La risurrezione secondo Caravaggio

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Nell'anno santo del 1600 Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, si trovava a Roma presso il cardinal del Monte e conobbe quello che fu uno dei suoi massimi estimatori il marchese Vincenzo Giustiniani, ricco banchiere pontificio, di origine genovese. Fu probabilmente quest'ultimo, proprio attorno al 1600, a commissionare al Caravaggio il dipinto raffigurante L'incredulità di Tommaso.
Lo spazio della tela è interamente occupato da tre figure, i discepoli, raccolte attorno al Signore Gesù. Il taglio, diremmo oggi "americano", è quello usato di sovente nella pittura veneta e le figure emergono vigorose da un fondo bruno del tutto anonimo. L'intero dipinto gioca sui toni rosso-bruno e conferisce risalto al color avorio con cui è resa la statuaria figura di Cristo.
Cristo non è al centro della scena ma, fulcro della studiata composizione dei quattro personaggi, è la testa di Tommaso. Ed è proprio il movimento brusco e insieme titubante dell'incredulo apostolo che ci coinvolge.
Nello sguardo perso di fronte al gesto del tutto imprevedibile di Gesù che gli prende la mano e accompagna il dito quasi con brutalità dentro la ferita, c'è tutta la nostra incredulità di fronte al Mistero. C'è ritratto il nostro mondo che trova valido solo ciò che è scientificamente riscontrabile. Come non pensare alle indagini passate e recenti a cui certa scienza sottopone veggenti o oggetti misteriosi quali la Sindone o la tilma di Juan Diego? Eppure Cristo si lascia esaminare perché egli non è un "fenomeno", ma una Presenza Reale e come tale signoreggia sul quotidiano trasfigurandolo, Egli è Signore della storia e del cosmo, ne sovverte le leggi senza comprometterle né alterarle.
Gli altri due discepoli accompagnano nel gesto e nello sguardo lo sbigottimento del primo. Non sappiamo chi in essi Caravaggio abbia voluto rappresentare, forse nessuno degli apostoli di Cristo, ma due anonimi discepoli in cui poterci davvero riconoscere e con i quali confrontarci.
Un discepolo, quello più anziano al centro, completamente nascosto dagli altri due, ha lo stesso volto del servo che tiene il cavallo di Paolo nel dipinto della Conversione dell'Apostolo, realizzata proprio in quegli anni dal Caravaggio per la Chiesa di San Luigi dei francesi. Certo Caravaggio si era avvalso dello stesso modello. Una certa somiglianza con quest'anziano discepolo la riscontriamo anche con uno dei due discepoli di Emmaus nella versione dipinta in quello stesso periodo per Ciriaco Mattei. E' noto che il Merisi era solito dipingere senza il supporto del disegno, cosa scandalosa a quel tempo, ma faceva uso di modelli che ritraeva direttamente sulla tela sovrapponendoli l'uno all'altro secondo l'impianto scenico da conferire alla sua opera. I suoi modelli erano presi dalla strada, erano compagni della vita sregolata che lo stesso pittore conduceva. Perciò in questi tre discepoli vogliamo riconoscere non un Tommaso o uno dei dodici, ma quegli "altri" che anche l'evangelista Luca lascia nell'anonimato e nei quali possiamo ravvisare tutta l'umanità.
Tutta l'umanità nei panni sofferti della povertà, come denuncia lo sgualcito abito di Tommaso, della passione scritta nel rosso del mantello del secondo apostolo, un'umanità inesorabilmente piegata verso Cristo, verso le sue piaghe benedette dalle quali sprigiona una pace ineguagliabile.
La pace è scritta nel dolce reclinare il capo del Risorto, così mite, così attento che i suoi intendano bene il segreto della sua Pasqua, la verità di questa vita nuova che non è aliena dal presente, ma che dentro la storia canta di un'altra storia, di un'altra vita. E così in quel dito tanto grossolanamente piantato nel fianco di Cristo, ruota ormai ogni destino, anche il nostro. Qualcuno ha toccato il Verbo della vita, è divenuto testimone di una comunione con il divino inaudita, mai da alcuno sperimentata e nel vortice di questa comunione, nell'esperienza unica di questo "toccare" ha attirato tutti noi, noi che ancora mangiamo e beviamo con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

La luce viene da sinistra, l'ombra incombe da destra. Ma anche dietro al Risorto c'è oscurità, un'oscurità che vela il mistero della sua provenienza. Il futuro è minacciato dalle tenebre, ma dalla rivelazione, dalla Parola nuova e antica viene la luce. Cristo, infatti, è interamente bagnato dalla calda luce che invade la scena, Cristo che è dipinto da Caravaggio con il panneggio e la statuaria compostezza della antica arte classica, mentre gli astanti, i discepoli vestono i panni comuni dell'epoca dell'autore: anche qui il messaggio è chiaro, la memoria del passato, e di "quel" passato che è eterno oggi, salva il presente.

Quattro teste in una relazione simbolica disarmante, si legano, si richiamano, mentre tre di esse si orientano verso la quarta, il capo di Cristo. Pare la parabola della Tanak (acrostico di torah, nevi'im, ketuvim), la scrittura ebraica tradizionalmente distinta in tre parti (che lo stesso risorto in Luca menziona): la legge, i profeti, gli scritti, Tanak che indaga e insieme addita, ma più ancora riceve luce dall'imprevedibile Parola del Vangelo la quale, in una piaga, annuncia lo sgorgare perenne di una nuova vita, di un nuovo popolo, di una nuova salvezza offerta a tutti.

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