I DISCEPOLI DI EMMAUS. Meditazioni di Eugenio Pramotton

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LC 24, 13-55


Lo scandalo della vittoria del male sul bene

Ed ecco in quello stesso giorno... Il giorno di cui si parla è il giorno della risurrezione del Signore, giorno in cui la vita ha vinto la morte, la luce ha vinto le tenebre, l'amore ha trionfato sull'odio. Questa buona notizia incominciava a diffondersi ma c'era ancora chi doveva sentirne l'annuncio. Due discepoli, che seguendo il Signore erano giunti a Gerusalemme ora se ne allontanavano sconsolati, e lungo il cammino parlavano di tutto quello che era accaduto. Ma che cosa era accaduto a Gerusalemme? A Gerusalemme aveva avuto luogo la fase conclusiva di una violenta battaglia in cui morte e vita si erano scontrate in un furioso duello e il Signore della vita era morto.

Con la morte del Signore, erano venute meno anche le speranze di coloro che Lo avevano seguito affascinati dalla sua sapienza, dalla sua bontà, dalle sue promesse e dalla potenza dei suoi miracoli. Chi se non Lui poteva riformare la società, guarirla dalla corruzione, dall'ipocrisia, dalla mancanza di fede?... Ma ora, colui che aveva alimentato queste speranze era morto, ucciso dall'odio dei suoi nemici.

C'erano poi altri aspetti in quegli avvenimenti che lasciavano sconcertati: in primo luogo il comportamento di Gesù stesso, Egli infatti non aveva fatto niente per sottrarsi alla malvagità che si stava abbattendo su di Lui, ma si era offerto con docilità a coloro che Lo volevano uccidere, e i suoi discepoli, che ad un certo punto erano pronti a combattere e morire per Lui, non sapevano più cosa pensare. Un altro aspetto sconcertante era il silenzio di Dio nel momento più drammatico della vicenda, silenzio talmente incomprensibile e doloroso da strappare a Gesù morente il lamento: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?...(Mt 27,46).

C'è qualche cosa di incomprensibile e di intollerabile nel veder soffrire un innocente e, se questo ripugna a dei poveri peccatori come noi, a maggior ragione dovrebbe ripugnare a Dio che è sommamente amante del diritto e della giustizia; eppure Dio era rimasto in silenzio.

Gesù si fa vicino a chi è oppresso dal mistero del male

Evidentemente questi avvenimenti e gli interrogativi che suscitavano erano talmente superiori alle forze dei due discepoli da lasciarli oppressi e disorientati. Allora, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Gesù non poteva non farsi vicino e camminare con coloro che erano onestamente alle prese con una situazione e degli interrogativi più grandi di loro. Gesù è presente eppure non è riconosciuto, la sua presenza è in un primo tempo silenziosa e nascosta, è una presenza che non si impone, non è invadente, ma si propone di camminare silenziosamente al fianco di coloro che sono nell'afflizione.

Come se Dio non sapesse

L'afflizione dei discepoli resterebbe tuttavia senza rimedio se la presenza del Signore non si facesse più manifesta, e Gesù rompe il suo silenzio con una domanda: che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino? Sembra la domanda di uno che viene da un altro mondo e non sa ciò che tutti ormai sanno; uno dei due gli dice infatti: tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni? Che cosa? Replicò il Signore.

C'è in questo dialogo qualche cosa di strano, proviamo allora a considerarlo secondo due aspetti: uno abbastanza comprensibile, l'altro più misterioso e paradossale. L'aspetto misterioso è che il Signore sembra voler suscitare con le sue domande proprio gli interrogativi accennati in precedenza, vale a dire: come mai Dio, che è sommamente amante del diritto e della giustizia, tace e non interviene quando ha luogo la più grande delle ingiustizie, ossia l'uccisione dell'innocente suo Figlio? Come mai Dio permette che i malvagi opprimano il giusto fino ad ucciderlo? Come mai Dio permette che il male trionfi sul bene assumendo anche proporzioni intollerabili? Tutte queste cose sono successe, succedono e succederanno, continuando ad opprimere e a suscitare interrogativi senza risposta in coloro che, di fronte a certi momenti tragici della condizione umana, non si accontentano di risposte superficiali.

Non è tuttavia superficiale il paradosso che il Signore propone con le sue domande le quali, così come sono poste, suggeriscono l'idea che Lui fosse completamente estraneo dagli avvenimenti che tanto angustiavano i due discepoli. In realtà, Colui che credevano estraneo e assente era stato al centro degli eventi e nessuno come Lui aveva sofferto fino in fondo gli aspetti più intollerabili e ripugnanti del male e dell'ingiustizia.

Questo paradosso descrive con precisione sorprendente ciò che accade ogni volta che l'uomo, afflitto o in rivolta a causa del male che lo opprime, si rivolge a Dio accusandolo di insensibilità, di ingiustizia o di inerzia nei confronti di situazioni insostenibili ed inammissibili. Tali situazioni possono suscitare due tipi di rivolta: la rivolta del "giusto" e la rivolta del peccatore. Esempi tipici della rivolta del giusto sono i lamenti dei profeti. Abacuc tra gli altri così si esprime: fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido "violenza!" e non soccorri?…Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l'iniquità, perché, vedendo i malvagi, taci mentre l'empio ingoia il giusto? (Ab 1, 2;13). La rivolta del peccatore ci è raccontata dall'evangelista Luca in questi termini: uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!" (Lc 23, 39).

Allora, quando le nostre rivolte oscillano fra il lamento dei profeti e l'insulto del malfattore, dobbiamo sapere e credere che Colui che noi pensiamo assente o estraneo al nostro dramma, si trova in realtà misteriosamente al centro di esso e soffre più di noi per le ingiustizie ed i mali che ci opprimono.

Dire tutto a Gesù

Possiamo provare a considerare adesso l'aspetto più comprensibile delle domande di Gesù. Quando chiede ai due viandanti che cosa era successo e che cosa li angustiava, rispondono: tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute…

Queste parole ci dicono quali erano i discorsi che i due discepoli facevano lungo il cammino, ora, la loro angustia ed i loro interrogativi li stavano raccontando a quel misterioso personaggio che alla fine scopriranno essere Gesù stesso. L'insegnamento da ricavare potrebbe allora essere questo: finché discutiamo fra noi, come facevano i discepoli prima che Gesù si avvicinasse e camminasse con loro, il nostro dolore rimane senza sollievo ed i nostri interrogativi senza risposta, le cose cambiano invece quando ogni nostra preoccupazione e ogni nostro dolore vengono posti nelle mani del Signore, perché i nostri dolori più profondi non possono trovare sollievo ed i nostri interrogativi più veri una risposta, se non da un balsamo e da una luce che non sono naturali ma soprannaturali.

Il racconto che i due fanno al Signore prosegue poi con queste parole: ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto. Che Gesù fosse morto, e morto in quel modo, era un fatto sconvolgente, ma le sorprese non erano finite, altri fatti venivano a complicare e rendere incomprensibile la vicenda, alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti dicono i discepoli, infatti, oltre ad essere morto, Gesù è pure scomparso e al suo posto si sono presentati degli angeli ad affermare che Egli è vivo, quelli poi che erano andati al sepolcro per verificare, avevano sì trovato la tomba vuota, ma Gesù non l'avevano visto.

Questa seconda parte del racconto ci mostra come non sia solo il mistero del male a sconvolgere la vita dell'uomo, ma anche il mistero del bene, è c'è da notare che i discepoli vengono lavorati sia dall'uno che dall'altro mistero.

A questo punto i discepoli hanno deposto nelle mani del loro compagno tutte le loro angustie, tutti i loro interrogativi e i loro sconvolgimenti, ossia le cose come loro le avevano vissute e capite; e questo era forse l'aspetto più comprensibile delle domande di Gesù, far sì che ogni angustia venisse posta nelle sue mani. Ora, se quel viandante fosse solo un uomo, le cose non cambierebbero un gran che, ma quel viandante non era solo un uomo ed aveva qualche cosa da dire sulla storia che gli avevano raccontato.

La prima cosa che dice non è molto incoraggiante per i due: sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Evidentemente, il Signore ha pensato che, prima di ogni altra spiegazione, i due dovevano diventare consapevoli della loro testardaggine nel voler rimanere ancorati alla loro povera comprensione delle cose. C'era infatti una visione delle cose secondo Dio, manifestata agli uomini mediante i profeti, e c'era una visione delle cose secondo i pellegrini di Emmaus, ma quest'ultima era stata ormai frantumata dagli eventi che avevano appena vissuto. Una volta accettata l'inadeguatezza del loro modo di comprendere, e resi umili dalla dichiarazione della loro lentezza a credere, si poteva iniziare a ricostruire.

Una domanda imbarazzante

E Gesù inizia a ricostruire ponendo ancora una volta una domanda: Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria? La risposta dei discepoli, o almeno quella che vorremmo dare noi, potrebbe riassumersi con queste parole: beh, secondo il nostro modesto parere, sarebbe meglio cercare una via che non passi attraverso la sofferenza per entrare nella gloria, magari accontentandosi di qualcosa di meno della gloria.

È tuttavia evidente che Gesù vuole dare una risposta che va esattamente nella direzione opposta. Allora conviene riconoscere che la sua domanda ne richiama un'altra: perché bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria? Forse il Signore voleva far sorgere proprio questo interrogativo nel cuore dei discepoli. Se non accettiamo infatti le fatiche ed i travagli che certi interrogativi comportano, non giungeremo mai a meritare di godere la luce che il Signore vuole donarci. Come il Cristo ha dovuto sopportare queste sofferenze per entrare nella gloria, così il discepolo, sopportando le fatiche ed i travagli che il problema del male comporta, sia a livello intellettuale che a livello esistenziale, giungerà a godere della luce e delle risposte che solo il Signore è in grado di dare.

Allora, a coloro che accettano queste fatiche e questi travagli, accadrà qualche cosa di simile a quello che è accaduto ai discepoli di Emmaus. Se ne andranno per un po' di tempo afflitti e sofferenti con molti interrogativi e nessuna risposta, poi, misteriosamente e silenziosamente, il Signore si avvicinerà e camminerà con loro, con qualche stratagemma farà sì che tutti gli interrogativi e tutte le angustie gli vengano consegnati, poi, con la sua luce incomincerà a dissipare le oscurità di ogni interrogativo e le angustie di ogni vicenda.

Partendo da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui. Ora, fin da bambini i discepoli sapevano di Mosè e dei profeti, conoscevano la storia della creazione, il peccato di Adamo, la storia dei patriarchi, l'oppressione degli Ebrei in Egitto, l'esodo dall'Egitto e la conquista della terra promessa, le vicende dei vari re di Israele, la voce potente dei profeti, la promessa e l'attesa del Messia, ossia di colui che doveva diventare re potente di Israele, sua guida e suo liberatore. Tutte queste cose le sapevano, ma non le comprendevano veramente, non le comprendevano nel loro aspetto più profondo e soprannaturale, non riuscivano a fare il collegamento fra le cose raccontate dalla Sacra Scrittura ed il dramma che Gesù aveva vissuto e che loro stavano vivendo. Quando poi Gesù si mette a spiegare come stanno le cose, allora il loro cuore incomincia a riscaldarsi ed illuminarsi.

Per tentare di ricavare quanta più luce possibile a proposito dell'imbarazzante domanda sul perché il Cristo doveva soffrire per entrare nella sua gloria, è bene riflettere su due punti fondamentali della rivelazione. Uno è la storia del peccato originale, l'altro è la presentazione, da parte dei profeti, di un messia umile e sofferente.

Il dogma del peccato originale

Il dogma del peccato originale tenta di dirci qualche cosa sulla genialità del rapporto che Dio ha voluto instaurare con l'uomo. Per cercare di comprendere questa genialità conviene porsi la domanda: perché Dio ha voluto creare l'uomo? E la risposta è che Dio ha voluto creare l'uomo per renderlo felice mediante la partecipazione allo splendore della vita divina; essendo Dio felice, desidera rendere partecipi anche altri alla sua felicità.

Per realizzare questo progetto, una possibilità era quella di creare l'uomo direttamente nella gloria, direttamente nel paradiso celeste, sarebbe stato tutto molto più semplice, non ci sarebbero stati i peccati e le conseguenti sofferenze, tutti gli uomini sarebbero stati immediatamente felici ed avrebbero ringraziato e lodato Dio per tutta l'eternità.

Evidentemente Dio ha scartato questa possibilità e ne ha scelta un'altra, quella che stiamo vivendo adesso, quella in cui c'è la possibilità: sia del peccato e delle relative sofferenze, sia delle vittorie sul peccato e dei relativi meriti. Così, Dio non ha creato l'uomo nel paradiso celeste, ma lo ha creato in quello terrestre, e nel paradiso terrestre ha voluto sottoporre l'uomo ad una prova, una prova d'amore. Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti (Gn 2,16).

Dio ha scelto di non dare gratuitamente all'uomo la sua vita, il suo amore, la sua gloria, ma ha voluto che l'uomo ci mettesse del suo per raggiungere questi beni, in una parola, Dio vuole amare l'uomo in risposta all'amore che l'uomo manifesta nei suoi confronti, e l'uomo manifesta a Dio il suo amore mediante l'osservanza della sua legge: chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui…se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 21; 23).

Un altro aspetto del rapporto fra Dio e l'uomo è questo: Dio non ha voluto costringere l'uomo ad amarlo, cosa che sarebbe successa se l'avesse creato direttamente in paradiso, ma ha voluto lasciarlo libero di dirgli di sì o di no, e questa scelta si manifesta sempre mediante l'osservanza della sua parola e la pratica della sua legge o dei suoi comandamenti. In questo rapporto infine, bisogna accettare che Dio sia Dio e l'uomo, uomo, ossia che Dio sia primo e l'uomo secondo, che Dio sia creatore e l'uomo creatura; la conseguenza è che Dio deve fissare le regole del gioco, mentre tocca all'uomo rispettarle. Queste sono le condizioni affinché le cose funzionino come Dio comanda. In realtà, è accaduto, accade ed accadrà, che l'uomo non rispetta le regole, non accetta di essere secondo, vuole essere primo e farsi lui le sue leggi, in una parola, non supera la prova d'amore a cui è sottoposto, dice di no a Dio, gli volta le spalle e se ne va per la sua strada.

Di fronte a questo rifiuto e a questa disobbedienza, Dio rimane impotente e ferito nel suo amore, la gravità e l'orrore di queste offese ci è manifestata da Gesù inchiodato e trafitto sulla croce. Ma le conseguenze di queste trasgressioni, di queste disattenzioni nei confronti della legge dell'amore e delle sue esigenze, saranno disastrose anche nei confronti dell'uomo, molto più disastrose di quanto si potrebbe in un primo tempo pensare.

Il paradosso, o il mistero, è che in un primo tempo l'uomo pensa addirittura che trascurare la parola di Dio e la sua legge sia per lui un bene, un motivo di libertà e di crescita, e gli dia la possibilità di esperienze esaltanti e gratificanti che altrimenti gli sarebbero negate, ed è incoraggiato in questo anche dalla parola insidiosa del demonio che lo rassicura: non morirete affatto! Anzi…(Gn 3,4).

C'è tuttavia un tempo in cui i nodi vengono al pettine. Prima o poi, nella vita di una persona, di una famiglia o di una società, il peccato manifesta tutto il suo orrore, e l'uomo si ritrova stupito, disorientato, oppresso ed impotente di fronte all'insospettata violenza che il male in certi momenti assume.

La presa di coscienza di questo orrore non può essere evitata, perché l'amore è l'amore, la verità è la verità, la giustizia è la giustizia, la virtù è la virtù e la bellezza del piano di Dio non può venir adulterata, allora, quando si trascurano questi beni e si imbocca una strada che va nella direzione opposta a quella che ci condurrebbe nel Regno di Dio, bisogna accettarne tutte le conseguenze, e le conseguenze vanno fino alla morte ed alla morte di croce, ossia, fino ad una certa atrocità della morte.

La situazione disastrosa nella quale ci troviamo sarebbe senza speranza se Dio non avesse pietà di noi e non decidesse di intervenire. L'intervento che noi vorremmo è spesso simile a quello che vorrebbe il ladrone malvagio: non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi! (Lc 23, 39). Vorremmo cioè che Dio eliminasse le conseguenze del peccato con la sua potenza miracolosa, ma questo sarebbe come chiedergli il permesso di peccare e nello stesso tempo di venir liberati dalle inevitabili ripercussioni dolorose ed orrende che il peccato comporta.

L'intervento che Dio decide è invece un altro, e consiste nell'utilizzare la situazione disastrosa nella quale ci troviamo, come occasione per manifestarci l'eccesso del suo amore misericordioso. Dio decide di riconquistare il nostro cuore venendo a portare con noi e per noi il peso di dolore e di morte in cui il nostro peccato ci ha gettato, ecco la gloria che non poteva ottenere senza passare attraverso il dolore e la morte, Dio non ha voluto gloriarsi di altro nei nostri confronti, se non di quell'amore che lo ha spinto a rendersi solidale con noi fino alla morte e alla morte di croce. Ecco l'aiuto che Dio ci offre, non l'eliminazione della sofferenza e della morte, ma il dono della pazienza e delle forze necessarie per passare attraverso queste realtà.

La via per eliminare la sofferenza e la morte era già stata indicata, e consisteva nell'osservanza della parola di Dio e dei suoi comandamenti; l'uomo però, non ha voluto percorrere questa via, ed allora non rimaneva altra alternativa per la sua redenzione, o il suo rinsavimento, che farlo passare attraverso le conseguenze della sua follia, questo passaggio si sarebbe però avverato impossibile se Gesù non fosse venuto a camminare con noi, portando Lui molto del peso che dovremmo portare noi. Questa la gloria dell'Amore che si rende solidale con le disgrazie e la disavventure degli uomini di tutte le latitudini e di tutti i tempi.

La gloria del Messia sofferente annunciata dai profeti

Questa gloria era già stata annunciata dai profeti, ma pochi vi avevano fatto attenzione, ed allora, nel momento supremo in cui questa gloria si manifestava, non veniva né compresa né riconosciuta. La voce che in maniera più eloquente aveva descritto la gloria del Messia sofferente è stata quella del profeta Isaia, che diversi secoli prima della venuta di Gesù così si esprimeva:

Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti furono presi da spavento alla sua vista
- tanto era sfigurato e il suo aspetto non era più quello di un uomo -

così si meraviglieranno di lui molte genti;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
E' cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.

Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi
non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,

si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri peccati,

schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

(Is 52, 13-15; 53, 1-5)





Il mistero del bene manifesta la sua vittoria

Ad un certo punto lo sconosciuto viandante termina le sue spiegazioni ed i discepoli giungono nei pressi del villaggio a cui erano diretti; proprio in questo momento l'evangelista osserva che egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: "resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". La richiesta verrà accolta ed esaudita al di là delle loro più ardite speranze. Potremmo considerare questo episodio secondo due aspetti: il primo ci rivela qualche cosa delle esigenze e del pudore dell'amore, mentre il secondo ci orienta verso le sue profondità indicibili.

Le esigenze ed il pudore dell'amore

Lo stato d'animo dei discepoli nei momenti in cui Gesù, in incognito, cammina e parla con loro, è raccontato da loro stessi con queste parole: non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?

Queste parole mostrano come la presenza, l'amabilità e la sapienza di quell'uomo avevano avuto il potere di ridare luce a delle menti che si trovavano nell'oscurità, speranza e nuova vita a dei cuori che si sentivano morire; Gesù si era avvicinato a loro proprio per donare questi beni, ora, una delle caratteristiche del vero amore è questa: pur nel desiderio di donare e di donarsi, colui che ama non vuole imporsi alla persona amata, ma vuole essere da lei desiderato, e desiderato con una certa intensità. Così Gesù nei confronti dei discepoli. Allora, quell'accenno ad andare più lontano serviva proprio a provare il loro desiderio, serviva a verificare quanto ci tenevano alla sua compagnia. Se l'avessero lasciato andare avrebbe voluto dire che, nonostante le apparenze, non importava loro molto di Lui, così come è detto di coloro che subito si rallegrano nell'ascoltare la parola ma non avendo radici ed essendo incostanti vengono meno (Mt 13, 20-21).

Non così per i discepoli di Emmaus, dei quali è detto invece che insistettero perché colui che stava ridando vita ai loro cuori rimanesse con loro. Quell'insistenza ci rivela che la temperatura del loro amore aveva raggiunto una certa incandescenza e questa era una delle condizioni richieste perché Gesù rimanesse con loro. È tuttavia interessante notare la motivazione che presentano per indurre il loro compagno a rimanere: resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino. Ora, il desiderio più forte che avevano nel cuore era quello di poter godere ancora della presenza di colui che li stava facendo rivivere e senza del quale sarebbero probabilmente ricaduti nello sconforto. Non gli dicono tuttavia: resta con noi perché abbiamo ancora bisogno della tua parola e del tuo incoraggiamento, ma resta con noi perché si fa sera... ossia, non viene posta in primo piano un'esigenza del loro cuore, anche se era una santa esigenza, ma viene avanzata un'esigenza della carità fraterna. Infatti, se un viandante, che non è del posto, manifesta l'intenzione di proseguire il cammino mentre il giorno sta per finire e la notte avanza, andrà sicuramente incontro a disagi non avendo un riparo per proteggersi dal freddo, riposarsi dalla stanchezza e rifocillarsi.

Vediamo così che l'intenzione del Signore di proseguire fa emergere la nobiltà dell'amore dei due discepoli, i quali, pur avendo un gran desiderio di rimanere con quell'uomo misterioso per il bene che ricevevano da lui, tuttavia, vengono mossi dal pudore e dalla carità a cercare un motivo di convenienza a rimanere anche per il loro compagno, si dimostrano così aperti e attenti alle necessità del prossimo. È accaduto così che il Signore, dopo aver dato tanto ai discepoli, ha offerto loro anche la possibilità di dare, li ha messi cioè nella condizione di offrirgli la loro ospitalità. Visto le ottime premesse, cioè il loro ardente desiderio e la loro carità fraterna, il Signore non poteva che entrare per rimanere con loro.

Dalla presenza esterna alla presenza interna

Possiamo tentare di considerare adesso questo episodio da un altro punto di vista, quello che ci orienta verso le profondità dell'amore.

Come abbiamo osservato in precedenza, i pellegrini di Emmaus stavano ricevendo dall'uomo che si era unito a loro lungo il cammino: luce, consolazione, speranza, e i loro cuori tornavano a vivere dopo la grande tribolazione per la quale erano passati. Ora, questi beni venivano comunicati loro soprattutto dalla presenza esterna e dalle parole del loro compagno, quindi, se lui se ne andava, le sue parole venivano meno e loro sarebbero ricaduti, prima o poi, nello sconforto, ma anche se si fosse fermato un giorno o due o tre, sarebbe comunque venuto il momento in cui li avrebbe dovuti lasciare. Questo significa che la presenza dell'uomo di Dio e le sue parole, per quanto belle, profonde e vere come lo erano quelle pronunciate dal Signore, hanno dei limiti. Allora, per fare un bel lavoro, bisogna andare oltre questi limiti, ecco perché il Signore fece come se dovesse andare più lontano, come per invitare i suoi discepoli a seguirLo ed entrare con lui dove non ci sono più limiti e regna la perfezione dell'amore.

Oltre il limite della presenza esterna e della parola, c'è la perfezione della presenza interna e del silenzio. Questa è la meta, misteriosa e beatificante, a cui il Signore vuole condurre coloro che accettano di seguirLo. L'evangelista ce la indica con una frase fondamentale e lapidaria: Egli entrò per rimanere con loro, ecco la presenza, interna, senza interruzioni, comunitaria, beatificante…e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, entrare in comunione intima e duratura con Colui che è la Vita, la Luce, la Pace. Ci sono però due modi o due tempi di questa presenza interna: uno è quello in cui essa agisce in modo silenzioso e nascosto e l'altro è quello della sua manifestazione. Il primo è relativo alla vita presente, il secondo a quella futura.

Verso la manifestazione della risurrezione

Il Signore, dunque, accetta l'ospitalità dei discepoli e, mentre è a tavola con loro, aziona l'interruttore che fornirà ai loro occhi la luce necessaria per poterlo riconoscere, e lo fa in un modo molto fine e caratteristico, afferma cioè di essere il Signore Gesù e quindi il Risorto, non in maniera diretta ma indiretta. Non dice ad esempio: quel Gesù di Nazaret che voi avete visto crocifisso, morto, deposto in un sepolcro, il cui corpo non è stato trovato dalle donne quando vi si sono recate, e che gli angeli affermano essere vivo, ebbene, sono io che sto in mezzo a voi. Vengono però dette, in altro modo, esattamente le stesse cose ed anche qualche cosa in più.

Ecco come sono andate le cose: quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ora, quei gesti, quelle parole, quell'intonazione di voce, quello sguardo, i due discepoli li avevano già visti ed ora li stavano rivedendo, e si stavano rendendo conto che appartenevano in maniera inconfondibile alla persona di Gesù, dunque, colui che avevano davanti era veramente Gesù, ed era vivo e vegeto nonostante fosse stato morto e sepolto. Rendersi conto di questo e venire invasi dalla gioia, e da qualche brivido, fu un tutt'uno, quella gioia poi era talmente forte, inebriante e piena di luce da ricompensarli ampiamente delle angosce e delle sofferenze patite durante i giorni della passione di Gesù. Ecco ciò che accade quando il Signore si manifesta.

Vittorio Messori fa un'ottima osservazione a proposito di questa cena dicendo che: prendendo il pane, benedicendolo, spezzandolo e distribuendolo, il misterioso personaggio ha necessariamente dovuto mettere in evidenza le sue mani, allora, vedendo in esse il segno dei chiodi i discepoli hanno riconosciuto il Signore.

Questa manifestazione però è durata pochissimo, è stata una manifestazione lampo, e poi: lui sparì dalla loro vista. Vallo a capire questo Signore risorto, poteva almeno fermarsi un po' di più, che fretta aveva, ed ora, dove si sarà di nuovo nascosto? Evidentemente, il Signore è uno a cui piace viaggiare in incognito, piace nascondersi e farsi cercare, se lo incontri ti fa molte domande, sembra non sapere niente e invece sa tutto, quando poi si rivela lo fa per lo spazio di un momento.

Il ritorno a Gerusalemme

Intanto i discepoli, pieni di gioia, si rendono conto che il Signore era stato loro vicino anche quando non erano in grado di riconoscerlo e si dicono l'un l'altro: "non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?" camminava con noi e noi non lo sapevamo! Allora, quando si ha il cuore pieno di gioia, si ha anche il desiderio di condividerla, anche se coloro che sono in grado di farlo sono a sette miglia di distanza, ossia a Gerusalemme.

E partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme. Ma si stava facendo buio - non importa, la luce di Gesù risorto illuminava i loro occhi. - Ma avevano già camminato a lungo erano stanchi - non importa, avevano ricevuto un nuovo vigore dall'incontro con il Signore e dal pane che Lui aveva benedetto. - Ma il Signore era scomparso - non importa, sentivano che era andato a nascondersi nel profondo del loro cuore. -

Questo per dire che agli occhi di chi non ha ancora incontrato il Signore, i comportamenti di un discepolo possono apparire a volte come stranezze e follie; è tuttavia un peccato che nel mondo siano troppo poche queste follie. Da notare che le prime persone a cui i discepoli pensano per condividere la loro gioia non sono gli abitanti del villaggio, non sono i non credenti o i pagani, ma sono altri discepoli come loro, perché nessun altro li avrebbe capiti se non dei fratelli nella fede, solo chi, come loro, aveva partecipato al dramma di Gesù morto, meritava ed era in grado di partecipare alla gioia di Gesù risorto.

Intanto i due arrivano a Gerusalemme ed incontrano gli undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: "davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone". Scoprono così che la comunità di Gerusalemme era nella gioia per lo stesso loro motivo, allora, mettendo in comune le loro sorprendenti esperienze la gioia di tutti non poteva che aumentare e consolidarsi; il Signore Gesù, incredibile a dirsi, era veramente risorto, l'odio e la morte non avevano avuto l'ultima parola, ma erano stati sconfitti dalla forza invincibile dell'Amore.

L'esperienza autenticata dalla comunità

Questo momento di condivisione è più importante di quanto potrebbe sembrare. Come abbiamo osservato, la manifestazione del Signore ai due discepoli di Emmaus, è stata una manifestazione lampo, e questo avrebbe potuto, nel tempo, far sorgere qualche dubbio: e se si fosse trattato di una allucinazione, di un abbaglio, o di una qualche forma di suggestione? Oppure un brutto scherzo dovuto allo sconforto e alla depressione in cui erano caduti?

Ora, in quello stesso giorno, persone diverse, in momenti diversi, in luoghi diversi, in modi diversi, erano state condotte tutte alla medesima conclusione: Gesù di Nazaret, che era stato morto e sepolto, era tornato alla vita. Si è quindi verificato, in campo spirituale, ciò che si richiede in campo materiale ad una teoria per meritarsi il titolo di scientifica. Tale teoria deve cioè descrivere, o consentire di produrre, dei fenomeni che siano riproducibili; ossia, persone diverse, in tempi diversi, con sistemi diversi, devono tutte poter giungere, applicando quella teoria, alla medesima conclusione.

Così, oltre alla condivisione della gioia, il ritorno a Gerusalemme è servito a loro, agli altri, e a noi, per verificare l'identità dell'esperienza a cui ognuno, in modi e tempi diversi, era stato condotto, ed escludere così il pericolo di un inganno o di una fantasia senza senso.

I discepoli di Emmaus e noi

Giunti a questo punto, rimane da riflettere sugli insegnamenti che dobbiamo ricavare noi dall'esperienza dei due discepoli di Emmaus. A tale proposito penso sia utile considerare la loro vicenda come un modello o una parabola dell'intera vita di un discepolo di Gesù.

Proviamo a riflettere su alcuni elementi che suggeriscono questo modo di vedere. Intanto i due erano in cammino, ma anche la nostra vita è un cammino, ed è un cammino che non facciamo da soli ma in compagnia. Ci viene poi detto che la lunghezza di questo cammino era di circa sette miglia, e qui gli studiosi di Sacra Scrittura ci dicono che difficilmente nella Bibbia troviamo qualcosa che non abbia un significato simbolico, ossia un significato che tenta di farci andare oltre ciò che appare per introdurci nel mistero di Dio e nel mistero dell'uomo; ed anche i numeri hanno un loro significato simbolico. Il numero sette sta ad indicare, pienezza, perfezione, totalità. Le sette miglia da Gerusalemme ad Emmaus possiamo quindi vederle come la totalità del tempo che ad ognuno è concesso in questa vita.

Se consideriamo la meta verso cui erano diretti, un villaggio, possiamo dire che non era una meta molto elevata, soprattutto se la paragoniamo alla città regale da cui si allontanavano, così l'uomo, lasciato a se stesso, non è di solito orientato verso traguardi molto elevati. Il Signore eleva i traguardi dell'uomo; vediamo infatti che alla fine i due ritornano pieni di gioia alla città da cui erano partiti ed incontrano dei fratelli, pieni di gioia anche loro per aver visto il Signore. Ma questa è proprio la meta a cui il Signore chiama ognuno di noi, ossia la comunione dei santi nella gioia, nella Gerusalemme Celeste, la capitale del Regno di Dio dove il motivo della gioia sarà la contemplazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Da Dio veniamo e a Dio dobbiamo ritornare.

Lungo il cammino i due discorrevano e discutevano insieme di tutto quello che era accaduto, e questa è una figura dell'uomo che, lungo il corso della vita, si interroga e cerca il significato delle cose, degli avvenimenti, della sua esistenza, del bene e del male che vede in sé e nel mondo. Ora, se la sua ricerca è onesta, se non è una ricerca superficiale e incostante, deve riconoscere che il senso ultimo di tutte le cose gli sfugge.

Che il senso dell'esistenza non fosse una cosa così facile da trovare, se ne era reso conto in maniera acuta il Qoèlet che diceva: vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?…L'uomo non può scoprire la ragione di quanto compie sotto il sole; per quanto si affatichi a cercare, non può scoprirla. Anche se un saggio dicesse di conoscerla, nessuno potrebbe trovarla (Qo 1, 2-3; 8, 17).

Infatti, il senso della propria vita non è qualche cosa che l'uomo riesce a scoprire con le proprie forze, ma è qualche cosa che deve ricevere come un dono, e il cui senso pieno non gli sarà rivelato che in Paradiso. Di qui la necessità che il Signore si affianchi al nostro cammino e, a poco a poco, ci spieghi Lui come stanno le cose.

Il Signore era là e io non lo sapevo

A questo punto possiamo ricavare due insegnamenti molto importanti e consolanti: il primo è che il Signore si fa vicino ed accompagna tutti coloro che sono onestamente alle prese con i grandi problemi della vita; il secondo è che il Signore opera in nostro favore molto tempo prima che i nostri occhi siano capaci di riconoscerlo: e camminava con loro, ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.

Un esempio tipico di questo fatto lo possiamo vedere nella vita di S. Agostino il quale, nel suo travagliato vagare alla ricerca della verità, giunge un certo giorno a Milano dove incontra il Santo vescovo Ambrogio e, a proposito di questo incontro osserva: qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori e Tuo devoto servitore…A lui ero guidato inconsapevole da Te, per essere da lui guidato consapevole a Te. In molti altri avvenimenti, pensieri, stati d'animo, Agostino riconoscerà l'opera del Signore nella sua vita, anche se lui, sul momento, non era in grado di riconoscerla. Come lui, tutti coloro che sono giunti alla fede ed hanno camminato in essa, possono riconoscere che in certi momenti del loro cammino sono accaduti dei fatti che si sono poi rivelati decisivi per la loro conversione o per la loro crescita spirituale, e di quei momenti è possibile dire: il Signore era là e io non lo sapevo (Gn 28, 16).

Possiamo ancora notare come tutto l'episodio racconti di una manifestazione progressiva del Signore Gesù, fino al momento dello svelamento totale che confermerà i discepoli nella gioia. Vediamo infatti un primo momento in cui i discepoli camminano da soli, poi Gesù si avvicina e cammina con loro in silenzio, quindi li interroga e si fa raccontare le loro angustie, passa poi a rimproverarli per non aver creduto alla parola dei profeti, afferma in seguito che il Cristo doveva soffrire per entrare nella sua gloria e spiega loro le scritture, verifica il loro amore e, da ultimo, rompe il velo per manifestarsi ai loro occhi in piena luce.

Questo percorso è simile al cammino di fede che un discepolo compie nella Chiesa, cammino che terminerà con la visione faccia a faccia di Dio. In un cammino di fede, come si sa, il Signore non si vede, si vedono però nella Chiesa uomini di fede, i quali ci spiegano le scritture come Ambrogio ad Agostino, per esempio, e più comprendiamo le scritture più ci rendiamo conto di non credere abbastanza alla parola dei profeti, si è allora stimolati a chiedere che ci venga aumentato il dono della fede per poter credere di più. Capita anche, lungo il cammino, di comprendere veramente cose che fino a quel momento si sapevano solo teoricamente.

La predicazione della Chiesa inoltre, insiste in modo particolare sul mistero pasquale, ossia sul mistero della passione, morte e risurrezione del Signore, che è la via per la quale il Signore è passato per entrare nella sua gloria. Il discepolo quindi, nei suoi travagli, nelle sue sofferenze e nella sua morte, è fortificato dalla grazia che proviene dalla Croce di Cristo, il fine ultimo però, non è la sofferenza e la morte, ma la gioia nella contemplazione del Signore risorto insieme agli angeli e ai santi.

In attesa che sul nostro cammino appaia il traguardo della Gerusalemme celeste, dobbiamo camminare nella fede e non ancora in visione (2 Cor 5, 7), come ci dicono sia San Paolo che l'esperienza. È forse questo uno dei motivi per cui il Signore cammina con i discepoli senza farsi riconoscere. Così, l'apparizione lampo con cui il Signore si manifesta loro, oltre ad affermare la sua risurrezione, ad indicare con particolare evidenza quale era la bellezza e la gioia che avrebbe riservato loro in cielo, oltre ad infondere loro nuove forze e coraggio per annunciare al mondo la sua risurrezione, indicava anche che non erano ancora giunti al traguardo, e dovevano camminare anche loro nella fede e non nella visione, come i discepoli di tutti i tempi.

Per i discepoli di tutti i tempi questa manifestazione di Gesù contiene la consolante indicazione che, in momenti particolari, per motivi a lui noti, nei modi stabiliti dalla sua sapienza, il Signore può, per lo spazio di un momento, rendere sensibile anche a loro la sua presenza.

Gesù risorto e l'Eucaristia

Nel corso delle nostre riflessioni abbiamo ad un certo punto osservato come il Signore abbia scelto una via indiretta, o velata, per rivelare ed affermare la sua risurrezione, ed abbiamo anche detto che, oltre ad affermare la sua risurrezione il Signore stava dicendo qualche cosa in più. Probabilmente, sul momento, i discepoli non si saranno resi conto di questo ulteriore insegnamento, possiamo tuttavia immaginarli qualche tempo dopo, intenti a riflettere sugli avvenimenti di quel giorno, soprattutto sul modo che il Signore aveva scelto per farsi riconoscere.

Immaginiamo allora il discepolo C ed il discepolo S che cercano una comprensione più profonda di quel particolare momento.

C - Ti sei mai chiesto come mai, a noi, il Signore si è manifestato in quel modo particolare?

S - Ci ho pensato a volte, però non riesco a comprendere pienamente il senso di quanto ha fatto, ma la cosa più importante, non è forse che noi sappiamo che Lui è risorto?

C - Sì, ma tu sai che il Signore non fa niente a caso e in tutto ciò che dice e fa si nascondono misteri ed insegnamenti profondi.

S - Verissimo, quindi, se cerchiamo, troveremo sicuramente qualche tesoro nascosto.

C - Infatti, a Lui piace dire molte cose nascondendole sotto i veli delle parabole e delle similitudini, se dunque per rivelarsi a noi ha scelto quella particolare sceneggiatura, ci deve essere un motivo.

S - Da dove possiamo iniziare la nostra ricerca?

C - Da una domanda, naturalmente.

S - Quale domanda?

C - Qual è l'associazione di idee che noi possiamo adesso stabilire dopo averlo visto risorto?

S - Veramente, non riesco a seguirti.

C - Dai, non è difficile, anzi è semplicissimo.

S - Sarà semplicissimo per te, ma io proprio non ti seguo.

C - L'associazione è questa: abbiamo da una parte Gesù, risorto, vivo e vegeto, e dall'altra la tavola, il pane, la benedizione, il pane spezzato e la sua distribuzione.

S - E allora?

C - E allora basta percorrere le idee contenute nell'associazione in senso inverso e abbiamo trovato.

S - Trovato che cosa?

C - Che lì dove c'è una tavola, un pane spezzato e una benedizione c'è anche Gesù risorto.

S - Accidenti! Adesso capisco, era così semplice! Così, anche il fatto che appena riconosciuto sia sparito dalla nostra vista, può voler dire che per fede dobbiamo riconoscerLo risorto e vivo nel Pane consacrato.

C - Penso proprio di sì.

S - Allora, con questo modo singolare di manifestarsi è come se avesse voluto lasciare a noi e ai discepoli che verranno, il suo indirizzo, così, quelli che vogliono incontrarLo nella fede, lo possono fare dove c'è un pane consacrato...

Ecco il modo che il Signore ha scelto per farci andare oltre i limiti della sua presenza esterna e della parola, vale a dire il dono dell'Eucaristia, mediante il quale, in modo silenzioso e nascosto, entra per rimanere con noi. Quando questa presenza si manifesterà in piena luce e senza interruzioni, sarà la beatitudine eterna.

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