Le parole con le quali Gesù annunzia ai suoi, con insistenza sempre nuova, che dovrà patire e morire, racchiudono qualche cosa di speciale, a cui vogliamo rivolgere ora la nostra attenzione. Questo affiora già prima, quando gli avversari esigono che egli compia il grande prodigio messianico. Egli risponde che nessun prodigio sarà concesso a quella generazione incredula, tranne il prodigio del profeta Giona. Poi il significato recondito:« Come Giona stette tre giorni e ,tre notti nel ventre del cetaceo, così starà il Figliuol dell'uomo tre giorni e tre notti nel seno della terra» (Mt XII 40). Nelle solenni predizioni della sua passione, che si succedono durante l'ultimo viaggio a Gerusalemme - in tutte e tre - si dice che egli patirà e morirà, ma al terzo giorno risorgerà. Ora, se si dice, a proposito degli apostoli, che « non intendevano nulla di questo discorso, ed era oscuro per essi, talmente che non lo capivano » (L IX 45), senza dubbio è da ritenere che riesce loro oscuro, diciamo pure incomprensibile, per il loro modo di raffigurarsi il Messia, come l'inviato di Dio debba andare incontro alla morte - ma ancora più oscure debbono essere statele parole circa la resurrezione. La luce non venne che a Pasqua. Racconta Luca: « Essendosi esse (le pie donne) impaurite, e tenendo china la faccia a terra, quelli (i due personaggi) dissero loro - Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è più qui, ma è resuscitato: rammentate quel che vi disse quand'era ancora in Galilea e diceva: È necessario che il Figliuol dell'uomo sia dato nelle mani di uomini peccatori, e sia crocefisso, erisorga il terzo giorno - » (L XXIV 5-8). Da queste parole, come da tutta la linea della vita del Signore, una cosa balza chiara: che la sua vita ha messo capo alla morte, ma - attraverso la morte - alla resurrezione. La nuda morte, nella coscienza propria di Gesù, non c'è. Egli stesso ha proclamatola sua morte, e ne ha parlato con crescente insisten-za, ma sempre in modo che alla morte, stava indissolubilmente vincolata la resurrezione. Si dice che i discepoli, i quali ne fanno cenno, volessero a que-sto modo far salire a un'epoca precedente quella fede che in realtà ebbero chiara soltanto a Pasqua, e questo (si aggiunge) si rifletterebbe nelle parole di Gesù circa la sua morte imminente.Tutta la sua predicazione avrebbe avuto carattere escatologico fin dall'inizio, vale a dire sarebbe stata ispirata in pieno dall'attesa di un prodigio venturo. Quest'attesa gli evangelisti se la sarebbero attribuita, in base alle predizioni sulla resurrezione, dalla fede dispensata loro più tardi. Non è facile confutare siffatte obbiezioni. Si potrebbe dire: se i discepoli hanno anticipato nel tempo il fatto della resurrezione, perché non hanno anticipato pure la conoscenza specifica di quel fatto? Perché mettersi nella condizione meschina di persone ignoranti che abbandonano il loro Signore? Ma' cosi non si procederebbe punto, perché ad ogni argomento si opporrebbe sempre un argomento contrario, e ad un'espressione geniale un'altra più geniale ancora. Tutti questi pensieri non entrano nel merito della questione. In fondo, non vi è che la fede. La fede, beninteso, allo scopo di predisporre e gettare le fondamenta, si vale di ogni suggerimento della storia e della psicologia, ma l'elemento decisivo si ha unicamente attraverso la grandiosa trasformazione, secondo la quale l'uomo non si erige più a giudice di Gesù, ma da lui impara e lo ascolta. Il criterio di ciò che può essere o no, il fedele non lo desume da una possibilità psicologica o storica, ma lo riceve dalla stessa parola del Signore. Qui poi sta il fatto che Gesù non ha parlato della propria morte se non associandola alla propria resurrezione.
Ha vissuto Gesù la nostra vita umana? Perfettamente. Ha sperimentato la nostra morte? Senza alcun dubbio. La nostra redenzione dipende dal fatto che egli « è passato per ogni prova,allo stesso modo (nostro), fuor del peccato » (Eb IV,15). Eppure, oltre la sua vita e la sua morte, si cela qualche cosa che trascende vita e morte concepite in senso stretto; qualche cosa a cui noi, in fondo, dovremmo dare un nome diverso da quello di vita e di morte - o a cui, per la meno, come avviene in Giovanni, dovremmo serbare esclusivamente il nome di « vita », dando invece a tutto il resto un nome nuovo, il quale non tenesse che un riflesso del primo. In Gesù vi era un'esuberanza infinita e una sacra inviolabilità, in virtù delle quali gli era possibile essere in tutto uno di noi e, nonostante ciò, in tutto diverso da noi; vivere la nostra vita, ma per ciò stesso mutarla e strappare così il pungiglione alla nostra vita e alla nostra morte (I C XV 56). La nostra vita - che strana cosa! È il presupposto d'ogni altra realtà: la prima che, se in pericolo, desta quella incondizionata reazione che chiamiamo « legittima difesa » e che ha il suo proprio diritto. Preziosa realtà, così preziosa che il miracolo della vita, a volte, può dar le vertigini - e ci si interrompe, e non si sa con quali termini descrivere adeguatamente la gloria di essere. Gioisce, rinuncia, soffre. Lotta e crea. Si unisce alle cose e, in tale unirsi, le anima. Si disposa ad altre vite, e non ne risulta una somma, ma cose nuove e varie. È per noi il fondamento e il principio di tutte - eppure quanto ci torna strana! O non è forse strano che noi, per guadagnare una méta, ne dobbiamo abbandonare un'altra? Per compiere positivamente qualche cosa, dobbiamo decidere, ossia staccarci dal resto? Volendo essere giusti con gli uni, facciamo torto altrui, fors'anche semplicemente per questo, che non riusciamo a comprenderli nell'occhio e nel cuore, perché l'occhio e il cuore non hanno posto per tutti. Nell'atto in cui l'esperienza ci fornisce dei dati, non possiamo avere la percezione immediata di tutto il processo. Poi, appena prendiamo consapevolezza, per ciò stesso interrompiamo il.corso di quel processo. Mirabile cosa l'essere vigilante! Ma noi ci stanchiamo e, affidandoci al sonno, sfuggiamo a noi stessi. Fa bene dormire, ma non è avvilente che una metà della vita si debba consumare nel sonno? Vivere è unità: vuol dire essere presenti a se stessi e assimilare quello che ci circonda; serbare integra la propria personalità frammezzo ai fenomeni, e saper immettere, dall'altro lato, in ogni singolo atto, la pienezza del tutto. Senonché, dappertutto si annunziano incrinature. Dapper- tutto si pone il dilemma: o questo o quello. E guai se recalcitriamo, perché l'onestà della vita dipende proprio dall'impostare nettamente il dilemma. Non appena presumiamo di piacere a tutti, diveniamo spregevoli. Non appena cerchiamo di cogliere tutto, non abbiamo più nulla in ordine. Non appena mettiamo mano al tutto, la nostra personalità si sfalda. Allora ci gettiamo in una decisione netta. Ma di nuovo: guai a noi! Noi dilaniamo la nostra esistenza. Proprio, la nostra vita ha qualche cosa d'impossibile. Essa deve volere ciò che non può - come quando in un piano determinato si inserisce fin dall'inizio un errore che .poi influisce su tutto. E la fugacità, l'ineluttabile fugacità! È possibile che una realtà debba esistere unicamente al prezzo della sua distruzione? Non è la vita nulla più di unpassaggio? E non accelera il passo questo fatale andare nellamisura della intensità con cui viviamo? Non si muore già mentre si vive? Non corrisponde a un'esasperante verità la definizione biologica che fa della vita il moto verso la morte? D'altro lato, che paradosso definire la vita in funzione della morte! Ma è giusto poi quanto si afferma a proposito della morte? Dobbiamo proprio accettare le conclusioni della biologia? Le ricerche scientifiche insegnano che nei primi tempi i popoli sperimentavano la morte altrimenti da noi. Non la sentivano affatto come naturale, quasi il normale polo opposto alla vita. Per il loro sentimento la morte non ha bisogno di essere, e non ci deve neppure essere: se sopravviene, vuol dire che si rimonta verso una causa speciale, e precisamente verso una maligna potenza spirituale- anche. là ove si tratti di una vita ormai consumata,o di una sciagura, o della morte in guerra. Cerchiamo un po' di prender la cosa sul serio. Persuadiamoci: dov'è in gioco il senso supremo dell'esistenza, il semplice mortale potrebbe essere anche più' competente del dotto. È proprio così naturale la morte? Se lo fosse, ci si dovrebbe adattare, e precisamente con il sentimento di un supremo dovere,sia pur così duramente, pagato. Ma dov'è una morte siffatta? Vi è chi sacrifica la propria esistenza per un grande ideale, oppure, stanco sotto la pressura delle miserie della vita, accoglie la morte come una liberazione. Ma v'è un uomo solo che affermi la morte come un piano coronamento della sua esistenza? Io non l'ho ancora trovato, e quanto ho sentito a questo riguardo non era altro che chiacchiere intese a nascondere timore. L'atteggiamento normale dell'uomo di fronte alla morte è un atteggiamento di difesa e di protesta, che parte precisamente dall'intimo del suo essere. La morte non è naturale, e ogni tentativo d'intenderla a questo modo si risolve in un'infinita malinconia.
Questa nostra morte e questa nostra vita si appartengono a vicenda. Il romanticismo, assumendo vita e morte come i due poli dell'esistenza, quasi luce e tenebre, altezza e profondità,aurora e tramonto, dà prova di un vacuo estetismo, sotto il quale si nasconde un inganno infernale. Ha però un'anima diverità: la nostra attuale vita e la nostra attuale morte si appartengono a vicenda. Sono due pagine di una sola ed identica realtà. E appunto questa realtà in Gesù non c'era. In lui era qualche cosa di trascendente sulla vita e sulla morte.Questo non ha però impedito che egli la vivesse totalmente almodo nostro - anzi appunto di là egli trasse la vita con puritàe profondità radicalmente diverse da quanto non sia possibile anoi. È stato notato quanto fosse povera la vita di Gesù; quanto precaria di contenuto, di eventi e di incontri... La vita di Buddapare abbia sperimentato tutte le cose del mondo, dei sensi e dello spirito: potenza, arte e saggezza, famiglia ed isolamento, ricchezza e di nuovo rinunzia assoluta; soprattutto par essergli toccata in sorte una vita lunga, e con questo la possibilità di spe-rimentare della vita ogni evenienza e triste e lieta. Stranamentebreve, al contrario, la vita di Gesù; povera di contenuto; frammentaria in opere e in azioni. Un giorno poi la vita del Signore prese forma di sacrificio, di rifiuto da parte del mondo, e inquesto modo la sua figura non poteva essere ricca. In compenso,ciò che egli viveva, ogni tratto dell'esistenza, ogni azione edogni incontro, li sperimentava con una profondità e con una forza travolgente. Quando incontrava il pescatore e il mendicantee il centurione, vi era qualcosa di ben più grande che non quando Budda imparava a conoscere cosa significhi vita umana...Gesù ha realmente vissuto la nostra vita, e sperimentato la nostramorte. È proprio morto della nostra morte, e lo sgomento eratanto più formidabile quanto più casta e forte era in lui la vita.Ciononostante tutto si compiva in lui diversamente che in noi.
Qual è, in fondo, il costituitivo della vita umana? Agostino ha un pensiero che, a primo incontro, ci apparestrano, ma che poi introduce molto addentro nella natura dell'esistenza. Parlando dell'anima umana e della natura spirituale de-gli angeli, egli pone il quesito se siamo immortali, e risponde: no. Evidentemente, l'anima umana non potrebbe morire come il corpo; spirituale, e quindi indistruttibile, in essa non vi è luogo a scomposizione. Ma questa non è ancora l'immortalitià, di cui parla la Sacra Scrittura. Quest'ultima non sgorga dall'anima stessa, ma da Dio. Il corpo ha la sua vita dall'anima, e in questa si distingue dal bruto. La natura del corpo umano consiste nel fatto che la sua vita erompe dall'anima come un arco di luce. A sua volta, la vita dell'anima, della quale parla la Rivelazione, viene da Dio in quell'arco di luce che si chiama «grazia ». Di questa vita poi non partecipa soltanto lo spirito, ma pure il corpo. L'uomo di fede vive tutto di Dio, corpo ed anima. Soltanto così va intesa la vera, sacra immortalità. Dio ha plasmato misteriosamente la vita umana. L'intimo del suo essere deve elevarsi direttamente a Dio, e attingere da lui la sua vita. La vita umana deve procedere dall'alto, non dal basso. È la vita del bruto che procede dal basso. Il corpo umano deve desumere la sua vita dall'anima spirituale; l'anima, da Dio e, mediante l'anima, tutto quanto l'uomo. È appunto questa unità vitale dell'uomo che la, colpa ha infranto. Colpa fu precisamente la volontà umana di vivere da sé, autonoma, « come Dio » (Gn 111 5). L'arco di luce, allora, si estinse. Tutto crollò. Rimase, beninteso, l'anima spirituale che, immortale, non poteva distruggersi, ma il suo non era che un fantasma di immortalità: l'immortalità di una pena. Pure il corpo c'era ancora, ché in esso era l'anima; ma questa, semispenta, non era più in grado didispensare quella vita che Dio aveva vagheggiato per l'uomo. Così la vita era nello stesso tempo ordine e confusione, stabilitàe passaggio. Appunto questo è diversamente in Cristo. L'arco di luce inlui rimane divinamente puro e forte. In lui si chiama non solograzia, ma Spirito Santo. La natura umana assunta da Lui vivedi Dio nella pienezza dello Spirito. Per opera dello Spirito eglifu concepito, e nella pienezza di tale Spirito si attua la sua vita. Non solo come la vitaa di un uomo amante di Dio, ma come vitadi Uno che è ad un tempo uomo e Dio. Di più: essere uomocome Cristo può soltanto colui che non è solo « unito » a Dio,ma che è Dio. Vale a dire, la sua umanità è altrimenti vivente dalla nostra. L'arco di luce tra il Figlio di Dio e la natura umana di Gesù - soltanto il nostro povero intelletto parla di interferenza, là dove invece è una penetrazione di incomparabile intimità quest'arco di. luce è quel qualche cosa di cui parlavamo. Esso sta oltre la sua vita e la morte. Da lui Gesù vive la nostra vita d'uomo, e muore della: nostra morte d'uomo, più profondamente di quanto sia dato a noi, e appunto per questotrasformando e l'una e l'altra. Da lui si fa diversa pure la nostravita e la nostra morte. Di là sorge una nuova possibilità di vita e di morte.
Al capo decimosettimo di Matteo leggiamo: « Sei giorni dopo,Gesù, presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, li condusse in disparte sopra un monte. E fu trasfigurato dinanzi ad essi, e il suo volto risplendette come il sole, e le sue vesti divennero bianche come la neve. E ad un tratto apparvero loro Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prese a dire a Gesù: - Signore, è buono per noi lo star qui; se a te piace, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia -. Mentre egli parlava ancora, una nube risplendente li avvolse. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: - Questo è il mio Figliuolo prediletto, nel quale mi son compiaciuto: ascoltatelo -. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò loro e disse: - Levatevi,e non temete -. E, alzati gli occhi, non videro nessuno, tranne Gesù. E nello scendere dal monte, Gesù ordinò loro così: Non parlerete di questa visione con nessuno prima che il Figlio dell'uomo non sia risuscitato da morte» (1-9). L'ultima frase collega l'avvenimento coll'annunzio della passione e resurrezione. La scena si pone tra la prima e la secondapredizione ed avviene durante l'andata a Gerusalemme. Si potrebb'essere tentati di concepire il tutto come una visione. E sarebbe anche giusto, a patto di intendere per visione il modo speciale di concepire il fenomeno di cui si tratta, che cioèqualche cosa di sottratto alla esperienza umana entri in questaesperienza con tutto il carattere misterioso e inquietante di tale irrompere. Lo insinua anche l'indole dell'apparizione: così la luce, che non è la luce consueta dell'universo, ma quella delle sfere interne, luce intellettuale; o la nube, che non è il noto fenomeno meteorologico, ma qualche cosa per cui non c'è nessun termine adeguato - chiarità che vela; dato celeste che, pur rimanendo impenetrabile, si fa manifesto. Della visione essa ha infine la subitaneità: come le figure vengono e vanno improvvisamente, e come si sente la desolazione dell'angolo della terra abbandonato dal cielo. Però, se è così, visione non implica qualche cosa di soggettivo, non un'immagine posta comunque in risalto,ma il modo di concepire una realtà superiore - così come l'esperienza dei sensi rappresenta il modo di concepire la realtà corpo.rea di ogni giorno. Questo avvenimento non solo investe Gesù,non solo si riferisce a lui, ma erompe anche da lui. È unarivelazione del suo essere. In essa si manifesta ciò che è in lui:quell'elemento vitale superiore ad ogni forma di vita; quell'arco di luce di cui discorremmo. Il Logos è entrato come luce celestiale nelle tenebre della natura caduta. Ma le tenebre resistono. «Non lo comprendono»(G I 5). Respingono verso l'interno la sua carità bramosa di espandersi - sofferenza che trascende ogni intelletto umano, nota a Dio solo! La via dì Gesù s'immerge nelle tenebre, sempre piùin profondità, fino a « l'ora vostra » (dei nemici) e a « la potenza delle tenebre » (L XXII 53). Qui però, sul monte, rifulge perun istante la luce, e si manifesta la Luce che è venuta in questo mondo, e che sarebbe capace di « illuminare tutto » (G 1 9). Sulcammino che conduce alla morte brilla come un lampo quella magnificenza che può essere rivelata soltanto al di là della mo-te. Quanto fu detto della morte e del risorgere prende figura e si rende visibile. Ancora: ciò che qui appare chiaro, non è una gloria del purospirito, ma dello spirìto attraverso il corpo, del corpo nello spirito, dell'uomo. Non soltanto magnificenza del Signore, qualeera nell'arca santa, ma la magnificenza del Verbo di Dio nel Figlio dell'uomo. E l'arco di luce. L'Unità ineffabile. La Vita nata a dominare vita e morte: vita del corpo, ma dallo spirito;vita dello spirito, ma dal Verbo; vita di Gesù-Uomo, ma dal Figliuol di Dio.
Così la Trasfigurazione è il lampeggiare della futura resurrezione di Gesù e il pegno della nostra propria resurrezione, poiché una tal vita ha da venire pure in noi. Esser redento vuol dire appunto aver parte alla vita di Cristo. Anche noi dobbiamo risorgere. Anche in noi il corpo dovrà essere trasformato dallo spirito, e lo spirito da Dio (I C XV). Anche in noi, in noi come uomini, dovrà ridestarsi la beata immortalità. Questa è la vita eterna in cui noi crediamo. Eterno non vuoldire unicamente incessante. Questo, dacché Dio ci ha creati esseri spirituali, ci compete per natura. Ma la indistruttibilità del nostro essere come tale non è ancora la vita eterna e beata della Rivelazione. Questa ci viene esclusivamente da Dio. Questo es-sere eterno non induce, in fondo, nessuna determinazione di durata; non l'opposto di caducità. Nel migliore dei modi si di-rebbe che è la vita eterna, la quale consiste nella partecipazione alla vita di Dio. Questa vita ha da Dio il carattere definitivo, la comprensione,l'unità nella pluralità, l'infinità, l'unità interiore - tutto ciò acui aspira la nostra esistenza quaggiù, e contro la cui privazione noi eleviamo protesta, e dobbiamo elevare protesta per, amoredella dignità di cui Iddio ci ha donati. Nella nuova vita quell'eternità c'è sia per il santo, sia per il più piccolo nel regno di Dio (Mt XI Il). Le differenze si pongono solo dentro l'eternità, e sono indubbiamente grandi come le differenze della carità. Questa vita eterna però non viene soltanto dopo la morte. È già presente. È proprio, infatti, della coscienza cristiana il fatto di essere costrutta sulla fede in questa eternità interiore. In essa si dànno gradi a perdita d'occhio: gradi di luminosità, di forza e di presenza; gradi di decisione, con cui quella vita è valorizzata in noi; gradi di misura, secondo cui viene vissuta ed attuata; gradi a seconda che noi siamo rassicurati della sua presenza unicamente per docilità di fede, o che l'oggetto della nostra fede diviene argomento di esperienza intima. Ad ogni modo è sempre vero che anche in noi, oltre la nostra vita, oltre la nostra morte, elargito per grazia ed accolto per fede, vi è quell'inafferrabile che abbiamo detto proprio di Cristo: quell'arco dì luce che la prima volta si squarciò sul monte per ricomparire trionfalmente nella Resurrezione.
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