Don Bruno Forte. La fede e il problema della verità




FORTE: Buongiorno sono Bruno Forte e il tema di cui ci occupiamo oggi è, potrei dire, il tema di cui si occupa tutta la mia vita: Le fede e il problema della verità. In realtà, da che ho incontrato Dio, ho anche capito che la verità aveva profondamente a che fare con lui, che lui era la verità. Ma non crediate che sia così semplice, è un continuo cercare e domandarsi queste cose. Ecco perché mi sembra che la scheda che è stata preparata per introdurre la nostra riflessione, sia una scheda che ci faccia veramente pensare su questo, sull'inquietudine e la ricerca della verità e su quello che Dio e la fede in lui può significare in queste cose; vediamo questa scheda filmata.

La verità ha un posto importante nelle nostre vite: misura la corrispondenza di ciò che diciamo ai fatti o alle necessità della logica da cui non possiamo prescindere. La conoscenza del mondo, la scienza, ma anche la vita pratica, ruotano intorno alla verità. La verità ha quindi ha una grande utilità. Eppure la verità ha anche un aspetto diverso e più ampio. La verità dei fatti non è solo utile, ma testimonia anche dell'integrità degli esseri umani. Primo Levi scrisse che il rigore e la verità che egli traeva dallo studio della chimica, era un antidoto contro l'inquinamento delle menzogne del regime fascista. Il poeta polacco Herbert ha scritto dell'esigenza di esattezza nello stabilire il numero di coloro che sono morti combattendo un potere inumano. Egli ha detto che in queste cose ci vuole accuratezza. Non è lecito sbagliarsi neppure di uno, poiché noi siamo custodi dei nostri fratelli, mentre l'incertezza sui dispersi inclina alla concretezza del mondo, offusca la verità del male, spinge verso l'indifferenza. Qui la verità è fedeltà verso gli esseri umani e la falsità non è un mero errore nella rappresentazione delle cose, ma è una forma di tradimento. Il posto della verità nella fede cristiana è di questo tipo. Dio è verità, nella tradizione ebraica, poiché è fedele a ciò che promette, alla sua parola che promette salvezza. Ma la verità di Dio va oltre il bene umano. Non è la fedeltà agli esseri umani, ma a Dio, che è in questione. E qui non è forse tutto possibile? La verità di Dio può illuminare la nostra visione, ma la può anche accecare, come è accaduto nella lunga storia di conquiste e di morti, nel nome del Dio cristiano. Come scorgere la verità di Dio da quella inautentica?

STUDENTESSA: Quali sono i motivi che possono portare una persona ad allontanarsi dalla fede, da questa verità a non credere più nella verità della fede appunto?

FORTE: Ma credo che la grande domanda che ci tocca tutti, la vera domanda che è nel nostro cuore, è la domanda dell'infinito dolore del mondo. Ciò che può mettere in dubbio la fede in Dio è lo scandalo della sofferenza, E credo che questa sia la domanda a cui nessuno di noi si può sottrarre. Io penso che nella vita troveremo risposte vere, quando avremo domande vere. Quando saremo stati capaci di sopportare il peso della domanda della sofferenza, soprattutto della sofferenza degli innocenti, degli umili, dei poveri, allora sentiremo anche la serietà della domanda su Dio. E poi arrivare a Dio significherà anche una scelta, un rischio, un atto di abbandono in qualcuno nel cui amore tu credi nonostante lo scandalo della inevidenza di questo amore. Almeno penso così.

STUDENTESSA: Cosa intende nel Suo libro: Confesso ai teologi quando dice che il pensiero del teologo non è totalizzante, pur essendo comunque complementare al filosofo.

FORTE: Che la verità non è qualcosa che si possiede, un oggetto di cui si possa disporre, come questo microfono che hai in mano. La verità è qualcuno da cui lasciarti possedere. Forse - ecco, diciamo anche - un mistero più grande a cui consegnarti. E allora io non dispongo della verità, io osservo la verità. E servire la verità è, mi sembra, l'atto più onesto che la nostra intelligenza, la nostra ragione possa compiere, perché significa corrispondervi, non dominarla, e significa restare in un atteggiamento di stupore e di umiltà davanti agli altri, davanti alla vita. Tu per me sei importante perché sei portatrice della verità. Se io pensassi di possedere la verità, allora considererei gli altri, tutto sommato, come superflui rispetto alla mia ricerca; se io so che la verità mi supera sempre e che io ne sono un servo, allora chiunque mi viene incontro è in qualche modo un messaggero della verità e la mia fatica è di ascoltarlo e di ascoltare la voce del profondo, che, attraverso di lei o di lui, mi raggiunge.

STUDENTESSA: Nel corso della storia, secondo Lei, l'uomo sta progredendo nella ricerca e nel possesso della verità, oppure crede che ci sia un regresso, soprattutto in questi ultimi tempi; cioè, si può essere ottimisti riguardo al progresso della spiritualità dell'uomo, della ricerca personale delle singole persone, o c'è un regresso, una crisi?

FORTE: Ma guarda noi veniamo da un'epoca nella quale c'era una sorta di ottimismo del progresso, l'epoca delle grandi ideologie, di queste grandi narrazioni che spiegavano tutto, che spiegavano il mondo. Queste narrazioni hanno dimostrato una tale potenziale violenza nelle loro realizzazioni storiche, che - mi sembra - oggi la grande tentazione è non avere più speranza, quindi non credere più nella possibilità di quello che dicevi, cioè che si possa progredire nel cammino verso le verità. Io credo che alla fine la verità è qualcosa e qualcuno che continua a inquietarci tutti. Dunque si potrà essere sia l'una che l'altra cosa, perché è la Tua scelta che Ti apre o Ti chiude alla verità, è la nostra scelta. Noi siamo responsabili verso la verità. Cioè io stesso che ho detto che la verità è qualcuno da servire, non qualcosa da possedere, Ti dico però che noi tutti - tu, io, ciascuno di noi - abbiamo una responsabilità vero la verità. La verità è l'etica, per dir così, la verità e la responsabilità per gli altri sono inseparabili. E dunque dipenderà molto da come decideremo di vivere le nostre vite, se progrediremo personalmente insieme verso al verità, o, com'è successo in questo secolo breve, il Novecento, conosceremo dei vertici di barbarie. Pensate agli stermini, all'olocausto, ai genocidi, alle guerre tecniche che continuano a riempire purtroppo la faccia della terra. Nonostante questo, io continuo a essere un ottimista, un uomo di speranza, ma non è l'ottimismo ingenuo dell'ideologia. L'ottimismo di credere, nonostante tutto, nelle possibilità dell’uomo, di scommettere, perché credendo in Dio, credo nell'uomo. Il vero problema è che quando non si crede in Dio diventa anche molto faticoso credere nell'uomo.

STUDENTESSA: Le volevo chiedere dei chiarimenti riguardo alla figura negativa, che Lei dà all'ateo, nel suo libro Confesso ai teologi, dove lo paragona a un uomo che barcolla nel buio, che non ha una fede in Dio e quindi non ha fede neanche in se stesso.

FORTE: Ma guarda io voglio più bene all'ateo di quello che queste tue parole potrebbero far pensare, perché distinguo due forme di ateismo. Distinguo l'ateismo di chi soffre dell'assenza di Dio, cioè l'ateo pensoso. In questo senso, non ti sorprendere, ma in qualche modo io stesso credente, penso di essere un po' ateo, perché il credente, in fondo, è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Cioè voglio dire: io non sono un arrivato. Sono un pellegrino. Vedi, lì ci sono delle scarpe, le ho scelte come segno per dire che nella verità si cammina, verso la verità si cammina sempre. Allora, se anche il credente è un pellegrino verso la verità, in fondo è un povero ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. In questo senso l'ateo è qualcuno che io profondamente amo, rispetto, perché mi riconosco. Nello stesso tempo qual’è l'ateo del quale in qualche modo penso le cose che tu dici? È l'ateo che non pensa, come il credente che non pensa, cioè quello che non si pone più domande, quello che non consuma le scarpe sulla via della verità, per continuare a cercare, a porsi domande, quello che si sente un tranquillo, un arrivato. In fondo nel farmi questa domanda, tu hai dimostrato di essere una persona in ricerca. Ecco auguro tutti di esserlo sempre tutta la vita, perché, nel momento in cui ci sentiremo arrivati, non penseremo più. Atei o credenti che saremo, in quel momento saremo dei cadaveri ambulanti. La verità è l'inquietudine permanente del cuore in ricerca ed è la possibilità del mistero, che accoglie questa inquietudine. In questo senso è per me credente, il Dio vivente, quel Dio che si è rivelato in Cristo, che si è fatto anche lui nella storia pellegrino, anche lui ha consumato delle scarpe.

STUDENTESSA: Nel materiale che Lei ci ha inviato fa la distinzione fra verità del mondo greco e verità nel mondo ebraico-cristiano. Lei afferma che la verità greca è un processo che spesse volte può implicare la violenza. Noi abbiamo portato un testo di Aristotele, come esempio di quella che è la concezione della verità come processo, che non ci sembra implichi questa violenza. Ci può spiegare?

FORTE: Sì, io facevo una distinzione fra l'ebraico, che è la lingua dell'Antico Testamento, come sai, e dove non esiste la parola "verità". Verità in ebraico si dice emet, che significa fedeltà, e il greco, dove verità si dice aleteia. Aleteia letteralmente viene da lantano, che significa nascondo, con l'alfa privativa davanti significa tolgo il nascondimento, esibisco alla visione. Dunque per il greco la verità è qualcosa che si vede e, nella visione, si possiede. Tant'è vero che l'idea viene da id orao, che significa appunto vedere. Allora qual'è il rischio delle due visioni, delle due concezioni della verità? Il rischio, non dico la possibilità, perché un capolavoro come l'etica nicomachea dimostra appunto che non sempre e necessariamente questo avviene, che, quando si concepisce la verità come visione, la si concepisca anche come possesso, come dominio. Cioè, se io conosco la verità, io domino la verità e dunque ho il diritto anche di giudicare il mondo e la vita secondo la verità che penso di possedere. E questo produce violenza, produce quella che un grande filosofo della modernità, Nietzsche, chiamava la volontà di potenza, il dominio cioè che nasce da questa presunzione nella verità. Questo è più difficile che avvenga nella concezione ebraica, dove, essendo la verità un rapporto, io devo continuamente corrispondere all'altro, cioè l'altro non è qualcosa, o anche qualcuno, di cui disporre, ma anche qualcuno a cui corrispondere. Questo non significa che anche nella concezione ebraica non si possa produrre violenza. Ci sono tante scene, anche della storia biblica, in cui la violenza si esprime. Ma significa però che la concezione dell'emet ti tiene, come dire, più attento a corrispondere all'altro. Chiaramente ogni classificazione generale rischia di essere incoerente. Vorrei dire, se aveste capito, dalle mie parole, una sorta di svalutazione o di disprezzo di un messaggio, come quello dell'etica nicomachea, io Vi dico che non è così, insomma. C'è un profondo rispetto per questa ricerca dell'uomo, che non m'impedisce però di pensare che ci sia anche un rischio, da cui nella storia sono state prodotte le grandi visioni totalitarie del mondo.

STUDENTESSA: La fede si può considerare come qualche cosa che si ha, oppure qualche cosa che si acquisisce con il tempo?

FORTE: Ti risponderei a due livelli: un primo molto personale, quello che è successo a me, un secondo un po' più filosofico, più teoretico. Sul piano personale, a un certo punto della mia vita, io ho conosciuto la cosiddetta "caduta da cavallo" - si dice così, dall'immagine di San Paolo che si converte sulla via di Damasco -, cioè mi sono sentito afferare da Dio, dalla sua presenza, dal suo mistero, e ho sentito il mio cuore inondato da un senso di pace, di libertà, di luce, che non ha escluso mai l'oscurità, la notte, l'inquietudine, la ricerca, pur sapendo di essere però come custodito in un mistero più grande. Dunque le parole che sto dicendo sulla verità, che ti possiede e che non si possiede sono l'esperienza della mia vita di ogni giorno, un affidarmi all'altro. Da questo vengo anche ad una riflessione più speculativa: Schelling - un grande filosofo dell'idealismo tedesco – ha scritto la Filosofia della rivelazione, dove in qualche modo denuncia e abbandona quello che era il suo sistema dell'idealismo, perché dice: "Una verità di cui noi disponiamo, che noi già possiamo conoscere per intero è una verità che non è più sorpresa, meraviglia. Dobbiamo arrivare allo stupore della ragione, cioè a questa ragione che, esercitata fino in fondo, spinta fino in fondo, arriva su un abissum, eccessum, insondabilità." Ecco lo stupore della ragione di Schelling mi sembra la grande condizione per aprirsi anche al possibile avvento dell'altro nella tua vita, che è la fede. Dunque, da una parte puoi essere la cercatrice del mistero, aprirti nell'umiltà e nello stupore verso l'altro, dall'altra è l'altro che ti raggiunge. Questo è, in qualche modo, il salto della fede. Che differenza c'è in questo senso fra filosofia, esercizio della ragione e fede? La filosofia è l'esercizio dell'interrogazione radicale. Come tale, una filosofia spinta fino in fondo, non ti acquieta mai. Ti porta sempre a porre domande e ti porta a vivere in modo sempre nuovo lo stupore davanti al paradosso d'esistere, a questo mistero che è la vita. Dall'altra parte la fede è questo riconoscere che l'indicibile altro è venuto a te, si è detto nel paradosso di quell'abbandono della croce. C'è una scena qui, eccola la vedete, è una scena in cui ci sono due mani, che si vengono incontro. Sapete tutti di che cosa si tratta, della splendida scena, che vediamo nella Sistina: sono le mani dell'uomo e di Dio. È una scena bella perché fa capire come alla ricerca dell'uomo, questo dito puntato, a quest'attesa, a questo bisogno corrisponda qualcuno che ti viene incontro. Ecco, lì nasce la fede, dove l'esodo, cioè la condizione umana di pellegrino ricercatore viene visitato dall'avvento, da qualcuno che viene a te, di cui tu non disponi, a cui corrispondi nel servizio, nell'obbedienza della verità.

STUDENTESSA: Come può essere la fede un appiglio, se prima di tutto è mancanza di certezza, se comunque Dio è qualcosa che noi non possiamo né vedere né toccare. Cioè, noi ci confrontiamo con il silenzio, non risponde nessuno alle nostre preghiere. Mi chiedo come può essere un appiglio.

FORTE: Penso che la certezza della fede non sia mai una certezza facile, se è vero quanto ho cercato di dire, che non è mai un possesso, ma è, caso mai, un tentare di essere posseduti dall'altro. Un po' come nell'amore. Nell'amore per quanto tu ami molto e abbia come una sorta di certezza che ami e che l'altro ti ama, sebbene questa è una certezza che non è mai una certezza risposante - l'amore non è mai un essere arrivati -, bene, la stessa cosa vale nella esperienza di Dio. C'è certamente una grande certezza. Io la chiamo custodia, cioè è come se tu sapessi di essere custodito in un grembo più grande. Pensa che i mistici, cioè quelli che hanno fatto una esperienza esistenziale molto grande del mistero di Dio, dicono che Dio è come il grembo di una madre, cioè come il bambino che è nella notte del grembo materno, così noi siamo nel grembo di Dio. Questo significa che noi non lo vediamo Dio - il bimbo non vede la madre se non quando nascerà -, ma siamo come nutriti da lui, siamo in relazione lungo questa notte del mistero. Ecco questa è la certezza della fede: un essere abbandonati nell'altro, che non toglie nulla alla fatica di cercare. E poi dicevo una cosa sul silenzio. Ma io penso che il silenzio può esser due cose: può essere il silenzio del mutismo dell'amore, quando tu non hai niente da dire perché non ti interessa. Ma c'è anche un silenzio che è la pienezza dell'amore. Io non credo che Tu col Tuo ragazzo stai sempre a parlare. Ci sono momenti dove si sta in silenzio. È bello stare vicini, in silenzio. Ecco, credo che quel silenzio abbia un'eloquenza più alta. Allora nella fede esistono le due possibilità: il silenzio nel mutismo, cioè di una verità che non ti interessa più, e il silenzio della ricerca. Perciò la fede deve esser sempre nuova. C'è un testo di Pasolini, che mi piace citare proprio perché è una fonte che sembrerebbe assolutamente altra, estranea a certi discorsi, che parla di una fede di "un Cristianesimo che marcisce quando non è capace di farsi sempre nuovo", e di "un Cristo che è irriducibile", anche tutte le nostre parole, una sorta di eccedenza, dunque di silenzio dell'ulteriorità del silenzio. Mi sembra che sia stato preparato e possiamo addirittura ascoltarlo questo testo di Pasolini.

Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca, la ceralacca polvere, la polvere omissis. Non una parola o un accento o uno sguardo. Ah, uno sguardo! Sono cristiani, per ci ha l'abitudine, certo, e un po' angosciosa, di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda. Mmh, dolce religione, del resto tante volte tradita nell'uomo in cui tu ti sei inaridita! Nasce la pazzia. I suoi occhi non osano guardare, c'è in essi il rovescio della luce. La faccia sbianca. Esempi di chiazze rosse, perverse. L'io soffre. Ha per sé un amore infelice. E allora? Davanti a queste anime, il male è l'unica realtà. Dove il Cristianesimo non rinasce, marcisce. Le contraddizioni mille volte, mille volte illuse, dal mio Cristo irriducibili, finisce difeso da qualche erodiano impazzito, ma privo di senso del ridicolo.

FORTE: "Dove il Cristianesimo non rinasce marcisce". Mi sembra che queste parole di Pasolini siano di una straordinaria forza e forza di verità. Il Cristianesimo, se non è un possesso ideologico della verità, ma è un servire la verità dell'altro che viene a te, ogni giorno ha bisogno di rinnovarsi in questa ricerca della verità. Ecco perché ho parlato del pellegrinaggio della ricerca, le scarpe. Abbiamo visto anche l'immagine dell'incontro. E, vorrei dire, il luogo, dove questo incontro sempre nuovo con la verità si fa, è l'amore. Una terza immagine, che mi è sembrato bello scegliere, è quella emblematica un po' del nostro tempo, di madre Teresa di Calcutta, proprio per dire come, al di là di tutte le parole, c'è una possibilità di incontrare in maniera nuova, sempre nuova, la verità, quando ci si incammina nell'esistere per gli altri, nel compromettere la propria vita al servizio degli altri. La verità ti raggiunge e ti cambia dentro.

STUDENTESSA: In che senso Lei afferma che Dio, rivelandosi all'uomo, allo stesso tempo si tace.

FORTE: Ma questo è un tema centrale della riflessione, che sto portando avanti ormai da tanti anni. Devo dirVi un paio di parole un po' complesse. Dunque, la prima è offenbarung e la seconda è apocalipsis revelatio. Cerco di spiegarmi. Offenbarung è la parola tedesca per dire rivelazione. La parola che sceglie Lutero e che percorre l'intera filosofia degli ultimi secoli. Pensate a Hegel, che concepisce il Cristianesimo come la religione da offenbarung e la filosofia come l'esplicitazione di questa offebarung. Ma che significa offenbarung? significa aperto. Offenbarung vuol dire apertura totale, manifestazione totale. Cioè, nella concezione della filosofia hegeliana, Dio si dice totalmente, si manifesta, si comunica senza riserve. Ora, da principio, nella tradizione cristiana, non è così. Perché? perché il Cristianesimo è religione della apocalipsis;, la parola greca che in latino si traduce re-velatio, rivelazione, e che in realtà significa due cose. Re-velare vuol dire togliere il velo, ma anche ispessire il velo, renderlo più profondo. A me sembra che sia molto importante ritornare a questa concezione originaria, perché questo ci libera da ogni riduzione ideologica del Cristianesimo, dal fare il Cristianesimo un'ideologia. Il Cristianesimo è sempre da una parte comunicazione dell'altro a noi, la rivelazione in Cristo, la parola in Dio, ma anche un più alto tacere di Dio, cioè la parola attraverso la quale entrare negli abissi del mistero. C'è un mistico, Giovanni Della Croce, che dice: "Il padre pronunciò la parola in un eterno silenzio ed è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli uomini". Ecco, mi sembra che questo è il riscoprire un Dio che si dice e che si taccia, e questo dona alla nostra fede, alla fede dei cristiani, una grande libertà dalla presunzione e dall'intolleranza, che sono una malattia sempre possibile in un'esistenza di fede. Sai, quando tutta la vita hai a che fare col sacro, col religioso, rischi, a un certo punto, anche di sentirtene un po' proprietario e padrone, e non servo. E la storia dimostra come l'intolleranza e la violenza spesso siano state motivate anche da scelte religiose. Il che è una contraddizione radicale, almeno col Vangelo cristiano. Ma è avvenuto, dunque può sempre avvenire. Ecco perché dovremmo avere sempre la coscienza di una verità che ci supera, di uno stare in ascolto, in ricerca dell'altro.

STUDENTE: Fino adesso abbiamo citato la verità classica, portando ad esempio l'etica nicomachea, abbiamo citato la verità filosofica, però, secondo me, abbiamo tralasciato la cosa più importante, cioè le parole di Gesù, che dice: "Io sono la via, la verità e la vita, e nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". Ora, io sono profondamente credente e sono un cristiano evangelico. Per questo, appunto, ritengo questa la cosa principale: chiunque si vuole accostare alla verità deve seguire queste parole.

FORTE: Sono pienamente d'accordo con Te, anche se, pur non avendo citato il testo di Giovanni che Tu citi, mi sembra di essermi continuamente riferito a esso, quando dicevo che la verità non è qualcosa, ma qualcuno. Colloco un attimo dal punto di vista culturale queste parole. Con l'Illuminismo si è stabilita una distinzione, che è stata molto importante, fra le verità di ragione e le verità di fatto. Si diceva le uniche verità universali necessarie sono le verità di ragione. Questo ha dato un'enorme spazio all'ideologia moderna, con tutte le sue espressioni anche di violenza. In realtà il Cristianesimo, legato a un povero uomo, crocifisso su un palo della croce duemila anni fa, sembrava una verità impossibile, perché è una verità troppo volgare, troppo concreta. Che cosa riscopriamo, proprio al culmine di questa parabola delle avventure ideologiche, anche impazzite della modernità? Che è proprio invece l'universale concreto, cioè la verità che si dice nelle persone, nei volti, nel momento in cui riscopriamo questo, ritorniamo a quella concretezza evangelica di cui tu parli, cioè capiamo come la verità si possa veramente dire in qualcuno. Io ho portato qui con me un piccolo testo, che vorrei leggervi, che mi sembra molto bello, di una ragazza ebrea, morta in campo di concentramento ad Auschwitz, una ragazza che purtroppo è poco conosciuta, perché il suo Diario è stato pubblicato dopo tanti anni, e in Italia è edito dalla Adelphi. La ragazza è atea quando scoppia la guerra. Incontra Dio, con l'aiuto anche del Vangelo, durante la guerra, di fronte alla violenza che si è scatenata e anche alla persecuzione del suo popolo. Ha la possibilità di fuggire da Amsterdam e di salvarsi. Lei sceglie di consegnarsi alla Gestapo e di essere portata in campo di concentramento. Perché? Perché ha capito una cosa fondamentale. Ha capito che - dice -: " ... non è Dio che deve aiutare noi, siamo noi che dobbiamo aiutare Dio e aiutarlo nel cuore dei nostri fratelli". E scrive, il 12 Luglio 1942 queste parole - Ve le leggo perché è una ragazza poco più grande della Vostra età, che ha capito queste cose e le ha pagate con la vita -: "Mio Dio sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio, con gli occhi che mi bruciavano. Davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma, a priori, non posso promettere nulla. Una cosa però diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e che in questo modo aiutiamo noi stessi. Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo, quando viene la Gestapo, quando vengono le SS, aspirapolveri, forchette, cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio Dio, e altre persone che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: "Me, non mi prenderanno". Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno, se si è nelle tue braccia". Io credo che poche parole potrebbero dire con tanta forza che cos'è la verità di cui stiamo parlando. Non - ancora una volta - un oggetto da possedere, ma qualcuno più grande di te, che ti accoglie e che si fa così umile dal voler essere aiutato da te nel cuore degli altri.

STUDENTE: Socrate dice che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall'uomo. Ora la ricerca che dovrebbe fare l'uomo è quella di arrivare alla verità. Gesù d'altra parte dice che è lui la verità. Ecco io mi chiedevo se solo Gesù è l'itinerario da seguire, per arrivare alla verità, o esistono altri valori, morali o etici, che ci possono aiutare a raggiungerlo. Grazie.

FORTE: Ma, è una domanda molto grossa questa. Anzi tutto Ti rispondo con una risposta di altri. Qualche amico, qualcuno dei pensatori, forse anche di quelli che sono stati qui o in trasmissioni analoghe a queste, a volte afferma che senza Dio diventa impossibile fondare un'etica, dunque che la verità sarebbe soltanto possibile se c'è un fondamento ultimo. Ecco io non arrivo a dire questo, perché dire questo significherebbe escludere la possibilità che tanti cercatori del mistero con onestà si aprono agli altri. Io però dico una cosa - e su questo sono veramente convinto - che non si va verso la verità, se non uscendo da se stessi, in un movimento di autotrascendenza. Insomma non c'è verità senza l'incontro con l'altro. Questo incontro con l'altro può aprirti come traccia un più profondo mistero dell'altro, che ti porta anche al mistero di Dio. Cristo, invitandoci a seguirlo soprattutto nella via dell'amore e nel compromettere la nostra vita per gli altri, ci ha fatto capire che la verità tu la trovi soltanto quando vivi questo esodo da te senza ritorno. Allora mi chiedi: come cercare la verità? La mia risposta è questa: con tutta la passione di un'intelligenza che pone domande, anche con tutta la forza di un cuore che accetta di compromettersi realmente per gli altri, soprattutto per i più piccoli e i poveri della storia. Su questa strada cercherai. E io penso che la verità non potrà non venirti incontro.

STUDENTE: Sul sito Internet dove adesso mi trovo ci sono riflessioni molto interessanti, tra dogmi e verità a finestra verso l'infinito. Secondo me l'uomo non può partire da riflessioni esterne, sulla verità e sulla conoscenza appunto, però, come ha detto Lei stesso, all'inizio della puntata, se parto dalla coscienza, questa verità divina viene deformata, non è più verità. Lei ha detto che la verità deve partire dalla persona, dalla coscienza. A me sembra che però così si deformi, la verità non sia più divina, ma umana.

FORTE: Ma guarda Agostino, che è stato un grande cercatore della verità scrive ne Le confsessioni : " Quando vuoi cercare la verità non uscire fuori, entra in te stesso. Nell'interno, nel profondo dell'uomo troverai". Con questo Agostino non vuol dire che la verità è semplicemente un pezzo del tuo cuore, una dimensione del soggetto. Vuol dire però che noi dimoriamo nel mistero più grande. E allora, scendendo in profondo nel nostro esistere, pensando - perché questo è pensare, è superare l'evidenza, il paradosso dell'evidenza e scendere nel profondo del mistero dell'esistere, bene, lì la verità t'aspetta e t'accoglie come l'altro che parla al cuore del tuo cuore. Dunque non è una soggettivizzazione della verità l'invito a partire dalla coscienza della persona, ma è, direi, l'unico luogo dove l'uomo può incontrare la verità, è anzi tutto la propria coscienza, il proprio pensare, perché è lì che si compiono anche le grandi scelte della sua vita. E questo naturalmente nel rapporto con gli altri, in quell'esodo da sé senza ritorno, di cui prima avevamo detto qualcosa. Le Vostre domande in fondo Vi hanno mostrato come ricercatori della verità, come lo sono anch'io, e nello stesso tempo come persone che probabilmente la verità ha cercato e cerca. A questa verità io mi sono arreso, ma questo mi ha reso, non meno, ma ancor più cercatore di essa. Questa è la verità di Dio, coma la fede, mi sembra, la proponga, almeno la fede cristiana, di cui in qualche modo io sono, con tutte le mie inquietudini, un testimone, perché credo che la verità si sia detta in Gesù Cristo e si sia detta sull'albero della croce del risorto.

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