati che si dovrebbero definitivamente abbandonare? Senza dubbio, per molti la pentecoste non è altro che il nome di un lungo fine settimana. Dal meccanismo dei giorni feriali si passa a quello del tempo libero, che può essere pericoloso per la vita, non meno febbrile ed eccitante di quello di tutti i giorni, ma offre il vantaggio del divertimento l'illusione forse della libertà, forse addirittura veri momenti di elevazione e di contentezza. Ora, sarebbe stolto guardare ironicamente al fine settimana ed alla libertà: ognuno di noi è contento dello spazio di libertà, che qui si presenta, sebbene siano molto divergenti i punti di vista sul come sfruttare nel modo migliore questo tempo. É ovvio che chi vive coscientemente non potrà accontentarsi di passare passivamente dal lavoro al tempo libero e dal tempo libero al lavoro; egli dovrà, di quando in quando, fermarsi e chiedere in che direzione si muovono la sua vita, dove sono dirette tutte le cose, gli uomini ed il mondo. Egli dovrà assumersi un po' di responsabilità per questo movimento e per la sua direzione e non potrà limitarsi a partecipare semplicemente all'offerta consumistica, che costantemente si diffonde, senza chiedersi da dove essa viene e dove va. Così, per chi vive coscientemente, il riflettere sul significato della festa non sarà certo così deplorevolmente fuori moda ed inutile come parrebbe sembrare in un primo momento. Quando sul calendario vediamo segnata la pentecoste, potremmo anzitutto ricordarci che questa festa ha in qualche modo a che fare con ciò che noi chiamiamo «spirito». Anche colui, per il quale l'aderire alla fede cristiana è divenuto difficile, sarà così sollecitato ad una qualche riflessione. Che cosa vuol dire propriamente questa parola «spirito»? Oggi incontriamo uno spirito soprattutto nel senso di calcolo, di sapere immagazzinato, che si può ottenere dai computers ed usarne, nel senso di una progettazione che ci fa parti di un gigantesco apparato, che nessuno più controlla. È un meccanismo che avanza e trasforma l'uomo stesso, come il suo futuro, in un fattore sempre più calcolabile di un ampio tutto. Quando udiamo questo e vediamo perciò venire verso di noi le prospettive del futuro, di un mondo matematizzato, nel quale saranno affogati gli ultimi resti del romanticismo, in tutte le speranze ed in tutte le attese avvertiamo allora qualcosa di sospetto. Sebbene non possiamo disconoscere le utilità, le comodità, le promesse, gli aspetti sublimi e liberanti che ci sono giunti dalla razionalizzazione del mondo, ci riesce spontaneo comprendere voci come quella di Jean Rostand: «Provo tanta paura di fronte alla scienza della natura, perché credo soltanto in essa» o di Henri Bergson che, alla vista dell'imménso sviluppo tecnico del nostro secolo, pensava che l'umanità avesse «un corpo troppo grande per la sua anima». Sorge allora il problema: la realtà «spirito» si esaurisce veramente in ciò che abbiamo poc'anzi descritto o va oltre? Esiste uno spirito solo nella forma «positiva», del computer o anche nel senso di ciò che Bergson definisce anima? Si può forse dire, addirittura, che ci veniamo a trovare dinanzi alla peculiarità di ciò che si definisce ed è spirito, dinanzi al fatto determinante e salvante, quando si giunge allo spirito immagazzinabile in computers? A questo punto, viene toccata la soglia della decisione, alla quale ci vuol invitare la pentecoste: anzitutto, una decisione si esige per passare dal fine settimana alla festa, dal semplice servirsi della macchina consumistica ad una attenta riflessione in tal senso. Ed una decisione si esige anche per superare lo spirito constatabile di una scienza della pianificazione, per giungere a qualcosa di più grande, che sicuramente è anche più nascosto. Pierre Henri Simon suggerisce che sarebbe meglio chiamare intelletto, e non spirito, tutto ciò che abbiamo sin qui descritto: lo intelletto è allora la somma delle forze recettive, logiche e pragmatiche della coscienza. Lo spirituale, nel senso vero del termine, rivela invece l'ordine dei valori al di là dei fatti, la libertà al di là delle leggi, un'esistenza che pone la giustizia al di sopra dell'interesse. Uno spirito così inteso non può più esser calcolato ed immagazzinato. Es-so ammette l'imprevedibile: è un atteggiamento «che realizza la felicità dell'ego, spezzando l'egoismo», e può essere raggiunto solo nella decisione del cuore, di tutto l'uomo. Una volta giunti però a questa soglia, non si è ancora colto il messaggio cristiano della pentecoste. Infatti, una tale decisione dello spirito contro il puro positivo può essere pronunciata anche da non cristiani ed è, di fatto, diffusa fra l'umanità. Tuttavia, abbiamo forse toccato qui il punto in cui può sorgere per l'uomo d'oggi ciò che la fede cristiana dice dello spirito creatore, che rinnova la terra. Agli occhi della maggior parte dei contemporanei, sovente persino di coloro che vogliono credere cristianamente, il messaggio pentecostale della Bibbia e di coloro che lo predicano appare come un ebbro barbugliare, come l'incomprensibile balbettio di visionari che non si sono ancora accorti che siamo entrati nella viva luce dell'era moderna, dove non c'è più posto per cose del genere. È difficile capire che, in definitiva, la realtà pentecostale si incontra nel confronto tra «positivo» e «spirituale», tra uomini che servono soltanto agli apparecchi ed uomini che, malgrado tutto, credono alla contemplazione ed all'amore, alla verità ed alla stabilità dei valori. In fondo, ci troviamo oggi dinanzi al problema di sapere se l'umanità possa esser salvata dal perfezionamento degli «apparecchi», o se abbia ancora valore l'affermazione di Pascal «che tutti i corpi e tutti gli spiriti e tutto ciò che questi possono generare non valgono tanto quanto il più piccolo impulso d'amore...» . Ma chiediamoci finalmente: qual è il vero e proprio significato cristiano della pentecoste? Che cosa si intende per lo «Spirito Santo» di cui parla quel messaggio? Gli Atti degli apostoli ce lo spiegano con un'immagine; e non ci si potrebbe forse esprimere diversamente, perché la realtà di questo Spirito si sottrae completamente alla nostra comprensione. Gli Atti raccontano che gli apostoli furono toccati da lingue di fuoco ed incominciarono, quindi, a parlare in un modo che agli uni (ai «positivi») apparve come ubriachezza, come chiacchiere insensate ed inutili, mentre gli altri, persone provenienti da tutto il mondo allora conosciuto, li udirono ciascuno parlare nella propria lingua. Lo sfondo di questo testo è costituito dalla descrizione veterotestamentaria della costruzione della torre di Babele; con l'aiuto di quel passo, gli Atti degli apostoli delineano un quadro di grande efficacia. Il racconto veterotestamentario riferisce che gli uomini, nell'arbitrarietà del loro progresso, cercarono di innalzare una torre che raggiungesse il cielo; ciò vuole dire che essi credettero, con le loro costruzioni e le loro pianificazioni, di gettare i ponti fino al cielo, di rendere accessibile il cielo con le sole loro forze, di poter trasfor-mare l'uomo in divinità. Il risultato fu la confusione delle lingue. L'umanità che cerca solamente se stessa, che cerca di ottenere la sua salvezza nella soddisfazione dell'insorgente egoismo di ognuno, cade in una radicale contrapposizione, dove nessuno più capisce il vicino. E, con la fine della comprensione, rimane insoddisfatto anche l'egoismo. Il racconto della pentecoste, che troviamo nel Nuovo Testamento, riprende questo pensiero; anche qui si è del parere che la condizione presente dell'umanità è la disunione, l'essere l'uno accanto all'altro e l'uno contro l'altro. Questo è dovuto alla divinizzazione di se stessi, per cui tutto cade in una falsa prospettiva, di modo che alla fine l'uomo non capisce più né Dio, né il mondo, né l'altro, né se stesso. Lo «Spirito Santo» crea comprensione, perché è l'amore che proviene dalla croce, dall'autorinuncia di Gesù Cristo. Non è necessario tentare qui di ripensare dettagliatamente i nessi dogmatici, che si presentano a questo proposito. Per il nostro contesto può essere sufficiente ricordare l'espressione con cui Agostino provò a riassumere il nucleo del racconto pentecostale: La storia del mondo -egli dice - è una lotta tra due diversi amori : amore di sé fino all'odio di Dio ed amore di Dio fino all'abbandono dell'io. Ma il secondo è la redenzione del mondo e dell'io. Io ritengo che sarebbe già molto se i giorni della pentecoste, al di là dello spensierato consumismo, riuscissero a richiamarci alla responsabilità, se ci facessero superare l'intelletto, il sapere pianificabile ed immagazzinabile, e ci portassero a riscoprire lo «spirito», la responsabilità della verità, dei valori della coscienza e dell'amore. Infatti, anche se per il momento non scopriamo l'aspetto propriamente cristiano, toccheremmo, per così dire, il lembo di Cristo e del suo Spirito. A lungo andare, cioè, «verità» e «amore» non possono certo esistere senza avere un luogo proprio, in uno spazio vuoto. Se questa è la misura e la speranza costanti dell'uomo, allora non sono una parte della storia mutevole, ma il punto di riferimento del movimento di essa. Allora, non si tratta di idee lontane, ma queste hanno un volto e ci chiamano. Sono allora esse stesse «amore», persona quindi. Allora lo Spirito Santo è veramente «spirito» nella pienezza di ciò che solo questa parola può significare. Probabilmente, uscendo da un mondo profondamente mutato, dobbiamo andare a tastoni verso di lui, in maniera completamente nuova. Forse a qualcuno sembrerà impossibile percorrere il cammino fino alla fine, fino alla «sobría ubriachezza» della fede pentecostale. Ma l'annuncio pressante quel terribile «sonno delle coscienze» di cui parla ancora una volta Pierre Henri Simon, dovrebbe e potrebbe riguardarci tutti: il vento impetuoso di pentecoste assale della pentecoste, che scuote tutti noi:anche oggi, proprio oggi.
Da, J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Brescia 1974
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