P. R. Cantalamessa: IL BUON PASTORE
In tutti e tre i cicli liturgici, la IV Domenica di Pasqua presenta un brano del Vangelo di Giovanni sul buon pastore. Dopo averci condotto, Domenica scorsa, tra i pescatori, il Vangelo ci conduce tra i pastori. Due categorie di uguale importanza nei vangeli. Dall'una deriva il titolo di "pescatori di uomini", dall'altra quello di "pastori di anime", dato agli apostoli.
La maggior parte della Giudea era un altipiano dal suolo aspro e sassoso, più adatto alla pastorizia che all'agricoltura. L'erba era scarsa e il gregge doveva spostarsi continuamente; non c'erano muri di protezione e questo richiedeva la costante presenza del pastore in mezzo al gregge. Un viaggiatore del secolo scorso ci ha lasciato un ritratto del pastore nella Palestina di allora: "Quando lo vedi su un alto pascolo, insonne, lo sguardo che scruta in lontananza, esposto alle intemperie, appoggiato al suo bastone, sempre attento ai movimenti del gregge, capisci perché il pastore ha acquistato tale importanza nella storia d'Israele che essi hanno dato questo titolo ai loro re e Cristo lo ha assunto come emblema di sacrificio di sé".
Nell'antico Testamento Dio stesso viene rappresentato come pastore del suo popolo. "Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla " (Sal 23,1). "Egli è il nostro Dio e noi il popolo che egli pasce" (Sal 95,7). Il futuro Messia è anch'esso descritto con l'immagine del pastore: "Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri" (Is 40,11). Questa immagine ideale di pastore trova la sua piena realizzazione in Cristo. Egli è il buon pastore che va in cerca della pecorella smarrita; si impietosisce del popolo perché lo vede "come pecore senza pastore" (Mt 9,36); chiama i suoi discepoli "il piccolo gregge" (Lc 12, 32). Pietro chiama Gesù "il pastore delle nostre anime" (1 Pt 2, 25) e la Lettera agli Ebrei "il grande pastore delle pecore" (Eb 13,20).
Di Gesù buon pastore il brano evangelico di questa Domenica mette in risalto alcune caratteristiche. La prima riguarda la conoscenza reciproca tra pecore e pastore: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono". In certi paesi d'Europa, gli ovini sono allevati principalmente per le carni; in Israele erano allevati soprattutto per la lana e il latte. Esse perciò rimanevano per anni e anni in compagnia del pastore che finiva per conoscere il carattere di ognuna e chiamarla con qualche affettuoso nomignolo.
È chiaro ciò che Gesù vuole dire con queste immagini. Egli conosce i suoi discepoli (e, in quanto Dio, tutti gli uomini), li conosce "per nome" che per la Bibbia vuol dire nella loro più intima essenza. Egli li ama con un amore personale che raggiunge ciascuno come se fosse il solo ad esistere davanti a lui. Cristo non sa contare che fino a uno: e quell'uno è ognuno di noi.
Un'altra cosa ci dice del buon pastore il brano odierno di Vangelo. Egli dà la vita alle pecore e per le pecore e nessuno potrà rapirgliele. L'incubo dei pastori d'Israele erano le bestie selvagge – lupi e iene – e i briganti. In luoghi così isolati essi costituivano una minaccia costante. Era il momento in cui veniva fuori la differenza tra il vero pastore -quello che pasce le pecore di famiglia, che ha la vocazione di pastore- e il salariato che si mette a servizio di qualche pastore unicamente per la paga che ne riceve, ma non ama, e spesso anzi odia le pecore. Di fronte al pericolo, il mercenario fugge e lascia le pecore in balia del lupo o del brigante; il vero pastore affronta coraggiosamente il pericolo per salvare il gregge. Questo spiega perché la liturgia ci propone il Vangelo del buon pastore nel tempo pasquale: la Pasqua è stata il momento in cui Cristo ha dimostrato di essere il buon pastore che da la vita per le sue pecore.
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