Gesù-Luce e il cieco nato

Tracce delle lezioni 9 – 10

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Gv 9,1-42 – La guarigione del cieco nato:

Il discepolo del Logos incarnato – «Luce del mondo»

Bibliografia utile:

Oltre ai commentari (Brown, Schnackenburg, Simoens, ecc.), riferirsi a:

L. Devillers, La saga de Siloé, Cerf, Paris 2005, pp. 129-163.

A. Marchadour, «Un cieco: discepolo illuminato, Gv 9», in: I personaggi del Vangelo di Giovanni. Specchio per una cristologia narrativa, EDB, Bologna 2007, pp. 89-96.

1. Ambientazione strutturale:

– Segalla: Libro dei segni e dei discorsi di rivelazione (2,1–12,50)

2. Prima sezione: da Cana a Cana (2,1–4,54), ossia la rivelazio­ne progressiva di Gesù e la sua accoglienza nella fede da parte di persone diverse.

3. Seconda sezione: Gesù e le feste giudaiche (5,1–10,41), in cui
scoppia un conflitto ed un’opposizione sempre maggiore contro di
lui nell’ambiente giudaico di Gerusalemme; segni e discorsi di rive­lazione in rapporto fra loro e conclusione intermedia (10,40-41).

4. Terza sezione: Gesù e la sua prossima morte (11,l–12,36a): segno climax della risurrezione di Lazzaro e cammino verso l’ora della morte come morte salvifica (11,49-52; 12,23-33).

– van den Bussche (1958)

o Il “giorno di Gesù” (la vita pubblica come rivelazione velata della gloria):

§ Introduzione

§ Segni del Messia (2-4)

§ Opere del Figlio dell’Uomo (5-10)

§ La salita a Gerusalemme (11-12)

o L’ora di Gesù (la rivelazione della sua gloria)

§ La lavanda dei piedi 13

§ Due discorsi d’addio 13-14 e 15-16

§ La preghiera dell’ora 17

§ La passione e le apparizioni del Risorto 18-20

Fine 20,30-31

21 = appendice

– M. Gourgues (1983): il criterio strutturale è la risposta alla rivelazione. Il libro dei segni (1-12) organizzato intorno alla due fasi distinte della rivelazione di Gesù:

il tempo delle opzioni: 1,19–6,71

il tempo del rifiuto: 7–12

1.1. Sezione delle feste ebraiche

L’unità letteraria:

1) L’inclusione 5,18 – 10,30-33

2) Tematica: le feste ebraiche a Gerusalemme (eccetto 6)

3) Dramma: minacce di morte in ogni sequenza (4)

Il culmine delle polemiche – in Gv 10

La cristologia è sempre più elevata: Gesù si pone sullo stesso piano che Dio

L’inclusione della sezione 5,18–10,33

è Gv 5,18:

18 Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma diceva che Dio era suo Padre, facendo se stesso uguale a Dio.19 Gesù rispose e diceva loro: «In verità, in verità vi dico: il Figlio non può fare nulla da se stesso se non ciò che vede il Padre fare. Ciò infatti che fa lui, lo fa ugualmente il Figlio. 20 Il Padre infatti ama il Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, ed opere più grandi di queste gli mostrerà, in modo che voi ne rimaniate stupiti.

è 10,30-33

30 Io e il Padre siamo uno». 31 I Giudei raccolsero di nuovo delle pietre per lapidarlo. 32 Gesù rispose loro: «Vi ho mostrato molte opere buone da parte del Padre. Per quale di queste opere mi lapidate?». 33 Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu che sei uomo, ti fai Dio».

Le feste:

1) Sabato – 5,1-47

2) Pasqua, “la festa dei giudei” – 6,1-71

3) La festa delle Capanne || Tabernacoli || Tende – 7,1–9,41 (Succot)

4) La festa della Dedicazione del Tempio (Chanukah) 10,1-42 (v.22).

III sezione: scene che preludono alla morte imminente 11,1–12,34

Conclusione del libro dei segni e delle rivelazioni 12,35-50

1.2. Gv 7–9: una struttura chiastica?

A. 7,1-13 I familiari di Gesù vogliono che mostri le sue opere

B. 7,14-31 L’origine di Gesù (indemoniato 7,20), tentativo di prenderlo (7,29)

C. 7,32-52 L’identità di Gesù: Messia?

D. 8,12-38 Gesù luce del mondo

C’ 8,21-38 L’identità divina di Gesù (Io sono)

B’ 8,48-52 L’origine di Gesù (indemoniato, tentativo di ucciderlo (8,59)

A’ 9,1-41 Le opere di Dio che si rivelano tramite Lui

Il dramma di fondo: la ripetuta divisione di fronte a Gesù: 7,43; 9,14

è Gv 7,43: Si creò allora una divisione fra la gente a causa di lui.

è Gv 9,16: Dicevano allora alcuni dei farisei: «Quest’uomo non è da Dio, perché non osserva il sabato». Altri però dicevano: «Come può uno, che è peccatore, compiere tali segni?». E c’era divisione fra di loro.

Lo sfondo liturgico unitario: la festa delle capanne:

motivo dell’acqua

motivo dei 4 lampioni (luce)

Centro: discorso di rivelazione: Gv 8,12: Gesù parlò di nuovo, dicendo: «Io sono la luce del mondo. Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

2. Gv 9: L’episodio del “cieco nato”.

Rivelazione di Gesù “luce del mondo”

Il testo continua in maniera naturale i capp. 7–8.

8,12 è ripreso in 9,5: 9:5 «Fintanto che sono nel mondo, sono luce del mondo»

Con la realizzazione del segno, il processo intentato a Gesù nei cc. 5–8 si trasferisce sul miracolato: viene espulso dalla sinagoga. Il cieco diventa la prima pecora che il buon Pastore conduce ai pascoli abbondanti (cap. 10).

2.1. Il contesto più ampio

La sezione che va da 5,1 a 12,50 presenta tre direttrici parallele:

L’ambiente storico-culturale è costituito dalla sequenza di alcune tra le più significative festività giudaiche: il Sabato, la Pasqua, le Capanne, la Dedicazione del Tempio e, nuovamente, la Pasqua.

Il contesto dialogico-narrativo vede il confronto costante tra Gesù e i giudei e un dibattere costante secondo le categorie retoriche e generalmente culturali del giudaismo.

• I cinque «miracoli» (segni) che si compiono hanno un pregnante valore cristologico e il vocabolario è incentrato sull’opposizione infermità-morte / (salute)-vita / luce-tenebre.

A quest’ultimo proposito sono significativi i seguenti testi:

Gv 5,3.5.7: infermità;

Gv 5,6.9.10.11.13.14.15: salute;

Gv 5,21.25.26; 12,24-25: morte-vita;

Gv 11,1.2.3.4.6: infermità;

Gv 11,4.13.14.16.21.25.26. 32.37.39: morte. Si possono osservare qui anche i termini connessi ai soprammenzionati, come: sonno, dormire, sepolcro, pietra, lacrime, bende, sudario; Gv 11,11.23.25.26: destare, vita, risurrezione; Gv 11,25, dichiarazione di Gesù: io sono la risurrezione e la vita; Gv 8,12; 12,35-36.46: luce, tenebre.

Il senso di questi capitoli è ben comprensibile: si tratta della sostituzione dell’alleanza e delle sue istituzioni, proposta da Gesù. Purtroppo, essa non può essere compiuta pacificamente a causa dell’ostinazione dei loro rappresentanti, che non accettano un simile il cambiamento. L’agire taumaturgico di Gesù è il segno che la dinamica che si sta imponendo è un’altra. Si tratta qui della vitalità di un agire divino che fa uscire in maniera soteriologica gli esseri umani dalla morte anzitutto a partire dall’ascolto che essi danno e daranno alla Parola: «la guarigione del cieco nato e la risurrezione di Lazzaro sono il punto più alto della rivelazione per mezzo di segni. Gesù è la luce e la vita: un filo conduttore del pensiero cristo­logico, che aveva cominciato a svolgersi fin dal prologo»[1].

2.2. Il contesto più immediato

Il cap. 9, occupato dalla guarigione del giovane cieco dalla nascita, parla di un risanamento che chiarifica bene, a partire dalle reazioni multiple che ne derivano, quale sia la cecità essenziale da cui l’essere umano è, secondo Gesù, chiamato a guardarsi: l’incapacità di guardare a Dio come a chi propone una logica di vita responsabilizzante, non un mero codice di precetti. Nei w. 39-41 Gesù risponde così alla pervicace ostilità dei capi giudei:

“Io giunsi in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma ora dite: Noi vediamo e il vostro peccato rimane”.

La capacità di vedere come vivere al meglio passa inequivocabilmente attraverso una presa di posizione nei confronti di Gesù senza compromessi possibili. Secondo R. Schnackenburg «o si opta per la luce oppure per le tenebre. In questa scelta si attua il giudizio divino, la sentenza di vita o di morte». Chi, come i giudei, è convinto di possedere la verità, si preclude da solo la via della vita piena, dunque della salvezza, perché non comprende il senso della luce, della rivelazione portata da Gesù»[2]. La guarigione del cieco nato è emblematica perché «manifesta l’accecamento volontario dei giudei ormai irreversibile, che li esclude da tutti i privilegi accordati da Dio al popolo eletto; questo sarà sostituito dal nuovo gregge che ascolta la parola di Gesù e lo segue (cap. 10)[3]».

3. Un cieco nato guarito divenuto discepolo: spiegazione del testo

Per cogliere il messaggio del racconto con una certa profondità, troviamo utile il commento di Alain Marchadour che qui seguiremo quasi alla lettera[4].

Il cieco nato – anonimo come la Samaritana del cap. 4 – è uno dei personaggi più avvincenti del quarto vangelo. Il racconto evoca altre guarigioni di ciechi nei vangeli, ma l’originalità di Giovanni è tale da rendere impossibile ogni paragone. A differenza del cieco di Gerico (Lc 18), questo non chiede nulla. È in persona Gesù a condurre gli avvenimenti, di volta in volta, nel tentativo di spiegazione della cecità che apre il racconto, nell’iniziativa di rendere la vista al cieco e nell’intervento finale, che porta il cieco al compimento dell’itinerario sul quale Gesù lo ha posto. Il capitolo è anche un istante di un clima nuovo, più fresco, che viene al momento giusto dopo i capitoli 7 e 8, piuttosto carichi di minacce e di violenza.

3.1. L’introduzione: 9,1-5

I suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (vv. 2-3).

Il racconto si articola bene con i suoi precedenti: l’ostilità accumulatasi contro Gesù nei capitoli 7-8 si concentra qui su qualcuno, perché sta per diventare discepolo di Gesù. L’acqua della piscina di Siloe, importante per la festa dei tabernacoli, accoglie ora l’uomo cieco. Gesù, «luce del mondo», in Gv 8,12 si scontra con l’accecamento dei giudei che sono chiusi a questa luce. Qui, lui che è la «luce del mondo» (9,5) apre gli occhi di un cieco e, con questo segno, svela in modo ancora più chiaro l’accecamento dei capi giudei.

I primi cinque versetti introducono i personaggi e i temi del racconto. Gesù è il personaggio centrale, colui che vede il cieco, che interpreta in anticipo la scena (il segno come manifestazione della gloria), che associa i suoi discepoli (che riappaiono per la prima volta dopo il capitolo 6) alla sua opera (dobbiamo compiere) in una sentenza di rivelazione misteriosa (vv. 3-5). Gesù è certamente il Signore, signore degli avvenimenti e delle persone. Tuttavia di fronte all’enigma della sofferenza e del male, presente qui sotto forma di domanda fatta dai discepoli: «Chi ha peccato?», Gesù tace. È vero che il problema della sofferenza sembra posto in modo tale che così nessuna spiegazione regga. Questi primi cinque versetti sono centrati su Gesù e sulla sua parola rivelatrice.

3.2. La guarigione: 9,6-7

Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Siloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

Oltre a questo racconto alla terza persona, Giovanni metterà per due altre volte il racconto del miracolo sulla bocca del cieco. Il narratore è infatti concentrato sulle discussioni provocate da questo segno e le sue conseguenze per il cieco. Gesù non pone direttamente la saliva sugli occhi del cieco, ma fa del fango e con questo ne copre gli occhi. Questa messa in scena sottolinea che Gesù ha iniziato un lavoro la cui efficacia simbolica apparirà soltanto dopo il passaggio del cieco alla piscina di Siloe. La traduzione della parola Siloe, «inviato», fa del cieco un messaggero obbediente e prepara la sua testimonianza successiva. A differenza di Naaman, l’ufficiale lebbroso dell’Antico Testamento che resisteva alla domanda del profeta Eliseo di andare a bagnarsi nel Giordano (2Re 5,10), il cieco crede subito all’efficacia della parola di Gesù. Il seguito del racconto conferma la sua sorprendente comprensione, la sua disponibilità alla novità e la sua capacità di difendere la sua causa e soprattutto quella di Gesù suo guaritore. Progressivamente entra nel ruolo di discepolo e dimostra per questo una disponibilità e uno spirito di discernimento che contrasta con la passività del paralitico della piscina di Betzaetà (Gv 5,1-15).

Nelle scene successive, Gesù scompare lasciando il cieco guarito a condurre da solo la difesa del suo Guaritore che conosce appena[5]. Ma la persona e l’identità messianica, di Gesù, allargata alle nozioni della divinità (figlio dell’uomo di Daniele), occupano il centro del dibattito. Mentre la maggior parte dei testimoni lo rifiuta, per spirito legalista o per paura, l’uomo guarito si riveste progressivamente degli abiti del discepolo, teologo e apologeta.

3.3. Il cieco e i suoi vicini: 9,8-12

Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!» (vv. 8-9).

Il cieco guarito è oggetto di tre domande e le prime due sono preliminari al dibattito sull’identità del Taumaturgo (Gesù): è proprio il cieco che conoscono? E com’è che è diventato vedente? Il cieco racconta dettagliatamente il segno in termini che riprendono quasi parola per parola i versetti 6-7. Il miracolo è talmente meraviglioso che il narratore non smette di raccontarlo. Mentre invece, alla terza domanda: «Dov’è questo tale?» confessa la sua ignoranza. Gli rimane ancora un lungo cammino da percorrere prima di andare oltre il segno dato, fino ad affermare la sua fede in Gesù, luce del mondo. Al momento Gesù è per lui un semplice guaritore, l’uomo che si chiama Gesù di cui ignora la dimora. Bisogna che passi dalla luce degli occhi alla luce della fede. Ma già il passaggio di Gesù nella vita del cieco e fra gli uomini incomincia a dividere gli uomini in coloro che accettano il segno e coloro che non lo vogliono ricevere.

3.4. Il cieco e i farisei: 9,13-17

Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro (v. 16).

L’interrogatorio delle autorità religiose permette all’Evangelista di introdurre una informazione taciuta fino a questo momento: il segno è stato operato in giorno di sabato. Perciò il lavoro di Gesù nel giorno di riposo lo mette in contraddizione con la Legge, secondo l’interpretazione più rigorosa. Qui si contrappongono due discorsi, che traducono due opposte interpretazioni della venuta di Gesù in mezzo agli uomini:

per alcuni, l’attività fisica di Gesù e quella del cieco sono in contraddizione con le prescrizioni della Torah: c’è stata dunque una violazione della Legge e, da parte di Gesù, peccato contro la Torah;

per altri, al contrario, il ristabilimento del cieco nella sua integrità fisica non può essere che un’azione positiva: colui che ne è il responsabile non può quindi essere peccatore.

La separazione fra gli uomini nei confronti di Gesù si approfondisce. L’opposizione tra la violazione del sabato (che è opera di Dio) e la guarigione del cieco per ora rimane irrisolta. Ma si delinea un conflitto tra il diritto come la casistica rabbinica lo ha sviluppato (che è contro Gesù) e il fatto per il cieco di essere passato dalla cecità alla visione (che non può provenire che da un inviato di Dio). Non è senza ironia che il cieco venga preso come arbitro e si collochi già al di sopra del dibattito impegnandosi sulla persona di Gesù: «È un profeta». È possibile che il cieco arrivi alla sua affermazione fondandola sulle Scritture, che attribuiscono al messia la missione di illuminare le nazioni e aprire gli occhi ai ciechi (Is 42,6-7; cf. anche Is 29,18; 32,3; 35,5).

3.5. I farisei e i genitori: 9,18-23

I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso» (vv. 20-21).

Finora i genitori del cieco erano stati menzionati solo come eventuali responsabili della sua cecità, secondo l’antica legge di retribuzione (9,2). Ora riappaiono di nuovo, convocati dai «giudei»[6]. La risposta dei genitori è composta da due doppie asserzioni: le prime due sono delle certezze, e le seconde sono il riconoscimento di una ignoranza. Perché è il loro figlio secondo la carne, sanno chi è e ciò che è (cieco dalla nascita). Ma per quanto riguarda il segno e il suo autore, essi confessano la loro ignoranza.

In questo dialogo si contrappongono due tipi di conoscenza: una secondo la carne, l’altra secondo lo Spirito. La seconda attiene al mistero di Cristo, che ha operato in favore del loro figlio, e che rimane per loro inaccessibile, tanto che essi non sono coinvolti in un cammino di fede. Questa reazione dei genitori potrebbe quindi capirsi nella logica del racconto. Ed è interpretata dal narratore come una reazione dei genitori che temono di essere esclusi dalla sinagoga[7]. Ma al solo livello del racconto, l’isolamento progressivo del cieco sottolinea che credere in Gesù è sempre un processo personale per il quale nessuno (nemmeno i genitori) può sostituirsi al discepolo, chiamato a impegnarsi in solitudine e libertà. Per i cristiani di tutti i tempi, a un certo punto sarà necessaria una scelta personale, alla quale nessuno potrà sottrarsi. È l’ora della libertà, della decisione e anche della solitudine. Nel caso del cieco, questa scelta non è priva di rischio, dal momento che lo porta alla rottura con la propria religione e con la propria comunità di vita.

3.6. Secondo interrogatorio del cieco: 9,24-34

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo» (vv. 24-25).

L’intervento dei genitori si conclude con queste parole: «Ha l’età. Chiedetelo a lui!». Ormai il cieco è entrato nella solitudine, armato del suo coraggio e della sua lucidità per affrontare i suoi giudici. Il cieco può apparire certamente isolato di fronte ai potenti farisei che lo interrogano. Tuttavia, con lui, è anche la comunità cristiana che si impegna: al «noi sappiamo» dei giudei (v. 24), risponde il «noi sappiamo» (v. 31) del cieco e della Chiesa che egli qui rappresenta. In realtà qui sono contrapposti due tipi di conoscenza:

il primo (quello dei farisei, assimilati ormai ai «giudei») crede che solo il passato sia normativo per capire l’evento-Gesù («Noi sappiamo infatti che a Mosè Dio ha parlato»). A questa certezza essi oppongono la loro ignoranza sull’origine di Gesù: «Ma costui non sappiamo di dove sia». Così, come capita spesso nel vangelo, il segno non è obbligante; resta aperto a due interpretazioni. I farisei considerano la violazione solo in rapporto al diritto (quest’uomo è un peccatore perché ha lavorato in giorno di sabato) e rimangono chiusi alla novità del fatto accaduto (un cieco ha riacquistato la vista).

Il secondo tipo di conoscenza è affermativo quanto il primo: il cieco e attraverso di lui la Chiesa primitiva proclamano: «Noi sappiamo». Questa conoscenza si radica in un fatto che è un avvenimento obiettivo controllabile: «Ero cieco e ora ci vedo». Qui i criteri del passato sono impotenti: perché ciò che avviene, attraverso l’intermediario Gesù, è inaudito nel vero senso della parola: «Non si è mai sentito dire». La conoscenza della Chiesa privilegia la novità manifestata in Gesù attraverso i suoi segni e il suo insegnamento.

L’itinerario del cieco si conclude. Allo sguardo umano, per lui è una sconfitta. Non soltanto non ha saputo convincere i suoi interlocutori, ma è stato rifiutato dal suo ambiente religioso e umano. Tuttavia l’esclusione non è l’ultima tappa del suo percorso, perché esso sfocia in una nuova integrazione nella comunità di Gesù. La parola dei giudei, con una ironia tutta giovannea, riprende la sentenza dei discepoli sul cieco nato «peccatore»: «Sei nato tutto nel peccato e vuoi insegnare a noi?» (9,34). I giudei dimostrano di non essere cambiati rispetto all’inizio. Non hanno «visto» il segno e manifestano in questo modo la loro cecità.

L’espulsione del cieco dalla sinagoga avvia il racconto alla sua conclusione. Compare una logica di esclusione in rapporto al giudaismo ufficiale dominante, la cui causa è da ricercare nello statuto cristologico di Gesù nella rivelazione ebraica. Per gli uni, egli è un peccatore, uno che viola la Legge. Per il cieco e il «movimento di Gesù», è un profeta confermato da Dio. Fino a questo punto il cieco si colloca ancora nella sfera della fede giudaica; l’esclusione ne ha fatto uno scomunicato, ma non ancora un credente in Gesù. Gli rimane da compiere un passo per il quale è necessaria la presenza di Gesù.

3.7. L’ingresso nella comunità: 9,35-38

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontrandolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto; colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi.

Gesù ritorna per accogliere l’uomo espulso. Per questo gli fa fare il passaggio decisivo dal «Gesù profeta» al «Gesù figlio dell’uomo», il Salvatore che fa entrare nella comunità degli ultimi tempi. Nel conflitto che lo opponeva ai capi del giudaismo e in definitiva «ai giudei», ha dato prova di intelligenza, di lucidità per interpretare l’avvenimento Gesù. Qui Gesù gli rivela l’avvento della nuova comunità sotto la guida del «Figlio dell’uomo». Il cieco si prostra davanti al «Figlio dell’uomo», riconosce la sua divinità, perché in Giovanni l’adorazione è riservata a Dio (4,20-24; 12,20). In Giovanni il titolo «Signore» segna l’identità divina di Gesù. L’adorazione di Gesù, riconosciuto rivelatore definitivo di Dio, costituisce l’apice del percorso del cieco.

Il successivo capitolo 10 dimostra che il percorso dell’uomo guarito non si conclude con la sua espulsione dalla sinagoga. Egli fa il suo ingresso nella nuova comunità, presentata nel capitolo 10. L’uomo guarito segue colui che entra dalla porta e che le pecore ascoltano, che chiama ciascuna col suo nome e le conduce fuori. «E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce» (10,4).

***

La scena del cieco si trova alla fine di una grande sezione del Vangelo di Giovanni, i capitoli 5–10. In questa tappa in cui la resistenza a Gesù si inasprisce, il cieco si è comportato da discepolo[8]. Egli entra in scena in modo attivo già dal suo ritorno dalla piscina. Presente in cinque delle sette scene del racconto, si oppone alle autorità con molta finezza e determinazione. Lungo tutto il racconto, la posta in gioco riguarda l’identità dell’assente, colui di cui si parla: «L’assenza di Gesù dal versetto 8 al versetto 34 è la più lunga di tutto il Vangelo di Giovanni»[9]. Egli testimonia sia attraverso la memoria del segno di cui ha beneficiato (lo racconta due volte in 9,11 e in 9,15) sia attraverso la qualità della propria testimonianza. «Se le autorità rappresentano ciò che vuol dire il rifiuto di Gesù con l’incredulità, lui raffigura certamente il modello di ciò che significa “accettare Gesù nella fede” [...]. Egli appare come un modello di ciò che vuol dire “essere discepolo di Gesù”»[10]. La sua prova e il suo percorso sono come l’illustrazione delle tappe attraverso le quali il discepolo passa per accogliere colui che è la Luce del mondo.

Riassumendo il percorso finora fatto:

Dopo il Prologo (1,1-18), un implicito magnificat che canta riconoscente la salvezza degli uomini resi figli di Dio dalla Parola che si è fatta uomo, si passa al

Il Corpo centrale ha due parti, chiamate Il libro dei segni e Il libro della gloria. La prima (1,19-12,50) inizia presentando la figura di Giovanni che prepara la persona di Gesù. Questi dà avvio alla sua attività chiamando attorno a sé il gruppo dei discepoli, fondamento della comunità ecclesiale. L’opera di Gesù si prolunga nei segni (= miracoli) e nei discorsi. I segni sono 7 (2,1 ss; 4,46ss; 5,1 ss; 6,1 ss; 6,16ss; 9,1 ss; 11,1 ss), frutto di un’accurata cernita dell’evangelista che li raggruppa nel numero biblico che indica la pienezza, la totalità.

Alla rivelazione di Gesù corrisponde la reazione degli uomini: c’è l’accoglienza benevola del giudaismo ufficiale rappresentato da Nicodemo (3,1 ss), del giudaismo eretico personificato nella samaritana (4,1 ss) e persino del mondo pagano che si identifica nel funzionario regio (4,46ss). Ma la reazione più frequente alla persona di Gesù è quella polemica: si profila dopo la guarigione del paralitico (5,10ss) e diventa sempre più massiccia, fino ad occupare intere sezioni (7-9). L’iniziale polemica finisce per diventare ostilità e quindi aperta decisione di eliminazione (11,53). Questa prima parte mostra il dramma che attraversa tutto il vangelo: Cristo, la luce venuta per portare la vita, è messo a morte. Non mancano i chiari indizi di vita, come la parole di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (6,68) o la clamorosa risurrezione di Lazzaro (11,1ss). Il cap. 12, concludendo la prima parte, contiene il prezioso riferimento al chicco di grano che muore per dare la vita (12,24) e la programmatica affermazione di Gesù: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).



[1] cfr. J. Mateos - J. Barreto, Il vangelo di Giovanni, Cittadella, Assisi 51995, p. 236.

[2] R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia 1977, vol. II, pp. 11-12.

[3] A. Poppi, Sinossi dei Quattro Vangeli, II, Messaggero, Padova 41994, p. 403.

[4] A. Marchadour, 89-96.

[5] In tutto il vangelo, è il passo nel quale l’assenza fisica di Gesù dura più a lungo.

[6] I farisei qui sono chiamati «i giudei» (capi increduli del giudaismo che diventerà sempre più di stampo farisaico-rabbinico). È un indizio che tradisce un autore e un lettore che hanno già preso le loro distanze dalla religione ebraica.

[7] È possibile che l’Evangelista esprima qui i rischi che comportava la fede in Gesù alla fine del I secolo. I discepoli erano allora esclusi dalla sinagoga, con una sorta di scomunica, che non si conosceva al tempo di Gesù. Verosimilmente al tempo dell’assemblea di Jamnia, alla fine del I secolo, la preghiera ebraica nota con il nome di shemone esre («le diciotto benedizioni») è stata integrata con una dodicesima benedizione, che riguardava direttamente i giudeo-cristiani: «Che i notzrim [i giudei che hanno seguito Gesù] e i minim [i giudei eretici] scompaiano in un batter d’occhio; che siano cancellati dal libro dei viventi e non siano annoverati tra i giusti. Benedetto sii tu Signore che sottometti i superbi».

[8] Si veda J.W. Holleran, «Seeing the Light. A Narrative Reading of John 9», in Ephemerides Theologicae Lovanieneses 69 (1993) 5-26.

[9] D.R. Beck, The Discipleship Paradigm. Readers and Anonymous Characters in the Fourth Gospel, Brill, Leiden 1997, 94.

[10] J.W. Holleran, «Seeing the Light», 20.

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