La luce nascosta di Hannuka
Qual’è il significato di Hannukà?
Oltre duemila anni fa il mondo intero considerava la civiltà greca come la suprema cultura cui l’umanità potesse ambire. Tutti tranne il popolo d’Israele che riteneva di essere il portatore di una cultura ancora superiore. Il verso descrive infatti l’elezione del popolo ebraico: “E D-o farà di voi il popolo più elevato tra le genti della terra” (Devarim 26,19). La parola “elyon” (superiore, elevato) si può anche pronunciare “al yavan”, ovvero anche “superiore alla Grecia”. La cosa evidentemente non piaque ai greci al punto che, caso unico tra tutti i popoli conquistati, anzichè incorporarli nel proprio pantheon culturale, decisero di distruggere la nostra religione. I decreti che emanarono furono disegnati con lo specifico scopo, non di annientarci fisicamente, ma di minare le fondamenta dell’ebraismo: l’osservanza dello Shabat e delle feste, la purezza familiare, il brit milà (circoncisione) e lo studio della Torà. L’epilogo, doppiamente miracoloso, è noto. L’esiguo esercito ebraico formato da un manipolo di studiosi della Torà improvvisatisi militari si ribella e sconfigge la gremita ed organizzata schiera di soldati professionisti dell’impero greco. I cohanim (sacerdoti) entrano nel Tempio e trovano un ampolla d’olio non contaminato sufficiente per accendere la menorà (candelabro) per un solo giorno. Miracolosamente i lumi rimangono accesi per otto giorni. Ma la storia di Chanukà inizia, in un microcosmo, cent’anni prima. Non come scontro tra due nazioni, ma come incontro tra due individui. Alessandro Magno, allievo di Aristotele, è il “capostipite” della futura potenza greca. Nella sua campagna militare si stava recando a Gerusalemme quando alcuni ebrei ellenizzati lo raggiunsero per descrivere il Tempio di Gerusalemme come un covo di reazionari. Alessandro Magno vi credette e decise di raderlo al suolo. Shimon Ha-Zaddik, il Cohen Gadol (Sommo Sacerdote) e leader degli ebrei decise di incontrarlo per cercare di placarlo. All’uscita di Gerusalemme, appena Alessandro vide Shimon Ha-Zaddik vestito con l’abito sacerdotale, compì un atto che mai aveva compiuto e mai più avrebbe ripetuto nella sua vita. Scese dal suo carro imperiale e davanti agli occhi sbigottiti sia dei greci che degli ebrei s’inginocchiò ai piedi del Cohen Gadol. “Perchè un imperatore come te s’inginocchia davanti ad un semplice ebreo?” chiesero i suoi soldati. “La notte prima di ogni battaglia mi è sempre apparso in sogno un santo individuo che mi esortava alla vittoria e nel cui merito ho conquistato mezzo mondo. Fino ad oggi non sapevo chi fosse, ma ora lo so: Shimon Ha-Zaddik!”. Gli storici greci non riportano ovviamente questo incidente, perchè non lo vogliono ammettere. L’episodio viene invece descritto dal Talmud (Yoma). Ma vi è una radice ancora precedente. Duemila anni prima anzichè l’incontro vi è il confronto tra due individui. Noach (Noè) scende dall’arca dopo il diluvio. Pianta un vigneto, produce del vino e ubriacatosi si addormenta in uno stato “sconveniente”. Allertati dal fratello Cam che nota l’incidente, Shem e Yafet entrano assieme nella tenda camminando all’indietro per non vedere la nudità del padre e lo coprono con una coperta. Il verso utilizza sorprendentemente il singolare anzichè il plurale: “E prese Shem e Yefet una coperta...” (Bereshit 9,23). Rashi spiega che la Torà vuole evidenziare ciò che ha fatto Shem, progenitore degli ebrei, rispetto a quanto ha fatto Yefet, progenitore dei greci. L’atto apparentemente identico e simultaneo dei due fratelli ha quindi una connotazione completamente diversa: Shem ha considerato la propria azione come una mizvà e Yefet no. Ma qual’è la differenza? In fin dei conti entrambi hanno compiuto una buona e corretta azione. Rashi spiega che il “pagamento” di questo atto avverrà molti anni dopo: per aver coperto il padre, i discendenti di Shem saranno benedetti con la mizvà di coprire il proprio corpo con il talet e zizit, mentre i discendenti di Yafet meriteranno di coprire i propri corpi con una degna sepoltura. Vi è quindi qualcosa in Shem che non c’è in Yefet. Ma cosa?
Vi è una radice ancora precedente. Mille anni prima, il primo giorno della Creazione: “D-o disse: sia luce, e luce fu” (Bereshit 1,3). Il sole e gli astri furono creati solo il quarto giorno. Come può esserci luce senza sole? La risposta è che esistono due fonti di luce, una creata il primo giorno e l’altra il quarto. La prima è l’essenza degli ebrei, mentre la seconda è l’essenza dei greci. E questa differenza caratterizza il confronto tra Shem e Yefet, l’incontro tra Shimon Ha-Zadik e Alessandro Magno e lo scontro tra l’esercito ebraico e quello greco durante la storia di Chanukà. Proviamo a capire. Entrambe le luci sono caratterizzate da bellezza. Conosciamo bene il concetto greco di estetica, ma cosa ne pensa l’ebraismo? Venerdì sera, al tavolo di Shabat cantiamo Eshet Chail (la donna di valore). E diciamo: “La bellezza è falsità e vanità, ma una donna che teme D-o è virtuosa”. Sembrerebbe quindi che per l’ebraismo la bellezza non abbia valore. Ma non è così. Anche noi siamo preoccupati della bellezza. Sara Imenu e Rachel Imenu vengono descritte come “di bella apparenza”. Non certo un insulto, ma una virtù. Così come vengono definiti di bell’aspetto Yosef Ha-Zaddik (Giuseppe), Shaul Ha-Melech (Saul), David Ha-Melech e altri personaggi biblici. Nell’alachà esiste addirittura una berachà (benedizione) da pronunciare quando si vede una persona di estrema bellezza. Rambam (Maimonide) aggiunge che attraverso la contemplazione della bellezza della natura si giunge a comprendere la grandezza del Creatore. Anche noi quindi apprezziamo la bellezza. Ma come si spiega il verso di Eshet Chail? Esiste la bellezza come la vede la Torà e come la vede il resto del mondo. La parola ebraica per volto, Panim, è scritta allo stesso modo di quella per interiorità, P’nim. Esiste quindi una stretta relazione tre i due aspetti. Ed è proprio questa la differenza tra il concetto di bellezza greco e quello ebraico. Se la bellezza è esclusivamente esteriore, per noi non è bellezza. Ma se la bellezza esteriore riflette la bellezza interiore di una persona “che teme D-o”, questa sì che è vera bellezza. Gli esempi abbondano: venerdì sera prepariamo due challot (pani), che rappresentano una bellissima idea e sono di bell’apparenza. La sinagoga deve essere bella, perchè le preghiere sono belle. Chiameremmo bella una sinagoga in cui si chiacchiera anzichè pregare? No. O un bellissimo tavolo di Shabat in cui non si parla di Torà e non si cantano zemirot? No. Shlomo Ha-Melech (Re Salomone), l’uomo più saggio della storia, descrive questa aberrazione come “un gioiello sul naso del chazir” (Proverbi 11,22). Non solo il chazir diventa ridicolo, ma anche il gioiello stesso perde il suo valore. La luce del sole permette solo di illuminare la superficie, ma non può penetrare. È una luce superficiale che permette la visione. Ma esiste un’altra luce, non naturale ma supernaturale, che permette di vedere al di là della superficie. Ovvero permette di comprendere che il mondo ha significato e direzione. Trattandosi di una luce preziosa che molti individui in futuro non meriteranno, D-o decise di ultizzarla solo per il primo Shabat della Creazione per poi ritirarla e nasconderla. Ma tra la creazione dell’uomo, avvenuta il sesto giorno, e Shabbat avviene un altro fatto. D-o presenta tutti gli animali davanti a Adam Ha-Rishon, il quale, con l’aiuto della luce interiore, dà il nome ad ogni specie. Ma perchè è così speciale dare il nome agli animali? Il nome ebraico di ogni animale descrive esattamente la natura dell’animale stesso. E Adam Ha-Rishon, fornito di questa luce particolare, la comprese. Tornando a Shem e Yefet, entrambi capirono che il corpo umano è speciale e degno del massimo rispetto. Ed entrambi compresero la necessità di coprirlo. Shem (che significa proprio nome, ovvero essenza) comprese che la bellezza del corpo umano è Zelem Elokim, immagine e somiglianza del Creatore. Ovvero la neshamà (anima) che è l’intrinseca bellezza. Yefet voleva invece solo preservare l’estetica del corpo del padre, ma non si preoccupava dell’anima. La radice della parola Yefet è infatti “Yofi”, bellezza esteriore. Ma come comprendiamo il nesso tra l’azione e il premio menzionato da Rashi? Osserviamo la mizvà di zizit, che originalmente comprendeva il techelet, il filo azzurro: guardandolo ci ricorda il mare, pensando al mare ci viene in mente il Cielo e soffermandoci sul Cielo fissiamo la nostra attenzione sul Kissè Ha-Kavod (il Trono Celeste). Ovvero la comprensione dell’essenza dell’oggetto al di là della mera fisicità. Yefet era solo interessato alla bellezza del corpo e non all’anima. E cosa si fa con un corpo senz’anima? Lo si sepellisce. Possiamo così comprendere l’incontro tra Shimon Ha-Zaddik e Alessandro Magno. Mentre al momento della Creazione i vestiti vengono descritti come necessità per coprire la nudità che provoca vergogna, vi è un’unica Parashà in cui vengono descritti in modo positivo: i vesiti del Cohen Gadol. Ramban (Nachmanide) dice che il Cohen Gadol è una persona che compie una funzione bellissima e quindi ha bisogno di un bellissimo vestito. Ed è questo il messaggio che Shimon Ha-Zadik trasmise ad Alessandro Magno. Quando questi vide la bellezza accompagnata da santità, si inchinò perchè comprese la superiorità della bellezza ebraica. E comprese che il ruolo della Grecia è solo quello di dimostrare che esiste una bellezza ancora superiore. Gli ebrei sono i portatori della luce del primo giorno accompagnata dalla luce del quarto. Ma cos’è la luce del primo giorno? Rashi spiega che non solo sarà apprezzata dai Zadikim del Mondo a Venire, ma esiste anche in questo Mondo, nella Torà. Chi s’impegna nello studio e nell’osservanza della Torà con dedizione e profondità è in grado di vedere il Mondo con la prospettiva corretta. La radice di Torà è infatti Luce. Ed è questa la battaglia di Chanukà che caratterizza il Mondo dalla sua Creazione fino ad oggi. Lo conferma il fatto che la somma delle candele di Chanukà è 36, che non solo corrisponde ai 36 trattati del Talmud, ma corrisponde anche al numero di ore che Adam Ha-Rishon visse prima che questa luce venisse ritirata. Lo battaglia è attuale oggi come nel passato. Con l’augurio che le luci di Chanukà permettano di fare chiarezza nelle nostre vite ricordandoci qual’è il nostro autentico ruolo di ebrei, illuminando così l’oscurità che ci circonda.
Michele Cogoi http://www.jewishlife.it/JL23_2.html
La Hanukkah dei patriarchi
Rav Riccardo Di Segni
Secondo un principio stabilito dai Rabbini del Talmud, "i Patriarchi biblici osservarono l'intera Torà (che non era stata ancora promulgata), conoscendola grazie ad una sacra ispirazione", e l'intera Torà comprende, secondo Rashì (commento a Gen. 26:5), anche la tradizione rabbinica. È un principio che solleva molte perplessità, anche davanti ad esplicite contraddizioni, ma che se viene esaminato in profondità mostra una concezione della storia e della Torà particolarmente forte ed originale. Restando nell'ottica di questo principio ci si potrebbe chiedere se e quando i Patriarchi celebrarono Hanukkah. La domanda sembra apparentemente assurda; Hanukkah è una festa istituita molto più tardi, nel II secolo avanti l'era volgare, per ricordare un avvenimento storico preciso. Eppure la riflessione su questa domanda provocatoria, apparentemente senza senso, aiuta a comprendere sia le motivazioni della strana idea rabbinica sul rapporto dei Patriarchi con la Torà, che il significato profondo di Hanukkah. Il precetto fondamentale di Hanukkah, come è ben noto, è l'accensione dei lumi, preceduta dalla recitazione di benedizioni, di cui la più specifica dice: "Benedetto... il Signore... che ci hai comandato di accendere i lumi di Hanukkah". Ma il precetto di accensione dei lumi è senza dubbio una norma rabbinica, di cui la Torà ovviamente non parla. Ma allora perché attribuire al Signore l'origine di un obbligo che è invece chiaramente di istituzione umana? Altri precetti rabbinici si segnalano per lo stesso paradosso, ma solo per questo di Hanukkah il Talmud (Shabbat 23a) si interroga ("Dove mai ci ha comandato?") alla ricerca di una spiegazione. La risposta 'tecnica' è che quando i Rabbini stabiliscono una norma e danno un precetto, hanno una sorta di delega divina, per cui è come se l'ordine fosse stato dato dal Signore stesso. Eppure il fatto che proprio su questa norma di Hanukkah il Talmud sollevi una questione di legittimità, per risolverla con una generica dichiarazione di principio sull'autorità rabbinica, deve far riflettere sui significati più profondi e nascosti della festa.
Hanukkah è il luogo di tanti paradossi e contraddizioni, e la sua istituzione sembra venire di necessità a colmare uno strano vuoto. Ciò perché malgrado la sua tarda istituzione i significati più o meno nascosti della festa sono tanti, di origine remota e possibilmente conflittuali. Non c'è solo l'opposizione tra la commemorazione di una rivolta militare (che portò al potere una dinastia che avrebbe perseguitato i rabbini) e un significato religioso (il miracoloso aiuto divino a chi lotta per difendere la propria identità); ma c'è anche la celebrazione di un evento del ciclo annuale (il solstizio invernale), potenzialmente carico di rischi di festa pagana; e c'è un legame con il ciclo agricolo, quello del tempo della raccolta delle olive. Di tutto questo la tradizione ha privilegiato senza dubbio l'elemento religioso, la lotta in difesa del culto monoteistico, l'eliminazione dell'idolatria, la scelta sofferta di accettazione della Torà da parte della comunità di Israele, la preparazione al servizio divino con un nuovo altare restaurato, e tutto questo nella fiducia nell'aiuto divino, che protegge il suo popolo dai suoi nemici nel momento in cui Israele torna a cercare il Signore.
Nella coscienza rabbinica, ma anche nella percezione collettiva del popolo ebraico, questo tema non può essere legato ad un unico evento storico, ma rappresenta una situazione che si ripete. E allora la domanda se vi sia nella Torà e in particolare nelle storie dei Patriarchi un modello di Hanukkah antica e primordiale non è più una stranezza e un paradosso, ma una legittima richiesta di ricerca storica e ideologica. In effetti è possibile identificare una situazione con molti punti di contatto nella storia dei Patriarchi, in Genesi 35 (Parashath Wayshlach).
Subito dopo il drammatico episodio di Dinà, Giacobbe riceve l'ordine di partire verso Beth El con tutta la sua famiglia; Giacobbe quindi ordina alla famiglia di "allontanare gli dei stranieri" prima della partenza. Beth El era il luogo in cui Giacobbe aveva visto in sogno la scala e dove aveva eretto una stele, giurando di trasformarla in casa divina. Al suo ritorno nella terra di Canaan giunge per Giacobbe il tempo di mantenere la promessa, ma si frappongono molti ostacoli, e per ultimo l'episodio di Dinà, con tutte le sue conseguenze: pericolo di vendetta da parte dei popoli vicini, ma anche pericolo di assimilazione e di paganesimo. "Gli dei stranieri" che Giacobbe comanda di eliminare, erano, secondo il midrash, quelli presi dal bottino di Shekhem (cft. Rashi a Gen. 35:2) il che dimostra da un lato che malgrado la circoncisione loro imposta i Sichemiti non avevano rinunciato all'idolatria (cfr. Nachai Qedumim a Gen. 34:13), e dall'altro che il pericolo di idolatria e di influenze negative esterne era forte nella stessa famiglia di Giacobbe e nella stessa terra di Canaan. Per questo Giacobbe ordina l'eliminazione dell'idolatria e la purificazione, secondo uno schema che sarà ricorrente nella Bibbia, con le stesse parole (cfr. Gios. 27:23, Giud. 10:16, I Sam. 7:3, 2 Cron. 33:15), e che rappresenta costantemente il desiderio di ritorno della comunità al Signore e la condizione per il ritorno del Signore alla protezione della sua comunità. Solo dopo questo è possibile partire per Beth El ed erigervi una casa e un altare, che sono, a confronto con la primitiva stele, il segno di un nuovo culto, in cui il popolo partecipa in comunione e riceve i precetti divini (cfr. N. Leibowitz, 'Yiurum besefer Bereshith 270-275). Accettando questo giogo, viene in soccorso l'aiuto divino: "la paura del Signore fu sulle città..." (Gen. 35:). Malgrado gli aspetti terribili del fatto di Shekhem, e l'esplicita condanna che ne fa Giacobbe (che rappresentano un modello primordiale delle perplessità rabbiniche sul tema della violenza armata che caratterizza la rivolta dei Maccabei e il trionfo della casa Asmonea), esistono nelle motivazioni dei protagonisti delle componenti positive, come l'intenzione di lottare contro l'idolatria e in particolare contro coloro che con la forza o la seduzione vogliono conquistare le persone e le anime di Israel. Non a caso uno dei due combattenti è Levi, antenato di Pinchas e antenato dopo molti secoli della famiglia dei Maccabei. Dunque l'intero racconto è quello di una sorta di Hanukkah patriarcale, dove compare il motivo della lotta contro l'idolatria esterna ed interna, il paradosso della violenza e della sua difficile valutazione, e poi la purificazione e l'erezione dell'altare, sotto l'ala protettrice divina. Manca solo il lume, ma l'olio già c'è, nelle due prime volte che viene citato nella Bibbia: quando Giacobbe lo versa sulla stele che ha eretto a Beth El, e quando viene nuovamente versato sull'altare alla fine del racconto.
Il tema del miracolo di Hanukkah dunque è molto più antico di quello dei tempi dei Maccabei, così come l'olio che brucia in ogni hanukkià esprime una speranza sofferta e complessa, profondamente radicata nella coscienza ebraica senza limiti di tempo.
Hanukkah e il Talmud
Rav Elio Toaff
Nel Talmud ci si domanda perché la festa di Hanukkah duri otto giorni malgrado che il miracolo dell'olio si sia prolungato per solo sette giorni. Tanto i Rishonim che gli Acharonim hanno spiegato il fatto così: il primo giorno lo destinarono alla festa per aver trovato l'olio del Cohen Gadol e gli altri alla celebrazione del miracolo dell'olio. Invece altri spiegano che il primo giorno fu dedicato alla ripresa del servizio divino che i Greci avevano proibito. Fra i Rishonim c'è però anche chi afferma che gli otto giorni furono stabiliti perché i Greci avevano proibito la milà, che - come prescritto - si fa a otto giorni dalla nascita oppure per far durare la festa quanto la festa di Succot, che è la più lunga del calendario. Quando si mandavano messi per annunziare il nuovo mese "Al pi ha-reaià" essi uscivano anche nel mese di Kislev per annunciare Hanukkah a chi abitava più lontano. Fra gli Acharonim c'è chi sostiene che laddove non arrivavano i messi del Bet Din, si festeggiava Hanukkah per nove giorni per il dubbio, come per i derabbanan non si deve essere rigorosi perché, dal momento che il dubbio è se si tratti del primo giorno di Hanukkah e il nono giorno non è più Hanukkah, o viceversa, se si vuole facilitare non sarebbe Hanukkah né il primo giorno né il nono, ma certamente uno dei due lo sarebbe, pertanto si propende per essere rigorosi e stabilire Hanukkah di nove giorni.
Oggi ci si regola facendo precisi calcoli e si fanno ancora due giorni di festa nella golà per disposizione dei Hachamim. I Rishonim hanno scritto che non si fanno più nove giorni di Hanukkah ma solo otto perché essi stessi hanno stabilito così. In Arachim 10b è scritto che Hanukkah non è considerata né moed né jom tov. Ma c'è chi sostiene che esiste nella Torà un remez riguardo Hanukkah, perché alla fine della parashà dei moadot dice: "Elle em moadai". E ancora alla fine della parashà dei moadot è detto: "Prenderanno per te olio di oliva puro", e dal momento che la Torà lo prescrive con i moadot, se ne deduce che si tratta di un jom tov come tutti gli altri.
E fra gli Acharonim c'è chi scrive, seguendo l'opinione dei Rishonim, che malgrado le mizvot che si usano di Hanukkah, come l'accensione delle luci e l'Hallel, siano tutte di prescrizione rabbinica, il fondamento della festa invece deriva dalla Torà, e cioè di ricordare, non fare espèd né digiuno in quanto è prescritto di fissare un giorno festivo per ogni miracolo avvenuto. E a maggior ragione quando si tratta dell'uscita dall'Egitto che fu l'uscita dalla schiavitù alla libertà, e quando uscirono dalla morte alla vita.
I Hachamim hanno stabilito quello che si deve fare per celebrare l'avvenimento, per cui si può affermare che Hanukkah è prescrizione derivata dalla Torà mentre la sua spiegazione e la sua celebrazione sono di origine rabbinica.
Per quel che riguarda il fatto che questi giorni vengano chiamati Hanukkah, i Rishonim hanno scritto che si tratta di Hanuccat Hamizbeach, l'altare che era stato distrutto è ora ricostruito. Si è anche detto che gli Asmonei avrebbero nascosto le pietre dell'altare che i Greci avevano reso impure. Essi spiegarono: vennero gli invasori e lo profanarono. Quando gli stranieri entrarono nel Santuario i suoi oggetti sacri si trasformarono in oggetti profani, e gli stranieri li potevano acquistare come se non fossero mai appartenuti ad alcuno, quando essi li adoperarono per il loro culto, allora divennero Avodà Zarà e quindi proibiti. Qualcuno ha sostenuto che anche gli oggetti del culto si dovevano fare nuovi o quantomeno si doveva cambiare il loro aspetto e si dovevano riconsacrare indirizzandoli verso il culto (facendo hinuch baavodà) pertanto hanno chiamato quei giorni col nome di Hanukkah.
Altri hanno sostenuto che il nome Hanukkah deriva dal fatto che il Tempio fu rinnovato (hanukat habait hinuch habait) e reso atto al culto perché i Greci avevano reso impuro il Santuario, i suoi atrii e tutti gli oggetti santi che poi gli Asmonei purificarono e fecero di Hanukkah l'inizio della loro educazione al servizio divino, hinuch baavodat habait, come fece Mosè.
Infatti è detto nel Midrash (Shibbolè Halleket): Diceva R. Haninà: il 25 di Kislev fu completata l'opera del Mishkan e da allora ha detto Kadosh Baruch Uh. Io devo pagare; e che cosa ha pagato? La Hanukkah degli Asmonei. Hanno detto: perché è stata posta la Parashà degli Asmonei. Hanno detto: perché è stata posta la Parashà di Beaalotehà vicino alla Hanukkah dei principi, hanukat hanesiim? Perché Levi protestava perché non gli era stato concesso di offrire sacrifici. Gli disse K.B.U.: per loro non c'era che un giorno per ogni principe mentre la tua Hanukkah sarà per otto giorni e per tutte le generazioni.
C'è anche un'altra spiegazione per il nome di Hanukkah. Il Notarikon è 25 - 25 hanu 'caf' 'hei' che equivale a dire che "si fermarono il 25" di Kislev. E c'è anche chi spiega che si fermarono dal procedere verso la guerra. E cioè tutto il giorno, perché il 24 non si fermarono se non di sera e allora accesero le luci. C'è chi spiega questa fermata a causa della proibizione di lavorare ed hanno appoggiato a questo l'uso di non lavorare quando le fiammelle sono accese. E c'è chi spiega "si fermarono il 25" con il fatto che il 25 del mese dovranno cominciare l'accensione dei lumi di Hanukkah oppure che in questo giorno la Shechinà si fermò su Israel. C'è chi ha spiegato che il nome Hanukkah sono le iniziali: H=8 N=Nerot e la regola è secondo Hillel.
Uomini donne, proseliti, servi affrancati sono tutti obbligati ad accendere la Hanukkah. R. Jeoshua ben Levi ha detto: le donne sono obbligate ad accendere la Hanukkah malgrado sia un precetto affermativo che viene a data fissa per cui le donne dovrebbero essere esonerate. Ma esse furono direttamente coinvolte nel miracolo perché i Greci avevano stabilito il jus primae noctis per il loro principe e fu una donna che rese possibile il miracolo perché la figlia di Johanan tagliò la testa del principe e tutti i nemici fuggirono.
Un'altra versione dice invece che la sorella di Giuda Maccabeo si mise un velo durante il matrimonio, Giuda si interessò di lei e da quel momento ebbero la meglio sui Greci. La solidarietà familiare ritrovata ebbe questo effetto.
I servi cananei che non sono affrancati sono esentati dall'obbligo di accendere la Hanukkah, perché la loro regola è come quella delle donne che sono esentate da tutte le mizvot affermative che cadono in tempi determinati; per loro non c'è ragione di applicare quanto è stato stabilito per le donne, che sono state invece obbligate ad accendere la Hanukkah perché ebbero parte nel miracolo.
La donna che accende la Hanukkah fa uscire d'obbligo anche gli uomini dal momento che è obbligata a seguire quella mizwà e la base del miracolo si trova nell'azione di una donna. Fra i Rishonim però c'è chi nega che la regola sia questa.
Il precetto di Hanukkah è molto importante e vi si deve prestare molta attenzione per diffondere la conoscenza del miracolo e per aumentare ancor più le lodi e i ringraziamenti al Signore per i miracoli che ha fatto per noi. Diceva Rav Unà: se un individuo è attento e scrupoloso con il lume di Hanukkah, ornandolo, curandolo per renderlo più bello (dato che è prescritto di fare così, ma non è un obbligo) avrà figli talmidè chahamim perché è scritto: poiché la mizwà è un lume e la Torà è luce attraverso il lume di Hanukkah scende su di lui la luce della Torà.
Quel lume alla finestra
Rav Scialom Bahbout
La storia di Hanukkah, così com'è narrata nel Talmud, è molto strana e ancora più strano è il fatto che i Maestri abbiano fatto dell'episodio dell'ampolla d'olio e dell'accensione dei lumi l'elemento centrale della festa, una festa che è bene ricordare è l'unica stabilita in epoca postbiblica accettata da tutto Israele nel corso delle generazioni. Hanukkah deriva da una radice ebraica che ha vari significati e può essere tradotta con inaugurazione, in ricordo dell'inaugurazione del Tempio fatta dai Maccabei, oppure con consacrazione e destinazione di un oggetto alla sua funzione: quindi nel caso specifico, significa riconsacrazione del Tempio profanato dagli Ellenisti, per restituirlo alla sua primitiva funzione.
La radice Hanukkah, da cui derivano Hanukkah e hinnukh (educazione), significa anche "educare". La rivolta ebraica scoppiò quando il nemico greco tentò di colpire proprio le radici culturali e religiose del popolo e più precisamente, quando i Seleucidi, dominatori della Giudea, imposero agli ebrei di abbandonare progressivamente le proprie tradizioni, costringendoli ad adorare gli idoli nel Tempio di Gerusalemme. Di fronte al pericolo della perdita della propria identità, gli ebrei si opposero e organizzarono una resistenza che fondava le proprie basi sull'adesione all'educazione ebraica.
Contro un nemico militarmente più agguerrito, gli ebrei opposero la propria determinazione nel difendere la propria cultura e il diritto alla diversità contro il livellamento culturale imposto dalla cultura ellenista imperante. Non sappiamo con certezza quale sia il significato della storia dell'ampolla d'olio rimasta pura tra le macerie del Tempio: forse essa rappresenta il manipolo di persone sempre pronto a lottare per difendere la propria identità e dignità ebraica, a Gerusalemme come a Buchenwald. L'olio, che sembra bastare per una sola generazione, si rivela sufficiente per alimentare lo spirito ebraico non per sette generazioni (un numero che rappresenta la sopravvivenza dell'uomo nei limiti della natura e della storia), ma per sette + uno, cioè per infinite generazioni, per un tempo che trascende la storia e la natura.
Il miracolo di Hanukkah è davvero strano: gli ebrei credono che ogni anno, nel momento in cui un ebreo accende il proprio lume, il miracolo si compia ancora: è il miracolo della sopravvivenza di una piccola minoranza in un mondo che non ha ancora assimilato l'idea che si può essere diversi, ma godere di eguali diritti.
Il lume di Hanukkah va acceso vicino alla finestra, in modo che sia ben visibile dall'esterno. Questo gesto ha sì lo scopo di rendere pubblico il miracolo e quindi rendere partecipi anche gli altri della gioia e del mistero della sopravvivenza del popolo ebraico, ma è anche un invito a tutti gli uomini a non lasciarsi intimidire da ogni sorta di prevaricazioni e sopraffazioni.
Ma in questa lotta per i propri diritti, pur muovendosi tra le macerie, a Gerusalemme come ad Buchenwald, ieri come oggi, importante è riuscire a non perdere mai di vista i valori che devono caratterizzare la vita dell'uomo. Per l'ebreo questi valori si devono affermare salvaguardando la propria dignità umana ed ebraica, anche nelle condizioni più disperate. Mantenere la Kedushà (santità) dell'immagine divina che è in ogni uomo è stata una delle imprese più difficili per gli ebrei che sono passati attraverso l'esperienza terribile dei campi di concentramento nazisti.
La resistenza ebraica al nazismo viene identificata con la rivolta armata del Ghetto di Varsavia e degli altri Ghetti, una lotta attraverso la quale gli ebrei avrebbero riguadagnato la propria dignità e il proprio diritto alla vita. Non dobbiamo tuttavia dimenticare un'altra resistenza, meno eclatante, ma non per questo meno importante: molti ebrei sono riusciti a mantenere alto l'onore d'Israele rifiutandosi di accettare la logica dell'assassino che voleva distruggere l'ebreo nella sua umanità ebraica, prima ancora che nel suo corpo. La resistenza armata è stata per molto tempo giustamente messa in primo piano: c'è da chiedersi se non sia doveroso oggi ricordare con orgoglio anche la resistenza che, giorno dopo giorno, gli ebrei sono stati capaci di opporre al nazismo nei campi di concentramento.
La nostra generazione, che ha avuto il privilegio di vedere ricostruito il "corpo" d'Israele, ha anche la responsabilità di muoversi con urgenza e determinazione per ricostruire lo "spirito" e la cultura d'Israele.
Per accendere, ancora una volta, la propria Hanukkah.
Due racconti A Gerusalemme intorno all'anno 164 A.E.V.
Cosa è Hanuklah? Hanno insegnato i Maestri: il 25 del mese di Kislev iniziano gli otto giorni di Hanukhah, giorni in cui non si possono fare manifestazioni di lutto e non si può digiunare. Quando i greci entrarono nel Tempio, resero impuro tutto l'olio, e gli Asmonei, dopo aver sconfitto il nemico greco, cercarono e non trovarono che una sola ampolla d'olio, che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote. Questa ampolla sarebbe bastata per illuminare il Tempio un solo giorno. Accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni. L'anno seguente stabilirono di rendere quei giorni, giorni di festa e di lode.
(Talmud Shabbath 21b)
A Buchenwald nel 1944
Inverno 1944. Campo di concentramento di Buchenwald. Blocco 62. 400 internati ebrei. Dopo cinque anni e mezzo di terrore, 400 internati ebrei, ormai ridotti a scheletri, quasi larve umane. Sui giacigli di legno si ammassano per dormire fino a 14 persone, uno sull'altro. Non ci si può rigirare nel letto senza svegliare tutti gli altri, quasi si trattasse di una catena umana. È l'ora della distribuzione del cibo. Vengono portate due grandi pentole e due internati di turno provvedono alla distribuzione. Il tedesco di guardia controlla la situazione. Ognuno riceve 150 grammi di pane: la razione giornaliera; un bicchiere di acqua calda che osano chiamare té e qualche volta una razione di margarina. Duecento grammi di margarina da dividere in 16 parti.
Finita la distribuzione del cibo, gli addetti alla distribuzione chiedono all'S.S. tedesco cosa fare dei resti di margarina avanzati nella pentola. Il tedesco si fa portare la pentola. Prende i pezzi più grossi di margarina, quelli ancora solidi e divertito grida: "ora li getto per aria e chi li prende sono suoi".
A Buchenwald non mancano davvero persone che per la fame e per le molte sofferenze, hanno perso il senso della propria dignità ed ora sono lì, pronte a gettarsi ai piedi del tedesco pur di racimolare un po' di margarina che forse permetterà loro di sopravvivere alla prossima selezione. Ed ecco che un terribile groviglio umano si forma ai piedi del tedesco. Ed egli gode alla vista ditale spettacolo.
Nel blocco 62 c'è un vecchio. Non sembra aver paura delle selezioni. Quella margarina a lui non sembra importare. Egli mantiene uno sguardo e un portamento altero. Anche in quell'inferno non ha perduto la sua umanità e cerca di aiutare gli altri come può: con una buona parola, o privandosi di una parte del suo cibo. E neppure la sua dignità ha perduto il vecchio. Per questo non fa mai parte del groviglio umano che si gettava ai piedi del tedesco per conquistarsi un avanzo di margarina.
Ecco un giorno, finita la distribuzione, il solito terribile rito si ripete. Il pane, il tè e la margarina sono ormai stati distribuiti e gli internati del blocco 62 assistono ad un insolito spettacolo: il vecchio che si getta sulla margarina e rimane disteso per terra finché non è ben sicuro che la margarina che è riuscito a racimolare è al sicuro.
Anche lui, il vecchio, quello che sembrava essere il simbolo della dignità da non perdere, aveva ceduto, era crollato di fronte a una realtà disumanizzante. Anche lui aveva venduto la propria dignità per un po' di margarina.
Il vecchio si alza lentamente e qualcuno degli internati, mosso a pietà, gli consegna il proprio pezzo di margarina. E tra la meraviglia dei presenti, il vecchio li accetta. Poi, rifugiatosi in un angolo, il vecchio ebreo aspetta che il tedesco esca.
Fa freddo a Buchenwald e la margarina nelle mani del vecchio è solida, ma lui la tiene vicino al bicchiere di té caldo e la margarina comincia a sciogliersi. Sembra impazzito, tira con forza i bottoni dalla sua vecchia divisa da internato e li strappa via. Anche lui a Buchenwald ha ceduto alle lusinghe della pazzia, convengono gli altri internati. Con gesti convulsi prende a sfilare alcuni fili dai lembi del vestito. Il vecchio si alza in piedi, ha in mano i bottoni, i fili e la margarina liquida e grida ai 400 internati del blocco 62 di Buchenwald:
"Ebrei! oggi è Hanukkah"
Dopo cinque anni e mezzo di terrore, quel vecchio, senza calendario ebraico, senza radio, senza alcun collegamento con l'esterno, era riuscito a tenere i conti, non aveva perso la nozione del tempo ed era riuscito a stabilire la data di Hanukkah. Sapeva con precisione quando cadeva Hanukkah e in quale giorno della festa si trovavano: aspettava solo il giorno della distribuzione della margarina.
Prende i bottoni e li mette per terra; poi prende i fili e li infila nei bottoni e versa un po' di margarina sui bottoni. Ecco... adesso aveva tutto ciò che gli era necessario per accendere i lumi di Hanukkah.
Una persona arrotola un pezzo di carta e, dopo essersi arrampicato sulle spalle di un altro internato, lo accende usando il fuoco della lampada a nafta che illuminava debolmente il blocco. Poi lo consegna al vecchio, che, in piedi, in mezzo ai quattrocento internati, accende e i lumi recitando le benedizioni:
Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che ci hai consacrato con i tuoi precetti e ci hai comandato di accendere i lumi di Hanuklah.
Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che hai operato miracoli ai nostri padri in quei giorni, in questo tempo.
Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che ci hai mantenuto in vita e d hai fatto giungere a questo tempo.
Solo allora, tutti i prigionieri che avevano seguito la scena in silenzio, cominciano a cantare, dapprima a bassa voce, ma poi sempre con maggior forza Maoz zur yeshuati. Il canto dei 400 internati si fa sempre più forte, nel blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald. La porta del blocco viene aperta con violenza, e al Kapò e all'SS di guardia del blocco, si presenta uno spettacolo incredibile: i quattrocento internati, per un momento, avevano riacquistato la loro libertà, come al tempo degli Asmonei: cinque anni e mezzo di terrore avevano fiaccato il loro corpo, ma non il loro spirito.
Racconto orale (L'episodio è citato anche in Pardes Harlukkà, Petachia Rosenwasser, Ed. Zekher JeruBalem, pag. 327)
Rav Scialom Bahbout
Cenni di Halakhà
Inverno 1944. Campo di concentramento di Buchenwald. Blocco 62. 400 Il rito caratteristico della festa di Hanukkah è costituito dall'accensione della lampada a nove lumi (otto, più uno, "di servizio", detto shammash). Lo scopo di questo rito è quello di "proclamare il miracolo", secondo quanto scritto nel Talmud babilonese (T.B. Shabhath 21b e seg.).
Come va adempiuto il rito.
L'accensione della hanukkià deve essere eseguita con queste modalità:
1
Si accende la prima sera un lume, più quello "di servizio" (shammash), le sere successive si aggiunge un ulteriore lume fino ad accenderne otto (più lo shammash) l'ottava sera.
2
L'accensione va fatta dopo il tramonto, appena compaiono le stelle, senza tardare troppo. Quando è giunta l'ora dell'accensione è proibito rimandare l'adempimento di questa mitzwà per mangiare o per dedicarsi a qualsiasi altra attività, perfino per studiare la Torà.
3
Possono essere adoperati lumi ad olio (preferibilmente olio di oliva) o anche candele. Non ha importanza la forma della lampada e possono essere utilizzati anche otto singoli contenitori. Si deve cercare, comunque, di utilizzare una hanukkià pulita e di bell'aspetto. Essa va posta a non meno di 30 cm dal pavimento e a non più di 9,6 m. di altezza affinché i lumi si possano vedere bene. I lumi vanno posti su di un unico piano, non in tondo, e non uno in alto e uno in basso. Tra un lume e l'altro ci dev'essere almeno lo spazio di un dito affinché le singole fiammelle non si confondano tra loro.
4
I lumi devono essere tali da rimanere accesi almeno 30 minuti.
5
In tempi antichi la lampada veniva accesa davanti alla porta di casa, oggi la si accende (generalmente) all'interno, in un posto che sia ben visibile (per la "proclamazione del miracolo"), cioè presso una finestra o una porta di ingresso. In caso, tuttavia, che questo possa provocare manifestazioni di ostilità da parte di vicini non ebrei, è previsto che la lampada sia accesa in una posizione non visibile dall'esterno. In alcune comunità era uso appendere la hanukkià sullo stipite sinistro della porta d'ingresso, di fronte alla mezuzà, per essere "circondati dalle mitzwot".
6
Le luci della hanukkià non devono essere utilizzate per alcuno scopo pratico, è quindi uso accendere un lume in più, lo shammash, che si pone accanto a quelli di rito (le hanukkioth hanno generalmente un nono beccuccio per questo scopo, non allineato con gli altri). Per accendere i lumi ad olio o le candele può essere usato lo shammash, o un altro lume. Nel caso che venga usato un altro lume, come è uso in alcune comunità, lo shammash deve essere acceso dopo i lumi di rito.
7
I lumi vanno posizionati prima dell'accensione: dopo che, sono stati accesi è proibito spostarli.
8
I lumi della hanukkià non devono essere spenti (devono cioè spengersi da soli).
9
I lumi o le candele della hanukkià devono essere accesi con questo ordine: la prima sera si accende il primo lume a destra (più lo shammash); la seconda sera si aggiunge alla sua sinistra un secondo lume; la terza sera, ancora alla sinistra un terzo lume, e così via. Si inizia con l'accensione del lume aggiunto per ultimo, procedendo poi verso destra.
10
Chi non avesse olio o candele a sufficienza deve accendere, con la normale procedura, un lume ogni sera.
11
Alla vigilia dello Shabbath si accende prima la hanukkià, poi il lume dello Shabbath. In quella occasione si fa in modo di adoperare candele più grosse, o di utilizzare più olio, affinché la hanukkià resti accesa fino a mezz'ora dopo l'uscita delle stelle.
12
All'uscita dello Shabbath nel Bet ha-Kenesseth si accendono i lumi di hanukkah prima della havdalà, allo scopo di prolungare la santità dello Shabbath. Per l'accensione nelle case esistono entrambi gli usi: quello di accendere prima la hanukkià e quello di celebrare prima la havdalà. L'uso di Gerusalemme è quello di celebrare prima la havdalà.
13
È prescritto che venga accesa una hanukkià in ogni casa; alcuni usano accendere una hanukkià per ogni membro (o per ogni membro maschio) della famiglia. In alcune comunità è uso che l'accensione venga fatta dal capofamiglia. L'obbligo dell'accensione riguarda anche le donne, pertanto, se non ci sono maschi, anch'esse devono accendere i lumi.
L'accensione dei lumi di hanukkà è considerata talmente importante che anche il più povero è tenuto a chiedere prestiti, o vendere i suoi abiti, per procurarsi l'olio o le candele necessarie ad accendere almeno un lume per sera.
Chi si trova in casa d'altri come ospite, provvede ad accendere personalmente il suo lume, oppure si unisce al padrone di casa corrispondendogli una somma simbolica per partecipare alle spese dei lumi.
14
È uso che le donne si astengano dal lavoro per il tempo in cui i lumi di hanukkà sono accesi. Alcuni estendono quest'uso anche agli uomini. È uso consumare per hanukkà pasti più abbondanti del solito e di accompagnarli con canti di lode al Signore.
Dalla Testa ai piedi
Dedico il seguente articolo, tratto da un discorso pubblico del Lubavitcher Rebbe, z"l, ai miei cari amici oggi sposi Maurizio e Micol Molinari. Per Maurizio e Micol l'importante yom ha-hatunà cade durante la festa dei lumi, Hanuklah. Secondo alcuni minaghim si usa accompagnare la sposa alla hupà con due candele. La spiegazione viene dalla ghematrià: il valore numerico di "ner" (candela) è di 250 che, moltiplicato per due, dà 500 ovvero la stessa cifra che si ottiene sommando il numero degli organi dell'uomo (248) e della donna (252). Il mio augurio più sincero è che la "somma" di Maurizio e Micol generi una grande luce di "pru urvu" così da far entrare fisicamente e spiritualmente la Torà e le mitzwot nella loro casa e di trasmetterle quindi a tante altre famiglie.
Rav Ytzchak Hazan
La festività di Hanukkah commemora la vittoria degli Asmonei contro i Greci, e la susseguente riconsacrazione del Beit Hamikdash. Quando gli Asmonei vollero accendere la Menorà, scoprirono che i Greci avevano contaminato l'olio e poterono trovare solo una bottiglia di olio d'oliva puro sufficiente all'accensione di un solo giorno. L'olio miracolosamente durò otto giorni. Questo miracolo viene commemorato ogni anno dalla mitzvà dell'accensione delle luci di Hanukkah. I lumi di Hanukkah differiscono da tutte le altre luci accese per compiere una mitzvà. Ci sono due categorie generali di luci. Alla prima categoria appartengono quelle non per scopo d'illuminazione, ma solo per marchio di rispetto od onore. Per esempio accendiamo lumi in una sinagoga in onore della casa di D-o. Dunque non possiamo usare queste luci per l'Havdalà poiché quelle dell' Havdalà sono specificamente per l'illuminazione.
Nella seconda categoria ci sono luci che servono per l'illuminazione. I lumi dello Shabbat, ad esempio, vengono accesi per portare pace alla casa permettendo alla gente di vedere ciò che sta facendo. Lo scopo delle luci della Menorà nel Beit Hamikdash era anch'esso per l'illuminazione, come detto: "I sette lumi illumineranno". I lumi di Hanukkah sono similmente accesi per diffondere luce.
Ma c'è una differenza fra le luci di Hanukkah e quelle del Shabbat e del Beit Hamikdash. L'illuminazione prodotta da queste ultime ha uno scopo specifico: di Shabbat, apportare pace; nel caso del Beit Hamikdash, rendere testimonianza all'umanità che la Presenza Divina risiede in Israele. L'illuminazione delle luci di Hanukkah invece non ha nessun altro scopo se non quello dell'illuminazione stessa.
Sono altre le ragioni per le luci di Hanukkah, per esempio "rendere pubblico il miracolo". Il loro fine è l'illuminazione stessa. La prova? Anche quando le luci di Hanukkah vengono accese senza pubblicità, la mitzvà è stata compiuta validamente. Ma se i lumi dello Shabbat non contribuiscono alla pace non si può fare la benedizione su questi lumi.
La ragione di questo risiede nella speciale natura di Hanukkah. Gli elementi di Hanukkah - i decreti dei Greci ai tempi degli Asmonei, il mesirut nefesh (auto sacrificio) degli Ebrei, i miracoli risultanti, e la mitzvà dell'accensione delle candele di Hanukkah - toccano il legame fra gli Ebrei e D-o, un legame che trascende la comprensione.
Il decreto promulgato dai Greci Siriani, era di far "dimenticare la Tua Torà e violare i decreti della Tua volontà" agli Ebrei. I Greci adoravano la conoscenza. A loro non importava se gli Ebrei apprendevano la saggezza della Torà. Ciò che obiettavano violentemente era l'idea che la Torà provenisse da D-o - "la Tua Torà", - e non che gli Ebrei mantenessero le mitzvot per qualunque ragione. Ciò che odiavano era il compimento delle mitzvot semplicemente perché era la volontà di D-o. In breve, i Greci combattevano contro la natura divina della Torà e delle mitzvot.
Per questa ragione i Greci contaminarono l'olio nel Beit Hamikdash. Il concetto di purità trascende la comprensione razionale. Non c'è motivo per cui una persona morta causi impurità ed un Mikvè purifichi. È un decreto di D-o: "Ho aborrito statue e decretato decreti e non potete trasgredire il Mio decreto". Poiché l'idea dell'impurità trascendeva la comprensione i Greci la combattevano e contaminarono tutti gli olii nell'Hehal (santuario interno del Beit Hamikdash).
Nonostante gli Ebrei fossero pochi contro i molti e non potessero vincere la guerra contro i Greci, essi mostrarono mesirut nefesh per amore di D-o, della Sua Torà e delle mitzvot. Sfidando la logica ed il ragionamento si gettarono così con autosacrificio nella battaglia contro i Greci.
D-o, ripagando "misura per misura" rivelò il suo legame speciale con il popolo ebraico, trascendente anch'esso la ragione. Compì il miracolo dell'olio, un miracolo che servi solo a mostrare il suo amore per Israele. Il vero amore non dipende dalla ragione; proviene dalla propria essenza, e trascende la ragione stessa. Per cui i nostri saggi istituirono l'accensione delle candele come principale commemorazione di Hanukkah.
Ed è per questo dunque che l'illuminazione delle luci di Hanukkah è un fine in sé e non un mezzo per un altro scopo. Siccome le luci di Hanukkah simbolizzano il legame essenziale fra D-o e gli Ebrei trascendente tutti i limiti, non possono sussistere per altri scopi.
Come prima menzionato, il comune denominatore tra lo Shabbat, il Beit Hamikdash e i lumi di Hanukkah è che tutti danno luce. Il Talmud dice "non c'è luce eccetto Torà, come è detto: una mitzvà è un lume e Torà è la luce". Ne consegue che le luci dello Shabbat, del Beit Hamikdash e di Hanukkah rappresentano la Torà. Ci sono comunque differenze nella Torà stessa, relative a questi tre tipi di luce.
Uno può apprendere la Torà per sapere la Halahà, come per fare le mitzvot. Questa è l'idea della Torà che porta la pace nel mondo. Corrisponde alle luci dello Shabbat che hanno lo scopo di assicurare la pace nella casa.
Poi c'è lo studio della Torà attraverso il quale un Ebreo si lega a D-o. Corrisponde alle luci del Beit-Hamikdash che testimoniano che la Shehinà risieda in Israele.
Finalmente, c'è il livello più elevato dello studio della Torà - la Torà studiata per il proprio valore. Questa Torà è unita alla vera essenza di D-o e l'essenza di D-o vive solo di per se stessa. E questo corrisponde all'illuminazione di Hanukkah che non ha scopo se non se stessa.
Questo è perché "a noi non è permesso far uso delle luci di Hanukkah". Il nostro rifiuto di utilizzare l'illuminazione prodotta dalle luci della Menorà dimostra che il nostro servizio a D-o deve essere fine a se stesso, non per alcun beneficio o ricompensa possa occorrere.
La commemorazione principale di Hanukkah come spiegato sopra, avviene attraverso le luci di Hanukkah. Ci sono diversi elementi ad esse associati, ciascuno dei quali procura lezioni per il servizio di D-o.
Tutte le mitzvot sono paragonate alla luce: "Una mitzvà è un lume e la Torà la luce". Accendere i lumi di Hanukkah comunque, è una mitzvà letteralmente associata con la luce, e come spiegato sopra, il suo scopo risiede nell'illuminazione.
La luce non ha limiti intrinsechi nell'ampiezza di potere d'illuminazione. Si può porre una barriera per trattenere la sua illuminazione; ma per se stessa può viaggiare all'infinito.
La Torà e le mitzvot che osserviamo, la luce spirituale che emaniamo nel mondo, deve avere le stesse caratteristiche della luce fisica. Un Ebreo non può costringere il suo servizio di D-o, entro limiti specifici. Un Ebreo deve servire D-o "con tutte le tue forze". E questo è simboleggiato specificamente dalle luci di Hanukkah: esse commemorano il miracolo che risultò dalla mesirut nefesh degli Ebrei.
Nonostante il servizio di D-o possa essere completo, le luci di Hanukkah ci insegnano un'altra lezione ancora: si deve costantemente fare meglio. Il Talmud afferma che ci sono tre livelli nella mitzvà dell'accensione delle luci di Hanukkah: secondo la stretta Halahà; secondo coloro che sono mehader (desiderano abbellire la mitzvà) e secondo coloro che sono mehadrin min hamehadrin (desiderano farla nel modo più pio, il miglior modo possibile). Coloro che sono mehadrin min hamehadrin, il Talmud riporta, aggiungono una luce in più ogni notte.
La lezione è chiara: nonostante la mitzvà della notte precedente fu fatta nel miglior modo possibile, la notte dopo deve vedere un miglioramento - con un'altra luce ancora. Nonostante si osservi la Torà e le mitzvot più che adeguatamente - anche "con tutte le tue forze" - ci si deve sempre elevare più in alto.
Più che altro, che nessuno pensi che questa sia una lezione solo per il più pio. Il Ramah, le cui decisioni noi seguiamo, scrive che a differenza dei tempi del Talmud è una pratica universale osservare la mitzvà delle luci di Hanukkah alla maniera di mehadrin mm hamehadrin. Ci deve essere una continua ascesa progressiva al servizio di D-o.
Nonostante ci si possa continuamente elevare nel servizio di D-o, ciò non è mai sufficiente. Ecco perché le luci di Hanukkah devono essere accese all'entrata della propria casa sull'esterno. Un Ebreo non può accontentarsi che lui personalmente sia illuminato dalla luce della Torà e delle mitzvot. Deve anche illuminare la sua intera casa per assicurarsi che tutti i membri della sua famiglia siano osservanti come lui. Ancor più, le luci di Hanukkah sono poste all'entrata di casa sull'esterno, così che procurino illuminazione anche a chi si trova "fuori" del giudaismo. Un ebreo deve raggiungere gli estranei alla propria fede e portarli vicino alla Torà e alle mitzvot.
Ma ancora, si può e si deve andare oltre. Il lasso di tempo in cui le luci di Hanukkah devono durare è fino a che "i piedi dei Tarmudoi sono cessati". I Tarmudoi erano venditori ambulanti che erano gli ultimi ad andarsene dalle strade. "Fino a che i piedi dei Tarmudoi sono cessati" significa allora che le luci di Hanukkah devono rimanere accese almeno fino a quando questi venditori percorrono le strade.
C'è un significato più profondo di ciò. Le lettere della parola "Tarmudoi" possono essere arrangiate per scandire la parola "moredes" che significa "ribelle". Non è abbastanza raggiungere coloro che sono ignoranti nella fede. Dobbiamo anche cercare quelli che sono attivamente ribelli.
Ancor più, la parola "cessato" in ebraico - "kaliaya" è etimologicamente connessa con la parola "kilayon", che significa "intensa brama di unirsi con D-o". Il nostro compito non è semplicemente di portare i nostri fratelli ribelli vicino al giudaismo, ma impiantare in loro un desiderio ardente di giudaismo. E come tutte le cose nel giudaismo, questo ardente desiderio deve essere tradotto in azione: "i piedi dei Tarmudoi", sono piedi simboleggianti azione, fatti. Questo desiderio di essere vicino a D-o non deve essere confinato al proprio cuore e alla propria mente ma deve permeare ogni fibra dell'essere ebreo: anche i "piedi", la parte più bassa dell'uomo.
Tratto da un discorso pubblico del Lubavitcher Rebbe Shlita
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