Le nozze di Cana in Giotto e il vedere di Maria

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La settimana della nuova creazione
Giovanni non a caso inizia il suo Vangelo con le stesse parole del libro della Genesi: in principio - en archè. Giovanni presenta infatti Gesù come il Verbo creatore che inaugura una nuova creazione.

Dopo il prologo, il Vangelo continua con la narrazione di una settimana in cui si celebra il passaggio dall‘antica alla nuova economia, una settimana dove Giovanni il Battista compie la sua missione e Gesù la incomincia.
Ricalcando i ritmi del primi sette giorni della creazione l‘evangelista colloca nel primo giorno la testimonianza del Battista, cioè il diradarsi delle tenebre attorno al Messia grazie allo sguardo capace di verità del Battista.

Nel secondo giorno ecco che le acque benedette del Giordano vedono arrivare il Benedetto, Colui che solo è in grado di santificare e purificare: Gesù il Cristo, additato dallo stesso Battista

Terzo giorno: germogliano i primi virgulti attorno al Germoglio per eccellenza, quello della radice di Jesse, il Cristo. Gesù chiama a dimorare con lui (cioè a mettere radici): Andrea - che in quello stesso giorno porterà a Gesù il fratello Simon Pietro - e un discepolo ignoto, tradizionalmente identificato con lo stesso apostolo Giovanni.

Il quarto giorno, che nella Genesi vede nascere la scansione del tempo in giorno e notte per mezzo dei luminari grandi e piccoli, ecco che Cristo si reca in Galilea e chiama altri suoi discepoli. Isaia aveva predetto che la Galilea, terra di Zabulon e di Neftali, terra tenebrosa, avrebbe visto sorgere la vera Luce e qui Gesù si manifesta come colui che ha adempiuto la legge e i profeti (le luci minori della storia della salvezza che indicano la Grande Luce della Presenza di Dio nel mondo) e chiama altri due discepoli i quali a loro volta risplenderanno come fiaccole di verità.

Si giunge così all‘episodio delle nozze di Cana che inizia con un‘annotazione temporale: tre giorni dopo. Calcolando i precedenti quattro giorni siamo, pertanto, al settimo giorno. Siamo nel giorno del compimento, siamo nel giorno del riposo, siamo nel giorno della comunione fra Dio e l‘uomo.
Siamo però anche nel giorno delle nozze. Alcuni rabbini di fronte a questo testo hanno letto non tre giorni dopo, come troviamo nelle nostre traduzioni, bensì il terzo giorno u-ba-yom Ha-shelishi cioè martedì. Il martedì era, presso gli ebrei, il giorno classico per stipulare le nozze, in quanto Khephel ki-tobh, giorno del doppio «era cosa buona» (cfr. Gn 1,10-12). Sebbene, infatti, il Talmud proponesse il mercoledì come giorno delle nozze, il popolo ha sempre preferito il martedì proprio perché in esso Dio benedice due volte: prima la terra e poi i semi che dalla terra germoglieranno.
Una tale interpretazione rompe la scansione della settimana che completa il rimando a quel Principio con cui Giovanni inizia il suo Vangelo, tuttavia è suggestiva.
Nella Genesi anche il sesto giorno, quello della creazione dell‘uomo, contiene una doppia benedizione, prima sugli animali, dei quali Dio disse «sono cosa buona», e poi sull‘uomo e sulla donna, sopra i quali Dio disse sono cosa molto buona.

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C’era la Madre di Gesù L‘episodio delle nozze di Cana si apre dunque all‘insegna di un giorno benedetto, il giorno delle nozze eterne fra Dio e l‘umanità. La menzione del terzo giorno, tuttavia, getta su questa festa anche l‘ombra del dramma. Tutta la Scrittura è costellata da accenni a questa scansione temporale: tre giorni durò il cammino di Abramo verso il monte Moria; tre giorni Giona rimase nel ventre del pesce; per tre giorni Gesù restò chiuso nel sepolcro.
Tre giorni segnano lo scoccare di un‘ora, quella per cui Cristo è nato. Non a caso protagonista dell‘evento è la Vergine Maria: Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c‘era la madre di Gesù (Gv 2,1).
Come nel primo giorno della settimana inaugurale Giovanni aveva presentato come testimone autorevole nel grande processo intentato contro Gesù il Battista, ora al culmine della settimana ecco la seconda testimone, ancora più autorevole del primo: la Vergine Madre.
Sul numero tre gioca anche Giotto che, nella celebre Cappella degli Scrovegni, ci permette di entrare nella sala del banchetto di nozze e vedere con Maria, il primo dei sette grandi segni narrati da Giovanni nel suo Vangelo.
Tre, infatti, sono gli invitati per ogni lato del tavolo, tre hanno l‘aureola e tre sono senza aureola, tre sono le giare in primo piano, tre i testimoni del miracolo. Tre sono anche i lati della sala che ci è consentito vedere, opportunamente sottolineati da un elegante cornicione di legno intarsiato. La sala, dunque, si apre generosa allo sguardo dell‘osservatore: vediamo tuttavia solo tre dei suoi quattro lati. Il quarto lato è quello in cui noi siamo immersi ed è anche quello in cui è chiamato in causa il nostro vedere.
Fedele agli intenti dell‘Evangelista, Giotto ci avverte che a questo banchetto tutti siamo invitati perché si tratta del banchetto ultimo, quello messianico promesso dai profeti.
I personaggi sono, in totale, 11. Questo è l‘inizio, è il luogo dove si svela qualcosa della sua gloria, ma non è ancora il compimento, manca ancora quell‘uno all‘appello per realizzare la totalità simbolicamente inscritta nella dozzina. E che questo banchetto sia per la totalità lo dicono gli intarsi e le decorazioni lungo le pareti della sala che propongono il tema del quadrifoglio, antico segno bene augurale ma anche, nella sua forma quadripartita, rimando alla totalità della terra (i quattro punti cardinali).
Ad affrettare il manifestarsi della gloria di Gesù è la Madre.
Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino» (Gv 2,3).
Siamo lontani qui dall‘insistenza con cui Giovanni ha usato nel capitolo precedente il verbo vedere. Giovanni infatti, per dirci che Maria si è accorta della carenza di vino, in questo caso non usa il verbo vedere. Qualche riga sopra l‘evangelista aveva narrato di come Natanaele si fosse meravigliato perché Gesù aveva mostrato di averlo visto sotto il fico e, di fronte allo stupore del discepolo trasformatosi subito in fede in lui, Gesù rispose: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!» (Gv1,50).
Maria vede già, prima di ogni altro, queste cose maggiori. Ella partecipa intimamente allo sguardo di Gesù. Perciò vede e il vedere di Maria è tutto racchiuso in quella frase lapidaria: non hanno più vino.
Nell‘affresco di Giotto nessuno pare essersene accorto: non il paggetto che si appresta a tagliare il pane, non quello ozioso e tranquillo a braccia conserte. Vede solo Maria e pare oltretutto vedere ben oltre la semplice mancanza di vino, continua infatti il testo: Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,4-5) Pare un battibecco familiare e sconcerta un po‘ la frase di Cristo a sua Madre. Sconcerta ma lascia nel contempo intravvedere un oltre a cui la Madre allude con la sua richiesta, un oltre che Cristo intuisce.
Non è ancora giunta l‘ora di Gesù l‘ora, cioè, della sua rivelazione che sarà sigillata dalla croce e dalla relativa risurrezione gloriosa. Ma come si può parlare di morte e di risurrezione durante un banchetto di nozze? E perché poi considerare un anticipo dell‘ora, il miracolo sul vino? Perché non un miracolo sulla morte, una risurrezione, come quella che verrà operata di lì a poco con Lazzaro?

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Lo sguardo triste della Maddalena Nella bibbia il vino è detto sangue dell’uva e nell’acino d’uva è racchiusa la benedizione di Dio. Un rabbino non sciuperebbe mai un acino d’uva, perché il suo nettare ricorda il patto d’amore fra Dio e l’uomo. Il vino è anche la bevanda della festa, appunto, e dunque è simbolo di gioia e di quelle realtà spirituali cui l’uomo anela. Qui, due sposi, non hanno più vino, non hanno la gioia. Hanno, sì, l’amore ma un amore svuotato del suo significato più recondito.
Lo sposo che siede accanto a Gesù è l’apostolo Giovanni, senza aureola però. Come vuole l’antica tradizione è lui lo sposo e le nozze si celebrarono quando non era ancora discepolo di Cristo. Il viso è sereno eppure distante, sembra guardare nel vuoto più che verso la sposa. Le mani sono conserte, inattive. Forse Giovanni guarda verso l’antro buio che si apre alle spalle della Vergine Madre.
La sposa, vicina a Maria, è seria, quasi presaga del dramma. Si tratta della Maddalena, identificata con la Maria sorella di Marta e di Lazzaro. Quando Giovanni l’abbandonerà per seguire il Maestro, ella non si darà pace, per questo verrà simbolicamente invasa dai sette demoni. Sarà cioè in balia di quei sette vizi capitali che Giotto raffigura attorno alle pareti della Cappella, insieme con le sette virtù corrispondenti. Benché la leggenda aurea (che riporta tali fatti) contesti l’identificazione tra la sposa di Giovanni e la Maddalena essa ha tuttavia influenzato l’iconografia cristiana attorno alla santa. In ogni caso quello che Giotto vuole dirci è che il cammino di Giovanni e della Maddalena è anche il nostro cammino, un cammino che, dietro a Cristo, trasfigurerà i nostri vizi nelle virtù di cui il Figlio riveste i suoi.
La Maddalena porta l’abito rosso, come il vino che manca, come la tappezzeria della sala, come l’abito di Gesù, di Maria, del Maestro di Tavola, dell’altro discepolo con l’aureola, forse Andrea. (Andrea fu discepolo del Battista e questo apostolo è lo stesso presente al Battesimo di Gesù e possiede lo stesso volto e lo stesso abito dell’Andrea che siede in trono nella schiera dei dodici che attorniano Cristo giudice).
L’abito rosso della Maddalena dice il suo legame con l’amore che solo può dar senso al miracolo, ella però è ancora imbrigliata dentro le strettoie delle sue prospettive umane, non è capace di vedere oltre l’amore per Giovanni. Con la mano destra compie un gesto singolare. Non si comprende bene perché, pare che regga qualcosa. Forse un fior d’arancio, come le porrà in mano Caravaggio secoli più tardi? Forse traccia con le dita una sorta di scongiuro per il presentimento della tragedia imminente? Non sappiamo. Resta un gesto misterioso che non sembra sfuggire allo sguardo attento della donna accanto a lei. Questa donna potrebbe essere la sorella Marta.
C’è Maria di Magdala, c’è Marta ma dov’è Lazzaro? Lazzaro è oltre la porta buia, come intuirà anche Vermeer - probabilmente ispirandosi proprio a Giotto - secoli più tardi. Non a caso, infatti, Giotto colloca al di là di quella porta buia, nell’affresco successivo, l’episodio della risurrezione di Lazzaro. A questo affresco è rivolto il gesto della Maddalena, della Madonna e quello benedicente di Gesù.

Gesù benedice tre volte nello stesso modo in questa parete: nelle nozze di Cana, nella risurrezione di Lazzaro, nell’ingresso trionfale di Gerusalemme. Tre gesti uguali che mettono in correlazione le scene. La gloria che si manifesta a Cana è quella stessa che si rivela con la signoria di Cristo sulla morte nella risurrezione di Lazzaro e quella che si compirà in pienezza nell’ultima settimana della sua vita a Gerusalemme, iniziata appunto con l’ingresso trionfale di Cristo nella città santa.
Dunque per Giotto, come per l’evangelista Giovanni, l’ultima settimana di vita del Cristo e la prima settimana del suo ministero sono dunque in stretta correlazione.
Lo sguardo triste della Maddalena non è allora semplicemente presago dell’imminente abbandono da parte del marito, ma è lo sguardo miope di chi si sente in balia degli eventi, di chi è incapace di una lettura di fede della storia. Nel vino esaurito ella rischia di vedere semplicemente e superstiziosamente il segno tragico di un destino avverso. La vita le darà peraltro ragione perché Giovanni l’abbandonerà e Lazzaro morirà. Ma lo sguardo fatalista e ottuso, oggi purtroppo ancora così diffuso, viene come interrotto e chiamato a conversione dallo sguardo di Maria la quale, incurante della resistenza del figlio dice ai servi: fate quello che vi dirà.
In greco abbiamo qui un presente storico. Non «disse ai servi» ma «dice». Non lo disse solo allora in quella determinata circostanza, ma lo dice continuamente in forza di quella comunione di amore e di sguardo che ella vive con il Figlio. Ancora oggi Maria dice a noi di fare secondo la parola del Figlio.

Gesù l’aveva chiamata con uno strano appellativo: «donna», appellativo che suona scortese in bocca a un figlio. Eppure Gesù - come sottolineò anche Giovanni Paolo II in diverse occasioni - attraverso questo appellativo vuole ricondurre tutti noi a quel principio che vide la creazione uscire integra e immacolata dalle mani di Dio. La donna che era stato l’ultimo atto creativo del Creatore, la donna da cui era partita la tragedia del peccato, qui ritorna come riscattata dall’antica schiavitù, capace di vedere.
Giovanni anche sulla croce registrerà questo medesimo titolo sulle labbra di Gesù morente. La prima settimana di ministero pubblico di Gesù, l’ultima settimana della sua vita (quella in cui si consuma il suo mistero pasquale) e la prima settimana della creazione vengono così ancora una volta intimamente legate dalla narrazione giovannea.
Nella Genesi il logos divino, la dabar di Jahvè, si era rivelata capace di operare ciò che esprimeva: Dio disse: sia la luce e la luce fu. E dopo ogni atto creativo Dio vide che ogni cosa era tov, era bella e buona, esisteva nel suo senso pieno e definitivo. Il peccato aveva drammaticamente interrotto questa armonia. Tra parola, senso delle cose e visione si era introdotta una apparentemente irreparabile frattura. Qui Maria riconduce tutto all’unità, dimostrandosi veramente quella donna che doveva essere un aiuto all’uomo nell’amministrazione dei beni creati.
Fate quello che vi dirà. Nella parola di Gesù c’è inscritta la verità della storia, per quanto assurda essa potrebbe sembrare. Non la superstizione di un vino mal calcolato la farà da padrona nella vita dell’uomo, ma l’acqua umile della provvidenza di Dio.

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L’acqua del miracolo
Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d‘acqua le giare»; e le riempirono fino all‘orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l‘acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l‘acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po‘ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». (Gv2, 6-10).

Le sei giare di pietra sembrano scolpite nel tempo come mute testimoni di un evento straordinario. Sono come i sei giorni di pietra di una creazione interrotta. Come i termini di un tempo che non vuole, non può essere redento. Per alcuni le giare di pietra sono il segno dell‘antica economia di salvezza i cui riti di abluzione non riuscivano davvero a purificare l‘anima. Quale sia l‘interpretazione che ne diamo restano il segno di un limite, di una impossibilità ad avanzare. Sei, non dimentichiamolo, è il numero della imperfezione assoluta. È; il sette meno uno. Il numero assegnato alla bestia da Giovanni nell‘Apocalisse è 666, cioè l‘imperfezione assoluta moltiplicata per tre volte.
Giotto le pone in bella vista, tre nascoste e tre in primo piano, diverse tra loro in alcuni particolari, ma tutte uguali nella forma gonfia e tondeggiante che rimanda inequivocabilmente alla forma del ventre dell‘obeso Maestro di tavola.
Un servo sta ancora riempiendo d‘acqua le giare, mentre il maestro di tavola fa l‘elogio del vino eccellente tenuto nascosto. Intanto, un altro servo, forse consapevole del fatto, lo strattona quasi per dirgli: stai prendendo un abbaglio!

Anche qui il vedere dell‘uomo resta limitato alla realtà, all‘aspetto più concreto dell‘esistenza. Il maestro di tavola può riconoscere il vino nuovo solo perché non sa, non ha visto, il fatto dell‘acqua nelle giare. I servi che sanno, che hanno visto, stentano a credere. Al vedere dell‘uomo è chiesto di affidarsi e credere. Mettere a disposizione le giare, i propri atti di culto limitati, i propri giorni di pietra è pur sempre un atto indispensabile. Occorre dar fiducia a Dio anche attraverso l‘offerta del proprio limite della propria vita così com‘è, delle proprie situazioni sclerotizzate incapaci di vita e di anima.
Occorre dare a Dio la nostra acqua perché ci dia in cambio del buon vino e dietro il miracolo di quest‘acqua, lo sappiamo, si adombra già un altro miracolo quello che sarà sulla terra il segno permanente del banchetto futuro che ci attende nei cieli. Il segno dell‘Eucaristia. Su quella tavola l‘acqua fu cambiata in vino, sui nostri altari il vino viene trasformato in sangue, il sangue di quell‘Agnello che ci ha rendenti. Per questo sangue ogni settimana, ogni giorno, è pasqua, è annuncio di un banchetto eterno dove i fedeli imporporano non gli stipiti delle porte, ma le labbra con il sangue sacrificale dell‘Agnello. Molti che vi si accostano non sanno quello che fanno, come il maestro di tavola eppure, proprio per questo sono salvati. Ma quelli che sono chiamati ad essere servi, questi, sono invitati a fare sempre secondo la sua Parola, aderendo allo sguardo di Maria che sa vedere il vino della gioia laddove sembra trionfare l‘acqua stagnante della morte.

Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (Gv 2,11) Così termina l‘episodio Giovanni, senza alcun commento. Il commento è la fede, una fede che ci viene discretamente illustrata da Giotto attraverso altri due servi, quasi estranei agli eventi che si consumano nella sala.
Sono i due paggi che si trovano, davanti a Gesù e alla sposa. Uno, con l‘abito rosa (il rosso trasfigurato dalla luce), è nella quiete della contemplazione e si volge verso il lato sinistro dell‘affresco. È; come rimasto fisso nella contemplazione dello squarciarsi dei cieli avvenuto durante il Battesimo di Gesù. In questo servo è rappresentata la diaconia della preghiera, della vita contemplativa, quella che la stessa Maria, sorella di Marta abbraccerà. Questo servo, restando ancorato alle cose invisibili, vede le visibili conferendo loro la giusta prospettiva e il giusto significato. La sua posizione infatti è tale da fare da perno a tutta la scena.
L‘altro servo vestito di verde, colore della vita e della terra, è invece intento all‘azione. Si appresta ad affettare il pane. Egli rappresenta la diaconia della carità. La sua laboriosità è serena e composta, non c‘è attivismo, c‘è vero servizio reso ai fratelli in nome di Dio. È; questa la diaconia a cui Cristo richiamerà Marta nel celebre episodio che riguarda le due sorelle.
Al banchetto futuro saranno invitati tutti quelli che avranno aderito a questi due comandamenti: l‘amore a Dio e l‘amore al prossimo, la contemplazione e la missione. Questo è il vero amore, quello che tinge di rosso le vesti dei credenti, quello a cui il banchetto eucaristico prepara: come Maria vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio.

Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it

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