Da "La vita in Cristo" di Nicola Cabàsilas

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Da vita in Cristo,VI,2. PG 150,645-648.

Chi ama possiede due mezzi per riportare vittoria: fare del bene all'amato secondo ogni modo possibile, o soffrire per lui atroci tormenti. Quest'ultima prova di amore è di gran lunga superiore alla prima. Ora, Dio era nell'impossibilità di soffrire, dato che è impassibile. Amico degli uomini com'è, Dio poteva colmare l'uomo dei suoi benefici, ma era incapace di patire piaghe e dolori per lui. All'amore infinito mancava il segno che lo manifestasse.
Eppure Dio non poteva più lasciarlo ignorato e nascosto. Per mostrarne l'immensità e per convincerci del suo amore estremo, escogitò il suo annientamento e si rese capace di soffrire mali e tormenti. Così, con tutto quello che avrebbe sopportato, Dio sarebbe stato in grado di testimoniare la straordinarietà del suo amore e avrebbe ricondotto a sé il genere umano. Infatti gli uomini lo fuggivano, credendosi l'oggetto della sua ostilità.
C’è ancora qualcosa di più sorprendente. Il Signore non subì soltanto i più atroci supplizi finendo col soccombere alle torture. Quando risuscitò, dopo aver strappato il corpo alla corruzione, conservò le piaghe e si presentò agli angeli coperto di cicatrici, come cinto di un ornamento e compiaciuto di mostrare ciò che aveva patito. Ormai il suo corpo glorioso si è spogliato di ogni pesantezza, senza più dimensioni, mutamenti o altre proprietà corporee; però ha voluto mantenere piaghe e cicatrici, stimando doverle proprio conservare per amore dell'uomo. Non l'ha forse ritrovato grazie alle proprie piaghe? Non ha forse preso di nuovo l'amato grazie alle sue trafitture? Altrimenti come spiegare la presenza sul suo corpo glorioso di quelle lesioni che la natura o la chirurgia pòssono far sparire sopra corpi mortali e corruttibli?
A quanto pare, il Signore avrebbe voluto soffrire molte volte per noi. Ma non era possibile, perché il suo corpo non era più soggetto alla corruzione. E poi voleva risparmiare agli uomini il delitto di tormentarlo ancora. Perciò stabili di conservare sopra di sé i segni della sua immolazione, di conservare in eterno il marchio delle ferite impresse una volta per sempre durante la crocifissione. Nel suo ineffabile splendore eterno, egli rimane il crocifisso che ha il costato trafitto per salvare gli schiavi, e le piaghe sono il suo regale ornamento.
A cosa paragonare un simile amore? L'uomo sarà mai capace di amare tanto? Quale madre è così tenera verso la sua creatura? Quale padre è così affettuoso con i propri figli? Un uomo giusto potrà mai dar prova di un amore cosi sragionevole al punto da sopportare i colpi di colui che ama, serbando intatta l'amicizia verso l'ingrato, e da stimare infinitamente preziose le ferite ricevute?
Non pago di amarci, il Signore ci tiene in grandissima stima. Il colmo dell'onore che ci fa è di non arrossire delle nostre debolezze fisiche e di sedere sul trono regale coperto di quelle piaghe che ne sono il retaggio. Dio non ha elevato in dignità la nostra natura a danno di chiunque sia, ma ci invita tutti alla corona celeste. Tutti ci ha liberati dalla schiavitù e gratificati della filiazione divina. A tutti apre il cielo e mostrando la via e il modo di volare, da anche le ali. Anzi, non ancora soddisfatto, lui stesso guida, sostiene e incita gli infingardi che siamo. Non è ancora tutto. La dedizione del Signore verso i suoi servi va oltre: egli non si accontenta di renderci partecipi dei suoi beni e di venirci in aiuto, ma consegna se stesso a noi. Cosi diveniamo tempio del Dio vivente e membra del corpo di Cristo, di cui i cherubini adorano il Capo. E le mani e i piedi di quel Corpo, ossia noi, vengono retti e dipendono dal Cuore divino.

Da vita in Cristo,VI,2. PG 150,645-648.

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