I. De la Potterie. Che cos'è la verità





VERITÀ BIBLICA E VERITÀ CRISTIANA
di p.Ignace de la Potterie
(da I. de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova, 1986)


Secondo la giusta osservazione fatta da diversi autori negli ultimi tempi, stiamo attraversando oggi una crisi del senso della verità. Un filosofo italiano, M.F.Sciacca, analizzando con acutezza la situazione culturale del nostro tempo, denunciava il pericolo di una vera e propria eliminazione della verità. E, tempo addietro, nell'introduzione all'edizione italiana di tre saggi del teologo tedesco W.Pannenberg, tra cui uno su “ Cos'è verità? ”, Vittorino Grossi scriveva: “Il pensiero moderno ha un suo travaglio e disagio particolare quando tratta della “verità””.


Quali sono le ragioni di questo stato di cose? Saranno da ricercare nel prevalere crescente del soggettivismo nel pensiero moderno, cominciato con Kant o forse già con i filosofi del Rinascimento. Ma non è compito nostro indagare le cause profonde della crisi. Ciò che invece intendiamo fare è analizzare nelle sue grandi linee la situazione attuale; ci domanderemo che cosa significa per la mentalità moderna la nozione di verità, per fare poi un paragone con la concezione tradizionale, tramandataci dalla Grecia antica. Ma accanto all'idea classica esiste una nozione specificamente cristiana della verità. Cercheremo di mostrare in che cosa essa si distingua dalla concezione profana. Dopo questo chiarimento delle nozioni, vorremmo, in una seconda parte, approfondire la concezione cristiana della verità alla luce dei dati della S.Scrittura. Infine faremo un confronto tra la concezione cristiana e le idee moderne sulla verità, per vedere in quale senso il messaggio cristiano risponda alle domande degli uomini del nostro tempo.


1. Verità profana e verità cristiana

1. Esistono diversi concetti di verità: la verità metafisica, la verità scientifica, la verità processuale (nel campo della giustizia), la verità nell'informazione; si potrebbe anche analizzare la verità etica, la verità storica, oppure la verità dell'arte, della poesia, del mito, ecc. Noi parleremo della verità religiosa e cristiana. Però, come abbiamo detto, per cogliere meglio la distinzione tra concezione cristiana e concezione profana, vogliamo prima chiederci che significhi la nozione di verità per il pensiero moderno.
Possiamo distinguere qui tre correnti principali.

a) Consideriamo in primo luogo la corrente esistenzialistica derivata da S.Kierkegaard. Questo filosofo danese, fondatore dell'esistenzialismo moderno, ha scritto la frase famosa: “La verità è la soggettività”, oppure, rovesciando la formula, “La soggettività è la verità”. Per Kierkegaard, sembra fosse indifferente se l'adesione soggettiva dello spirito veniva applicata a un soggetto buono o a un soggetto cattivo. Ma la tradizione esistenzialistica che si è sviluppata dopo di lui mette indubbiamente l'accento in maniera quasi esclusiva sul soggetto. Quella che si cerca non è più la verità in assoluto, ma la verità individuale, cioè l'autenticità nel proprio comportamento. Kierkegaard diceva per esempio che la preghiera vera non è necessariamente quella del cristiano che prega il vero Dio, ma che gli parla senza convinzione; il pagano invece, il cui sguardo si ferma su un idolo, ma che lo invoca con tutta la passione del suo cuore, è un uomo che prega “in verità”.
Indubbiamente, questa concezione esistenzialistica contiene molto di vero; essa rappresenta per ciascuno un pressante invito all'autenticità nelle sue convinzioni e ad un impegno sincero per esse. Però può anche esporre gli uomini al pericolo di confondere verità e sincerità e di non dare più quasi nessuna importanza a ciò in cui credono: tendenza soggettivistica tipica del nostro tempo.

b) Un'altra corrente è quella pragmatistica, la quale fa capo a Nietzsche e a William James. Per il filosofo tedesco della seconda metà dell'Ottocento, la verità non è una realtà ontologica; non esiste una natura assoluta delle cose. Nietzsche ha sferrato un attacco feroce contro ogni pensiero metafisico, che è per lui segno di decadenza. Il vero, secondo Nietzsche, non è una realtà esistente che cerchiamo di scoprire e di conoscere; è qualcosa che si trova davanti a noi, come un fascio di possibilità che noi dobbiamo realizzare. La verità non sta nell'essere, ma nel valore; è vero ciò che riesce nella vita, ciò che produce. Una cosa ha valore e si può chiamare vera, in quanto è utile per l'avvenire e il progresso, in quanto dà all'uomo la possibilità di sorpassare se stesso per produrre il superuomo. Si capisce quindi come Nietzsche abbia scritto, nel suo libro La volontà di potenza: “Il criterio della verità si trova nell'intensificazione del sentimento di potenza”.' Egli dà dunque un primato assoluto al volere sul conoscere, al fare sull'essere, allo sviluppo della vita sulla contemplazione della verità. La norma fondamentale del vero è l'efficacia per il progresso umano, per la preparazione del genio, del superuomo. Si noti quanto vicina sia questa filosofia del progresso con le teorie del marxismo. Ma, cosa più paradossale, un influsso di queste concezioni pragmatistiche si nota anche in certi orientamenti recenti della teologia, secondo i quali la verità deve essere verificata dalla pratica (praxis).
Il P.Schillebeeckx scriveva pochi anni fa: “L'accento viene messo più sull'agire, sul fare, molto più sull'ortoprassi che sull'ortodossia. Ecco la grande svolta, realizzatasi nella concezione dell'esistenza cristiana”. Così si spiega l'apparire, negli ultimi tempi, della “teologia della speranza” e delle cosiddette teologie chiamate “teologia politica” o “teologia della rivoluzione”.
Come bisogna valutare tali tendenze? L'influsso marxista sulla teologia politica è difficilmente negabile. Tuttavia bisogna riconoscere che questa corrente ha messo in luce un aspetto importante della ricerca della verità, e cioè che essa non può essere esclusa dalla vita. Una verità che si può soltanto contemplare e che non cambia niente nel mondo o nell'uomo rimane sterile; è come una cosa astratta, irreale, lontana, che non può interessare. La verità deve essere aperta sull'avvenire, suscitare e nutrire la speranza, spingere all'azione. Ma è ugualmente vero che il primato assoluto dato all'azione toglie all'azione stessa ogni norma direttrice; l'agire deve essere illuminato e guidato dalla verità, altrimenti è disordinato e anarchico; in politica può condurre alla rivoluzione, alla dittatura, alla barbarie. Una visione troppo pragmatistica fa perdere di vista valori essenziali della vita umana, come l'amicizia, la riflessione interiore, la contemplazione, la preghiera, e fa deviare l'uomo dalla sua vocazione ultima più alta che è di entrare in comunione con Dio.

c) Un terzo orientamento della concezione moderna della verità è la sua tendenza verso un certo positivismo. Lo spirito scientifico e la mentalità tecnologica del nostro tempo hanno avuto come conseguenza che si è fortemente tentato di mettere una stretta relazione tra verità e verificazione: è vero solo ciò che si può verificare; gli unici criteri della verità sono quelli delle scienze positive. Secondo il filosofo tedesco W.Kamlah, la nozione moderna di verità si identificherebbe con il concetto di verità scientifica. Certo, gli scienziati autentici non sono più tentati, come al tempo dello scientismo, di dare un valore assoluto alle loro affermazioni. Come ha giustamente affermato E.Agazzi, i cultori delle scienze oggi sono troppo convinti della provvisorietà e della relatività del discorso scientifico: perciò sono piuttosto scettici sulla possibilità di conoscere la verità. Rimane vero però che anche loro sono sempre propensi a non riconoscere altri criteri della verità se non quelli della verificabilità scientifica.
Si può riconoscere qualche aspetto buono anche a questa mentalità, e cioè il suo apprezzamento per i dati concreti e positivi, per le cose oggettive; così questa tendenza critica può servire di contrappeso alla corrente soggettivistica di cui parlavamo sopra. Resta però il fatto che uno spirito formato in maniera troppo unilaterale dal metodo scientifico, non ammette facilmente altre realtà al di fuori di quelle empiriche. Il che significherebbe la rinuncia ai valori superiori di ordine morale, metafisico e religioso; avrebbe come conseguenza di rendere impossibile la conoscenza delle realtà trascendenti, dell'assoluto, di Dio stesso.

2. Di fronte a queste correnti, che sono in parte delle deviazioni, ricordiamo brevemente quale sia la concezione classica della verità, venuta dalla Grecia antica. Per i Greci la verità è fondamentalmente qualcosa di oggettivo: la verità è la realtà stessa di una cosa, in quanto è conosciuta, in quanto si svela allo spirito; è quindi l'essere in quanto è manifestazione, rivelazione, apertura, luce per lo spirito. Si può anche parlare della verità dello spirito, quando lo spirito si apre alla verità delle cose. La verità in questo caso consiste nella corrispondenza dello spirito con la realtà. Questa è la concezione più diffusa, più comune, della verità. Conoscere la verità, quindi, significa conoscere le cose come sono realmente. Questa concezione trova numerose applicazioni nella vita concreta, nel campo del diritto, della storia o della filosofia, ecc.: il giudice che vuol conoscere la verità, cerca di sapere esattamente come si sono svolti i fatti nel delitto per cui si fa un processo; in maniera analoga, lo storico studia documenti antichi per conoscere un periodo determinato dei passato; il filosofo riflette sull'essenza, sull'ultimo fondamento delle cose; perciò la tradizione filosofica diceva che Dio stesso è la verità. Albino, filosofo platonico del II sec. d.C., scriveva: “Il primo Dio è... la divinità, l'essenza, la verità, come il sole è il principio di ogni luce”.
Se paragoniamo questa teoria classica della verità con le idee moderne esposte all'inizio, saltano immediatamente agli occhi delle differenze significative. La concezione greca era caratterizzata dal rispetto dell'oggettività, mentre l'esistenzialismo moderno mette la verità nel soggetto, nell'esperienza personale dell'uomo, nell'autenticità del suo comportamento, nella sua forza creatrice. Un'altra differenza è connessa con la prima: per l'intellettualismo greco la verità era oggetto di contemplazione; secondo il Corpus Hermeticum, una raccolta di scritti d'ispirazione platonica, la beatitudine consiste nel “contemplare la bellezza della verità; è una concezione statica, non spinge all'azione. Molti moderni invece si fanno una idea pragmatistica e dinamica della verità: non la si raggiunge con la contemplazione, ma la si trova nell'agire, nel fare; ha valore ciò che riesce nella vita, ciò che ottiene risultati concreti, oppure ciò che è verificabile.
Da questo rapido confronto risulta che non si tratta semplicemente di scegliere una concezione respingendo l'altra. Bisogna completare l'una con l'altra. Citiamo ancora una volta M.F.Sciacca: “...non c'è l'aut-aut, o il fare, o l'essere; il problema si pone in forma sintetica, perché il fare senza l'essere è cieco e ad un certo punto significa soltanto disfare; d'altra parte l'essere che è fecondo, non deve isterilirsi disinteressandosi del fare. Allora il problema è di essere per fare, oppure potrei dire — usando un termine classico — di contemplare... per conoscere e poi di fare, illuminatamente, proprio perché ci illumina la verità”.

3. Abbiamo premesso queste riflessioni di ordine filosofico per capire meglio, dal confronto con la Verità profana, che cosa sia la verità cristiana. La filosofia classica era realistica, riconosceva il carattere oggettivo della verità; la concezione attuale al contrario è nettamente caratterizzata da ciò che W.Pannenberg chiama la soggettivazione della verità”.
Anche la nozione cristiana della verità, come vedremo, ha conosciuto un'evoluzione analoga, e cioè un'oscillazione tra l'aspetto oggettivo e l'aspetto soggettivo della verità. Ma prima di mostrarlo, cerchiamo di farci un'idea globale sull'essenza della verità, secondo la visione cristiana.

a) La verità cristiana non è identica alla verità dei Greci. E' necessario insistere su questo punto, perché è un'opinione assai diffusa che la rivelazione cristiana è intimamente legata alla filosofia greca. Questo è vero solo fino ad un certo punto: storicamente parlando, il pensiero cristiano si è espresso durante diversi secoli nelle categorie della filosofia greca; tuttavia, la frase di Nietzsche il cristianesimo è platonismo per il popolo”, mi pare inaccettabile. C'è sempre stata una differenza fra cristianesimo e platonismo; il cristianesimo è una religione rivelata, non è una filosofia, anche se si serve di concetti filosofici per formulare ed esplicitare il suo pensiero.
La distinzione tra platonismo e cristianesimo appare molto chiara nella nozione di verità. Molti modi di parlare della tradizione cristiana ci mostrano che cosa sia per essa la verità. Nei primi secoli, Dio veniva più volte chiamato il Dio della veritào il Padre della verità”. Con queste formule i cristiani non volevano esprimere l'idea platonica che Dio è la realtà suprema (idea indubbiamente giusta, ma che non corrispondeva alle loro aspirazioni); queste formule significavano per loro Dio come colui che ha rivolto a noi la sua parola, Dio come fonte della verità e della rivelazione. Troviamo un bell'esempio in una preghiera degli Atti di Tommaso: “ Ti lodo, Signore Gesù, perché tu hai rivelato la tua verità tra questi uomini; perché tu solo e nessun altro sei il Dio della verità. Abbiamo udito la parola decisiva: Tu hai rivelato”. La verità cristiana non è dunque, come nella filosofia greca, l'essere assoluto di Dio stesso, ma la parola di Dio, la divina rivelazione, comunicataci in Gesù Cristo, e che diventa per noi la norma della vita e la fonte della santificazione. Sant'Ireneo scriveva: Dio diede ai suoi apostoli il potere di predicare il Vangelo: per mezzo loro conosciamo la verità, cioè la dottrina del Figlio di Dio”. Osserviamo in questo testo l'equivalenza delle tre espressioni: il vangelo, la verità, la dottrina del Figlio di Dio. Nei secoli successivi troviamo tutta una serie di espressioni dove quel significato della parola e "verità" appare immediatamente; ecco alcune di queste formule: la verità cristiana, la verità cattolica, la verità della fede, la luce della verità, la spada della verità. Il Concilio d'Orange, nel 529, usava come equivalenti le parole verità e l'espressione la predicazione salvifica”, quella del vangelo; nello stesso senso, il Concilio tridentino diceva che il vangelo è la fonte di ogni verità di salvezza: “fontem omnis et salutaris veritatisformula che fu ripresa nel nostro tempo dal Concilio Vaticano II. E' dunque una cosa ovvia; per la tradizione cristiana la verità è la divina rivelazione, il messaggio della salvezza, la vera fede, la dottrina del vangelo predicata dalla Chiesa.

b) Tuttavia, l'abbiamo già detto, la nozione cristiana di verità ha conosciuto delle variazioni analoghe a quelle riscontrate nel concetto profano di verità. Ma mentre per quest'ultima si passava progressivamente a una concezione sempre più soggettiva e personale della verità, si può dire che il concetto cristiano ha conosciuto un'evoluzione in senso contrario. Nella tradizione antica, la verità della rivelazione aveva, sì, un carattere oggettivo, ma era allo stesso tempo concreta e personale: veniva identificata col vangelo predicato, era strettamente connessa con Dio, il Padre della verità”, e più ancora con Gesù Cristo, il quale, come in S.Giovanni, veniva chiamato diverse volte “la Verità”. Nella teologia moderna, invece, dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II, appare una progressiva intellettualizzazione della concezione della verità; questa veniva presentata in maniera molto più astratta: la rivelazione veniva concepita come un sistema, una dottrina, come un insieme di verità rivelate (al plurale), comunicate da Dio e contenute nei libri della S.Scrittura o nella Tradizione, e proposte alla nostra fede dal Magistero ecclesiastico; perciò la S.Scrittura e la Tradizione erano considerate come dei documenti, come le due fonti della rivelazione. La Costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione del Concilio Vaticano II, cambiò radicalmente quella presentazione intellettualistica della verità, ritornando ad una concezione più personale, molto più vicina alla S.Scrittura e alla tradizione antica. La verità viene presentata dal Concilio come la manifestazione di Dio nella storia della salvezza, manifestazione che si realizza pienamente nella persona di Cristo. Il cap. I insegna che la verità, sia di Dio sia della salvezza degli uomini, “risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione”. Al cap. V si dice che “ogni verità (è) racchiusa nel mistero di Cristo”. E, secondo la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, “la Chiesa cattolica è maestra di verità, e sua missione è di annunziare e di insegnare, con competenza, la verità che è Cristo”.

c) Possiamo concludere questa prima parte. Dai diversi testi citati, che ci fanno percorrere venti secoli di tradizione, risulta evidente che il cristianesimo possiede una sua concezione propria della verità; esiste una differenza essenziale tra la religione cristiana e ogni filosofia umana. La verità cristiana è la divina rivelazione, la parola di Dio rivolta all'umanità in Gesù Cristo, non solo per svelare i misteri della vita divina, ma anche per portare all'uomo un messaggio di salvezza e quindi per invitarlo a sorpassare se stesso per prendere parte alla vita di Dio.

2. Verità cristiana e verità biblica

Secondo il Concilio Vaticano II (Costituzione Dei Verbum, nr. 24), la teologia si basa sulla S.Scrittura come su un fondamento perenne; in essa rigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre: perciò lo studio delle Sacre Scritture deve essere come l'anima della teologia.
Ora, abbiamo costatato sopra, che, nella storia della teologia, l'idea di verità cristiana non è sempre stata mantenuta in tutta la sua purezza, in specie nella teologia post-tridentina. Anzi, parecchi teologi non sembrano sempre rendersi sufficientemente conto che esiste una nozione specifica della verità cristiana, una nozione cioè che non è identica a quella di Platone o di Aristotele, o magari di S.Tommaso, ma che viene dalla S.Scrittura e che si ritrova in tutti i periodi della tradizione, specialmente nei documenti del Magistero e nei testi liturgici; quella concezione è meno frequente presso i Padri della Chiesa, perché erano troppo influenzati dalla filosofia antica. Vogliamo illustrare queste affermazioni sulla continuità tra l'uso biblico e l'uso liturgico del tema della verità, presentando due o tre testi significativi. Prima dell'ultima riforma liturgica, il messale romano al venerdì santo, in una orazione per i Giudei, faceva domandare a Dio “che riconoscano la luce della tua verità, che è Cristo”; il testo attuale dice in maniera equivalente che riconoscano anch'essi il Redentore di tutti”. Nella messa per la propagazione della fede si prega così: O Dio, che vuoi che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità, manda, ti preghiamo, operai nella tua messe”. La formula giungere alla conoscenza della veritàè ripresa testualmente dalla prima lettera a Timoteo (2, 4), il che dimostra come questa formula liturgica rimane vicina ai testi biblici.
Perciò, rivolgendosi direttamente alla S.Scrittura, vogliamo adesso esaminare più a fondo quella nozione di verità rivelata.

1. Il tema viene dall'AT. Nella tradizione sapienziale e in Daniele, l'ultimo dei grandi profeti, la verità designa la dottrina di sapienza, la verità rivelata. Più volte troviamo ravvicinate le nozioni di verità e di sapienza. Così, per es., nei libro dei Proverbi: “Acquista la verità, non venderla: saggezza, disciplina e intelligenza!” (23, 23). E l'autore dell'Ecclesiastico rivolge ai suoi discepoli questa magnifica esortazione così attuale oggi: “Fino alla morte lotta per la verità, il Signore Iddio combatterà per te” (testo greco, 4, 28).
Ma in diversi testi passa in primo piano l'idea di rivelazione. La verità designa allora la rivelazione del piano divino della salvezza. In uno degli inni di Qumran si legge, per esempio, questa preghiera: “Voglio lodarti, o Signore, perché tu mi hai dato l'intelligenza della tua verità e mi hai fatto conoscere i tuoi meravigliosi misteri” (1 QH 7, 26-27).

2. Nel NT i testi dove si parla più frequentemente della verità, sono gli scritti più teologici, cioè le lettere paoline e giovannee, e il quarto vangelo.

a) Per Paolo, l'apostolo delle genti, la verità si identifica col messaggio del vangelo (Gal 2, 5-14); egli ricorda ai cristiani di Efeso: “Voi (avete udito) la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza” (Ef 1, 13). Pertanto “giungere alla conoscenza della verità” (1 Tim 2, 4; 2 Tim 3, 7) vuoI dire accogliere la buona novella della salvezza, aderire alla vera fede, farsi cristiano.
La verità predicata dall'apostolo non è una teoria astratta, un sistema dottrinale; al centro del suo messaggio sta la persona di Cristo. Paolo dice agli Efesini: “la verità è in Gesù” (Ef 4, 21). Accogliere la verità del vangelo significa per lui: “imparare il Cristo..., udire di lui, essere ammaestrato in lui” (Ef 4, 20-21). Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo sottolinea con forza che la parola del vangelo è la rivelazione del mistero di Cristo: lo scopo della sua opera apostolica è di “manifestare la verità”, di “far rifulgere lo splendore del vangelo della gloria del Cristo”, di “far risplendere la conoscenza della gloria di Dio che è sul volto di Gesù Cristo” (2 Cor 4, 2-6).

b) Ma l'autore che ha approfondito di più il tema della verità e che ha fortemente messo in risalto la sua relazione col mistero di Cristo è indubbiamente S.Giovanni.
Per l'autore del quarto vangelo, Gesù è innanzitutto il Rivelatore del Padre. L'evangelista descrive la sua missione nei seguenti termini: “Colui che viene dal cielo è superiore a tutti, e attesta ciò che ha veduto e udito; eppure nessuno accetta la sua testimonianza” (3, 31-32). E Gesù stesso dichiara ai Giudei di Gerusalemme: “Io vi ho proclamato la verità, quale io l'ho udita da Dio... Ma a me, che vi dico la verità, non credete” (8, 40-45).
Se l'idea di rivelazione è tanto centrale per S.Giovanni, si capisce bene come egli abbia scritto nel prologo: “La legge fu data da Mosè; la grazia e la verità (la pienezza della rivelazione) venne a noi in Gesù Cristo” (1, 17). Ma il testo fondamentale si trova nei discorsi di Gesù all'ultima Cena: “Io sono la via, la verità e la vita” (14, 6). Gesù si chiama la verità, non nel senso della metafisica platonica, come se egli volesse svelare in se stesso l'essere assoluto e divino. Gesù usa qui il linguaggio della tradizione biblica e giudaica in cui la “verità” è un messaggio di salvezza, la parola di rivelazione: egli è dunque la verità, in quanto egli, l'uomo Gesù, è per noi la pienezza della rivelazione. Approfondire la verità cristiana vuol dire: approfondire il mistero di Cristo, scoprire sempre più, nel processo stesso della nostra fede, che egli, l'uomo Gesù si manifesta a noi come Figlio di Dio; così Cristo è per noi anche la vita, perché, nella comunione con lui, partecipiamo alla vita di Dio. In questo invito sta tutto il senso della vita cristiana. Per attuare e realizzare questa vocazione, viene mandato ai credenti il Paraclito, chiamato nel quarto vangelo lo Spirito di verità. Compito suo non è di portare una nuova rivelazione, un'altra verità, distinta da quella di Gesù, ma di far comprendere, di far interiorizzare e assimilare la verità di Gesù. Cristo stesso diceva nell'ultima Cena: “Lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel mio nome, egli Vi insegnerà e vi farà ricordare tutto quello che io vi ho detto” (14,28); “lo Spirito di verità vi condurrà verso tutta intera la verità” (16, 13). La missione dello Spirito sarà dunque di far penetrare nel cuore dei credenti il messaggio di Gesù, di darne loro una comprensione personale ed esistenziale, un'intelligenza di fede.
Così si potrà sviluppare la vita nuova dei discepoli di Cristo; per S.Giovanni questa vita è una vita nella verità, una vita nella luce di Cristo. Più che ogni altro autore del NT egli insiste sul ruolo della verità nella vita dei credenti. La verità non è per lui, come per il pensiero greco, un oggetto di pura contemplazione intellettuale, ma il principio fondamentale della morale cristiana, della trasformazione e del rinnovamento dell'uomo. Perciò s. Giovanni usa molte espressioni per descrivere la funzione della verità nel comportamento e nell'agire del cristiano.
La prima cosa che si aspetta da un uomo che viene messo a confronto con Cristo e con la sua verità è che egli “faccia la verità”; questa formula biblica “fare la verità” non significa come si potrebbe pensare: vivere in conformità con la verità. “Fare la verità” comporta nel quarto vangelo tutto il processo di assimilazione della verità, il cammino del progresso nella fede, significa “far propria la verità” di Gesù, ascoltando la sua parola e contemplando la sua persona e le sue azioni. Così l'uomo entra progressivamente nel mistero di Cristo e diventa cristiano.
Ma credere non basta. Il credente deve approfondire la sua fede. E' ciò che Giovanni chiama “conoscere la verità”. Questa conoscenza profonda non si acquista in un giorno; essa si ottiene a poco a poco, col ritmo stesso dello sviluppo della fede.
Gesù diceva ai Giudei: “Se voi restate nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; così voi conoscerete la verità” (cioè voi la penetrerete progressivamente) (8, 32). La condizione è chiara: bisogna, nel pieno senso della parola, diventare personalmente discepolo di Gesù. Così si arriva ad “essere dalla verità”, come dice ancora Giovanni (18, 37; 1 Gv 3, 19); il vero cristiano è colui che ha messo la sua vita in armonia con la verità; egli vive in modo abituale nell'irraggiamento della verità, vi si ispira in tutto il suo modo di agire.
Questa esigenza è molto importante. Per essere cristiano, secondo S.Giovanni, non basta quindi accettare intellettualmente alcune verità di fede, senza impegno personale. Il cristiano vive nella verità soltanto quando egli cerca continuamente di assimilarla, per lasciarsi progressivamente trasformare da essa. E' la condanna di ogni formalismo, di ogni superficialità, di ogni cristianesimo indifferente, non autentico. La dottrina giovannea sulla verità richiede che il cristiano diventi un credente disponibile, convinto, impegnato. Il fermento, il segreto di quel rinnovamento sta nella sua conoscenza intima e personale della verità, nel suo incontro esistenziale con Cristo.
Diverse altre formule giovannee descrivono l'azione concreta dell'uomo che è stato così rinnovato dalla verità. Nei suoi rapporti con Dio, egli adorerà il Padre “nello Spirito e nella Verità(4, 23-24); la sua preghiera, ispirata dallo Spirito di verità, si farà in comunione intima con Cristo, il Figlio di Dio; sarà una preghiera filiale, il che è la caratteristica fondamentale dell'autentica preghiera cristiana. Questo progresso dei credenti nella vita dei figli di Dio è precisamente ciò che Gesù intendeva quando all'ultima Cena, egli pregava affinché i discepoli fossero santificati nella verità” (17, 17). La verità, considerata qui come la sorgente interiore della santificazione, è la rivelazione del nome del Padre; santificarsi nella verità significa dunque: vivere più profondamente la nostra vita di figli di Dio.
Questa vita è allo stesso tempo una liberazione dell'uomo. Perciò Giovanni ha scritto questa formula stupenda, profonda e misteriosa, che ha esercitato un grande fascino sul pensiero occidentale: veritas liberabit vos”, “la verità vi farà liberi” (8, 32). Il potere liberatore della verità vale in tutti i campi; l'espressione giovannea può dunque essere applicata alla verità scientifica, alla verità dell'arte e della letteratura, alla verità filosofica e metafisica. Ma è ovvio che l'autore del quarto vangelo parlava della verità religiosa, della verità cristiana. Essere liberato da questa verità ha un doppio significato, negativo e positivo. L'aspetto negativo consiste in questo; che la verità quando cerchiamo sinceramente di assimilarla, esercita su di noi un'azione purificatrice. Quando la verità di Cristo vive nel cuore di un uomo, lo libera dal peccato, diffonde in lui la serenità, la pace, la gioia, la luce interiore. Ma la verità ha anche un effetto direttamente positivo e cioè, quello di far sì che quell'uomo diventi pienamente se stesso. Anche la filosofia moderna considera come libero l'uomo che può divenire ciò che deve essere, l'uomo che può realizzare al massimo la propria personalità. Per un cristiano questo significa: realizzare la sua vocazione di figlio di Dio; la libertà cristiana è la libertà dei figli di Dio. Ora, questa libertà è il frutto in noi della verità. La verità di Cristo, infatti, è la rivelazione della paternità di Dio; vivere in questa verità ci fa necessariamente progredire nella vita dei figli di Dio.
Ma sarebbe un grande errore pensare che la verità cristiana abbia solo un effetto per la vita interiore e la santificazione personale dei credenti, cioè per i loro rapporti con Dio. Giovanni insiste anche molto sui frutti che la verità deve produrre sul piano orizzontale e comunitario dei rapporti tra gli uomini. Sono frutti di amore, di carità. Giovanni li descrive con la formula biblica: “camminare nella verità” (2 Gv 4; 3 Gv 3.4). Concretamente questa espressione significa: vivere nella carità cristiana. Ma il fatto è che Giovanni non scrive mai “camminare nella carità”, ma unicamente “camminare nella verità”. Perché? La ragione è che Giovanni vuol mostrare che l'autentica carità si pratica nell'irradiamento della verità, la quale è la rivelazione dell'amore del Padre e di Cristo. Si vede dunque che la carità non regola soltanto i rapporti umani, non è puro umanesimo od orizzontalismo; non è soltanto benevolenza o aiuto ai bisognosi, come viene concepita troppo spesso nel nostro mondo secolarizzato; per Giovanni la carità è sempre illuminata dalla rivelazione, dalla verità di Cristo. La carità autenticamente cristiana viene da Dio e porta a Dio; è caratterizzata perciò da una nota di assolutezza, di profondità, di purezza, che manca all'amore semplicemente umano. L'amore cristiano e l'amore profano si distinguono nel fatto che il primo è radicato nella verità di Cristo. Così si spiegano le formule di Giovanni “amare nella verità(2 Gv 1; 3 Gv 1), vivere nella verità e nella carità(2 Gv 4). Questo amore venuto da Dio ed esemplificato in Cristo, è radicalmente diverso dalla fìlantropia: essendo partecipazione all'amore salvifico del Padre e del Figlio, non cerca solo il benessere dell'altro, ma la sua persona, vuole entrare in comunione con lui, desidera la sua felicità integrale. L'amore cristiano, quando è autentico, è dimenticanza di sé, dono totale, perché partecipa all'assolutezza di Dio. Ecco tutto ciò che è richiesto dai cristiani che vogliono veramente “amare nella verità”.

3. Verità cristiana e pensiero moderno

Dopo aver mostrato all'inizio che senso ha la nozione di verità nella mentalità attuale, abbiamo cercato, nella seconda parte, di capire meglio che cosa sia la verità cristiana. In questa parte conclusiva vorremmo ora tentare una specie di sintesi, mostrando che l'autentica concezione cristiana della verità, approfondita con l'insegnamento della Sacra Scrittura, viene pienamente incontro alle preoccupazioni e alle tendenze migliori del mondo contemporaneo.

1. Nel pensiero moderno, l'abbiamo visto, esiste una tendenza al neopositivismo, dovuta alla prevalenza della mentalità scientifica e tecnologica. Certo, il vero positivismo, siccome non ammette la possibilità per l'uomo di conoscere realtà trascendenti, è inconciliabile con il cristianesimo. Tuttavia c'è qualcosa di valido in quella tendenza, dicevamo, e cioè l'esigenza di un cristianesimo concreto, più tangibile.
La verità cristiana e biblica corrisponde perfettamente a quell'attesa. La verità cristiana, difatti, non è un sistema teorico e astratto, ma la rivelazione personale di Dio agli uomini, che si è realizzata nella storia della salvezza con eventi e parole intimamente connessi”, come dice il Concilio Vaticano Il (Costituzione Dei Verbum, nr. 2); e quella rivelazione culmina nell'opera e nella persona di un uomo concreto della nostra storia, l'uomo Gesù: in lui e in nessun altro si trova la pienezza della verità.
E' importante oggi insistere su questa dimensione concreta, storica e cristologica della verità. Il celebre vescovo anglicano J.A.T.Robinson, nel suo libro La seconda riforma, scriveva che la presentazione del messaggio cristiano non deve più partire dall'alto, da Dio, che mandò nel mondo il Suo Figlio. Bisogna partire dal basso, dalla realtà umana; nel nostro caso, questo vuoi dire: partire dall'uomo Gesù, che visse in Palestina e che noi conosciamo dai vangeli. Presentato così, il messaggio cristiano parla molto di più all'uomo moderno che è poco metafisico ed è maggiormente attirato verso le cose concrete.
Però una cristologia che non vedesse niente altro in Gesù, se non la sua umanità, non si potrebbe chiamare una cristologia cristiana. E' importante oggi insistere su questo punto. Il cammino seguito dagli Apostoli deve essere il nostro. Anche loro sono partiti da un incontro con l'uomo Gesù; ma il loro fu un itinerario verso la fede: nell'uomo Gesù hanno intuito un mistero, hanno progressivamente scoperto il Figlio di Dio. Questa è la verità di Gesù che dobbiamo scoprire anche noi. Partire da Gesù significa che cerchiamo di partire, sì, da un dato umano, concreto, storico, che dia un fondamento alla nostra fede; ma se l'uomo Gesù è la verità personificata, è soltanto perché egli è il Figlio Unigenito, sempre rivolto verso il Padre, la rivelazione in mezzo a noi dell'amore di Dio. Così la verità di Cristo interessa anche il destino dell'uomo; anzi quella verità rivela all'uomo il senso ultimo della sua vita. Perciò la vedrà cristiana presente in Gesù diventa nel pieno senso della parola la verità nostra. E' giustissima dunque la riflessione di J.Comblin: La fede è la verità dell'uomo”.

2. Un'altra richiesta del nostro tempo è l'impegno esistenziale. Si aspetta dai cristiani che siano convinti, che siano dei credenti autentici, impegnati, uomini cioè che vivano la loro fede, come diceva Kierkegaard, con tutta la passione del loro cuore. Possiamo solo rallegrarci di questa esigenza di autenticità.
Anche questa richiesta moderna corrisponde perfettamente ai dati del vangelo sulla verità. Gesù faceva ai Giudei questo rimprovero: La mia parola non penetra in voi” (8, 37). Agli Apostoli egli diceva nell'ultima Cena che sarebbero diventati suoi discepoli se le sue parole fossero rimaste in loro (15, 7-8). La stessa dottrina riappare nelle lettere di Giovanni: per lui un vero cristiano è l'uomo nel cuore del quale la verità di Cristo dimora e che per questo conosce pienamente la verità (2 Gv 2). Solo il credente che ha così assimilato la verità di Gesù è cristiano in verità”, secondo l'espressione di Kierkegaard.

3. Infine ricordiamo l'idea pragmatistica di Nietzsche sulla verità: è vero ciò che riesce nella vita, ciò che ha valore per il progresso dell'umanità. La filosofia moderna in genere, che dà tanta importanza alla storicità dell'uomo, è fortemente propensa a dare al divenire il primato sull'essere. La formula degli antichi “veritas filia temporis” dovrebbe piacere molto ai moderni. Una tendenza analoga si può notare nella teologia attuale: essa sta riscoprendo il valore dell'escatologia cristiana; e per realizzare il futuro che si stende davanti a noi, mette l'accento sull'ortoprassi più che sull'ortodossia.
Dire che l'ortoprassi è più importante dell'ortodossia è eccessivo. D'altra parte bisogna riconoscere che il pensiero teologico dei tempi moderni ha troppo negletto l'aspetto dinamico della fede, il suo orientamento verso il futuro, la sua connessione con l'agire dell'uomo. La nozione biblica di verità può aiutarci a ritrovare in maniera equilibrata questi valori fondamentali della fede cristiana.
Secondo la S.Scrittura la rivelazione non è un tesoro inerte che la Chiesa ha ricevuto da Dio, e che deve soltanto trasmettere con fedeltà. La verità cristiana è la parola del Dio vivente; secondo la lettera agli Ebrei essa è “una parola viva ed efficace e più affilata di qualunque spada a due tagli; essa penetra fino a dividere anima e spirito, giunture e midollo, e a distinguere i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). La verità non sta solo dietro di noi, come un messaggio comunicatoci da Cristo una volta per sempre; sta anche davanti a noi, come mistero da approfondire, come compito per la nostra azione; e la realizzazione piena, lo svelamento finale della verità, si otterranno solo alla fine dei tempi. Questa è la dottrina del NT. Come lo insegna la seconda lettera di Pietro, i credenti sono già saldi nella presente verità (2 Pt 1, 12); però la parola della S.Scrittura è soltanto una luce che splende in luogo oscuro, finché spunti il giorno e si levi nei cuori dei credenti la stella del mattino (v. 19), la piena luce cioè dell'ultimo giorno. Secondo S.Giovanni, lo Spirito di verità deve guidare gli uomini verso tutta la verità (16, 13), il che suppone che la Chiesa non abbia ancora raggiunto la pienezza di comprensione e la verità. Ritroviamo lo stesso insegnamento nella Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II: La Chiesa (è) pellegrina in terra”; “la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della divina verità, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”. Non si potrebbe maggiormente sottolineare la storicità della Chiesa, la sua vocazione escatologica, il suo dovere di essere sempre in cammino verso la piena realizzazione del Regno di Dio.
Anche l'insistenza moderna sul fare, sull'agire, può e deve quindi essere accolta dal pensiero cristiano, ma sempre in riferimento alla verità di Cristo. La vita cristiana, secondo S.Giovanni, si svolge “in opere et veritate”, “nelle opere e nella verità” (1 Gv 3, 18). Il credente si ispira sempre alla verità di Cristo, ma cerca ugualmente di esprimere la verità in tutte le sue opere; esse saranno opere di luce, opere di amore. Per Giovanni, come per il Concilio che riprende le sue formule, la vita cristiana è un cammino, un progredire; ma è un “camminare nella verità”, nella luce di Cristo; ricordiamo che camminare nella verità” significa: mettere in atto la rivelazione dell'amore fattaci da Cristo, e quindi, vivere nell'amore. Questo è il segno distintivo dei veri cristiani, secondo l'insegnamento di Cristo all'ultima Cena (13, 35).
La verità richiede dunque dal cristiano non solo l'ortodossia, la fedeltà all'insegnamento ricevuto, ma anche l'ortoprassi, un agire nell'amore, per l'edificazione del Regno di Dio. Come dice molto bene il prefazio della festa di Cristo-Re, il Regno di Cristo non è solo un regno di verità”, ma anche un “regno d'amore”. Ciò che richiede la verità cristiana per la trasformazione del mondo è molto più ampio e più bello del programma della volontà di potenza di Nietzsche, più bello anche del programma che ci propone il secolarismo moderno. Come ha detto tanto bene Romano Guardini nel suo ultimo libro: “Nessun umanesimo antico, nessuna profonda intuizione orientale, nessuna moderna teoria del “superuomo”, ha mai preso il mondo e l'uomo così sul serio come la fede cristiana".

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