Lectio Divina
Chiamati a libertà: il Giubileo tempo di Grazia
Stella Morra - 20 dicembre 1999
Monastero Cistercense - Fossano
La libertà in Cristo: la redenzione
Commento a Lc 4,16-39
Proseguiamo il cammino incominciato nei precedenti incontri sul tema del Giubileo, ma soprattutto sui contenuti del Giubileo. Nei primi due incontri ci siamo mossi sui testi del libro del Levitico, sul breve testo di istituzione del Giubileo, sul capitolo 19 del libro del Levitico “Siate santi perché io sono santo”. Questi due brevi percorsi ci consentivano di avere uno sfondo, che è lo sfondo dell’antica Alleanza, del patto con il popolo d’Israele dentro cui si radica l’idea del Giubileo. L’idea della libertà che il Giubileo porta con sé prende una forma concreta e l’esperienza dell’Esodo diventa l’esperienza, del popolo, della liberazione che Dio porta.
Questa sera (e viene bene perché siamo vicino al Natale) vorremmo fare un piccolo passo avanti, perché questo percorso di libertà e di riconoscimento che il tempo e la terra sono di Dio, cioè non appartengono a noi, trova in Cristo una svolta fondamentale.
Da questa sera in poi ci muoveremo su testi del Nuovo Testamento per cercare di raccogliere, da una parte, tutta l’eredità che viene dalla storia antica, ma anche rivisitarla dentro alla novità portata da Cristo.
Esamineremo una parte del cap. 4 del vangelo di Luca che è, in un certo senso, una sorta di manifesto di questa libertà.
Nella liturgia, normalmente, questo testo viene letto diviso: la prima parte, quella di Gesù che si alza nella sinagoga e legge il rotolo del profeta Isaia e dice: “Oggi questa parola si è adempiuta…”. Poi si legge, a volte, il pezzo in cui la folla vuole gettare Gesù dalla rupe, e poi si leggono le guarigioni.
E’ invece molto significativo il fatto che Luca ci presenti tutto questo come un quadro unitario, in qualche modo. Anche solo ad ascoltarlo si sentono le differenze di tono, di genere. Mi pare che in questa struttura noi possiamo vedere la qualificata differenza segnata da Gesù in questo annuncio di liberazione. C’è una prima parte in cui, leggendo Isaia, Lui dice: “Si è adempiuta questa parola” e dice: “Io sono questa buona notizia”. Poi c’è la reazione degli essere umani di fronte a questo; c’è poi l’azione di Gesù che segue la sua parola: le sue guarigioni. Sono guarigioni tipiche, tipologiche, due guarigioni che individuano un male molto preciso, guariscono da “quel” male, non da un male qualsiasi. Mi sembra bello vedere tutto il “movimento” del testo. Troppo spesso infatti leggiamo la prima parte e crediamo che Gesù è la lieta notizia data ai poveri, ma resta forse un’affermazione teorica perché non ci sono gli altri “pezzi”, la reazione: che cosa succede a noi, agli essere umani, a quelli che stavano davanti a Gesù, a noi, ogni volta che Gesù proclama questa libertà sulla nostra esistenza? E quali sono le opere che dobbiamo cercare intorno a noi, le azioni che mostrano la libertà che Gesù annuncia?
Proviamo a seguire il percorso passo a passo.
Innanzi tutto questo testo inizia a Nazareth dove Gesù era stato allevato: “...ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga”. In una riga e mezza fa il riassunto della vita di un buon adulto ebreo normale, nel posto dove era cresciuto, dove era stato bambino. Questo mi ha molto colpito perché riflettevo su come questo testo, tutto centrato sull’annuncio della grande libertà di Cristo, comincia con il racconto di un’abitudine e di legami con la storia del passato; racconta innanzi tutto la continuità di Gesù rispetto al posto dov’era stato allevato, il suo essere lì, ( tornato addirittura lì: era già andato via, ma era anche tornato lì, dove era stato allevato) e il suo agire normale, quindi in modo abitudinario, secondo una consuetudine che non era solo sua, ma era di tutto il popolo ebreo: entrare di sabato nella sinagoga.
Poi gli viene dato il rotolo del profeta e Lui legge, ed è un’altra azione tipica della vita religiosa di un buon ebreo: tutti i maschi adulti possono e devono leggere, a turno, i rotoli della Torah, pubblicamente, nella sinagoga. E’ l’azione tipica del maschio adulto, cioè è ciò che solo il maschio adulto può fare e deve fare, e il cui dover fare è un privilegio. Ovviamente maschio adulto vuol dire la pienezza del soggetto di fronte a Dio, per l’ebraismo. Si può discutere quanto questa cosa culturalmente sia per noi comprensibile, ma comunque quello che si dice è: colui che, a tutti gli effetti è un soggetto adulto, responsabile di fronte a Dio, fa questo.
Mi sembra che questo sia uno scenario tipico per ciascuno di noi, che ci accomuna tanto a questa storia, a questo annuncio di libertà, quanto ci provochi rispetto a noi stessi, perché dice ciò che, ci piaccia o no, siamo: gente che ha delle radici, che ha un passato, una storia (e ognuno sa la sua), una incrostazione di bene o di male, ricevuto o fatto, di cose che altri ci hanno insegnato e di cui siamo grati, di mali che altri ci hanno inflitto e di cui, per sforzandoci di perdonare, ancora portiamo qualche segno, di beni che abbiamo fatto ad altri e di cui conserviamo ancora un piccolo ricordo felice, di mali che abbiamo fatto e che vorremmo aver cancellato, di ferite aperte che non si rimarginano, di ferite rimarginate che fanno ancora un po’ male. Anche noi, in fondo, torniamo sempre lì dove siamo nati, dove siamo stati allevati. In qualche modo, ci piaccia o no, siamo, o siamo chiamati ad essere, dei soggetti adulti di fronte a Dio dentro una tradizione, che comporta delle regole, della abitudini, da: bisogna andare a messa la domenica a… tutto quello che possiamo immaginare.
Raramente noi pensiamo a tutto questo come all’inizio di una storia di libertà. Molto più facilmente, tutto ciò, a volte, ci sembra un carico, un fardello non particolarmente piacevole. Istintivamente, sentimentalmente, se pensiamo a una “botta” di libertà, pensiamo a una “botta” di novità, di qualcosa che interrompa, cambi, che renda discontinuo. Mi colpisce moltissimo che questo testo, questo grande annuncio di libertà che Gesù fa leggendo il profeta Isaia e questa parola che si dimostrerà efficace nelle opere che poi compie,nasca sotto questo segno.
E allora la domanda numero uno, mi pare, è: tutto ciò che fa di noi ciò che siamo è per noi un’esperienza, un annuncio di libertà, o no? E’ semplicemente un dato di fatto nel novanta per cento del tempo e una fatica nel restante dieci per cento del tempo?
Viene dato a Gesù il rotolo del profeta Isaia e Lui vi legge il passo che dice: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a..” e individua una serie di azioni: mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicare un anno di grazia del Signore. E’, in qualche modo, il manifesto del Giubileo. Questo versetto “predicare un anno di grazia del Signore” è citato sempre in tutti i testi che riguardano il Giubileo, perché è la definizione, una delle definizioni più grandi del Giubileo. Questo testo di Isaia individua, disegna il Regno messianico.
La volta scorsa padre Cesare parlava del ritorno alle origini, del Giubileo che fa tornare al disegno di Dio, ma non è un disegno di nostalgia, che sta nel passato, ma un disegno di attesa, che ci sta di fronte. E’ interessante che i cristiani siano sempre costretti a questo meccanismo strano di ritorno al futuro, perché il disegno originario di Dio che ci ha generati nella sua pienezza, nella storia non è mai stato vissuto: lo vivremo nell’ultimo giorno. E allora dovremo sempre fare questo avanti-indietro dal disegno originario per essere attirati da un futuro.
Il Regno messianico disegna questa realtà: è la meta del santo viaggio. Questo era molto chiaro per un ebreo: è la Gerusalemme celeste, quella in cui i poveri sono lieti, i prigionieri sono liberati, i ciechi vedono, gli oppressi sono rimessi in libertà e c’è un anno di grazia del Signore.
Provocata dai primi versetti di cui vi dicevo prima, mi chiedo: qual è la qualità del nostro desiderio? Verso dove stiamo andando? Con quale bagaglio? Qual è il contorno di quello che per noi sarebbe un anno di grazia? Questa è un’altra questione qualificante perché possano agire le opere della libertà.
Si sente molto parlare, in bene ed in male, delle manifestazioni esteriori del Giubileo, ma in fondo che cosa ognuno di noi si aspetta da questo Giubileo? Forse questa è una domanda da farsi. Innanzi tutto per sé e poi per tutti. Altrimenti rischiamo di essere delusi e di pensare che non è servito a niente, perché, in fondo, non desideriamo niente. Qual è l’anno di grazia del Signore che ci attendiamo? Col nostro fardello con cui ci arriviamo: adulti con delle abitudini, con dei doveri, nel luogo dove siamo stati allevati, con ciò che siamo, con la nostra storia. Arrivando con tutto questo, che domanda facciamo all’anno di grazia del Signore?
Gesù arrotola il volume, lo rende all’inserviente e Luca annota: “Gli occhi di tutti nella sinagoga stavani fissi sopra di Lui”.
Nel testo di Isaia l’unica menomazione fisica cui si fa cenno è la cecità. Ci sono altri testi nei quali il Regno messianico viene legato a: i sordi odono, i muti parlano…
In questo testo l’unica cosa che si dice è: “I ciechi riavranno la vista”. E la reazione immediata della prima parte del racconto è: “Gli occhi di tutti stavano fissi su di Lui”. In qualche modo è come se Luca ci dicesse che già la Parola si è adempiuta: quelli che stanno lì, vedono, vedono Gesù. Ci sarà forse un problema dopo, in quanto forse non è quello che desideravano vedere, o forse non sapevano della loro cecità e quindi non hanno potuto rallegrarsi di “tenere gli occhi fissi su di Lui”.
Gesù dice: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. Mi pare che anche qui Luca “gioca” abbastanza: gli altri lo guardano e Lui parla delle orecchie; mostra come, in fondo, c’è uno spostamento. La Scrittura è la risposta a questi che lo guardano. Sto spiegando in modo letterario per dire una cosa che a me sembra importante: mi sembra che uno dei problemi più grandi che abbiamo nello sperimentare, nel ricevere, la libertà che il Signore ci dà, è l’essere sempre un po’ sfasati nel tempo, avere una grande difficoltà a metterci sul ritmo del Signore, sul fatto che regolarmente, quando Lui ci propone una cosa, noi ne stiamo cercando un’altra, che quando guardiamo ci sarebbe da sentire e quando sentiamo ci sarebbe da guardare; quando uno è sempre un po’ sfasato, alla fine si confonde.
Questo è molto comune, accade spesso nelle relazioni umane, negli affetti, negli amori: si sbaglia ritmo, si ha voglia di parlare quando l’altro non ha parole; ci vuole una grande intimità, una grande consuetudine per riuscire a trovare dei ritmi che non siano fatti di regole stabilite dall’esterno, ma di un respiro comune, per cui ci si conosce così tanto e si sa così tanto star vicino.
Nasce la terza questione per noi: con quello che siamo, e soprattutto aspettandoci qualcosa, desiderando qualche tipo di libertà, forse la nostra questione è trovare una familiarità tale con il Signore, per cui troviamo il Suo ritmo e riusciamo a sentire quando c’è da sentire e a guardare quando c'è da guardare, a riconoscere il gesto e la misura di Dio nei nostri confronti. La Sua misura è immensa, la libertà che ci offre costante, ma molto spesso noi siamo così concentrati su dei pezzi della nostra vita che ci perdiamo tutto ciò che succede intorno. E allora la condizione di tutto questo è la familiarità.
Mi pare che sia una buona domanda: come si trova la familiarità con il Signore? Una consuetudine con Lui?
C’è poi un versetto strano che dice: “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”.Il versetto è strano perché non si capisce a che cosa rendono testimonianza. Che cosa significa? Si capisce quando nei Vangeli si dice che qualcuno rende testimonianza dopo aver visto un miracolo, si capisce quando Gesù richiede la testimonianza e dice: “Tu credi?”.
Ma qui, che cosa vuol dire: “Tutti gli rendevano testimonianza”?
La questione è seria. Gesù dice: “Ora si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito”. E tutti gli rendono testimonianza: che ha ragione, che davvero si è adempiuta questa Scrittura; eppure non hanno visto niente, Lui ha solo parlato, Lui ha solo detto.
La familiarità con Gesù fa rendere testimonianza che la Sua Parola è vera, e non c’è bisogno di provarla: è la storia di un rapporto, di un incontro serio. Nel nostro linguaggio comune noi diremmo: “Io mi fido di lui”.
Tutti gli rendono testimonianza e tutti sono meravigliati: è il segnale che Luca mette dopo la sfasatura dei tempi per dire che c’è un modo: è stare vicini; la Parola è compiuta quando si sta vicini al Signore, quando si ha questa familiarità con Lui che consente di trovare il Suo ritmo. Paolo dice: “Tutto coopera al bene di coloro che credono”. Tutto diventa una prova, una testimonianza.
Poi c’è un improvviso cambio di tono, una frattura. Letterariamente qui si tratta di due brani attaccati insieme, ma nella lettura che noi abbiamo, nel testo, così come è, non è senza logica. C’è la storia di adulti, c’è questo annuncio di libertà la cui condizione è la familiarità e poi c’è una frattura durissima: dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”. Anche Gesù assume un tono polemico e dice: “Forse mi direte: medico cura te stesso…”. Si passa dal tono della familiarità all’altra possibile reazione: dentro un rapporto questa parola è compiuta, fuori da un rapporto, questa parola non si capisce, non c’è una logica.
Lontani da Gesù, si dice di Lui: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, non c’è via d’uscita.
Gesù è molto duro, dice: “C’erano molte vedove al tempo di Elia, eppure fu scelta una vedova di Sarepta in Sidone; c’erano molti lebbrosi al tempo di Eliseo, eppure fu scelto per essere guarito Naaman il siro”.
Gesù dice ai suoi che dentro la storia c’è questa ambiguità. In fondo qui per gli ebrei il tema era: chi appartiene al popolo ebraico e chi no, chi è il bravo maschio adulto che può leggere la Torah e invece… la vedova di Sidone, Naaman il siro, i pagani, che non potevano nemmeno entrare nella sinagoga.
E’ come se Gesù dicesse: la familiarità non è data da un’appartenenza; non basta “stare lì”, non basta dirsi bravi cattolici, non basta stare semplicemente dentro questa storia; la familiarità è data dallo spazio possibile per le opere che liberano, che salvano, e da questo incontro con Lui. Dunque, attenzione alle ambiguità: non scegliete troppo in fretta chi è vicino e chi no, chi ha ragione e chi ha torto, chi è buono e chi è cattivo.
Ma anche, e ancora di più c’è un tema molto forte di ambiguità dei segni. Una domanda per noi: dentro la storia quali segni cerchiamo? Quali sono le cose che ci confermano o che ci mettono dubbi sulla libertà che Dio ha portato?
I segni sono ambigui, perché possono riguardare i pagani, perché possono non essere dati in un posto come questo, la città della sua nascita, la sinagoga, il sabato: il massimo del “giusto” del “tutto ben sistemato”.
Il tema è grande: la nostra storia di adulti, con tutto quello che ci portiamo dietro, la domanda su qual è l’anno di grazia che ci aspettiamo, la questione della familiarità con Dio, tutto ciò sta sotto il segno di un’ambiguità, dell’impossibilità di tracciare confini precisi, di decidere una volta per tutte, di sapere esattamente come vanno le cose, chi ha ragione e chi ha torto, dove stanno le cose giuste e quelle sbagliate, della necessità di interrogare i segni. Mi pare che anche qui l’esperienza del Giubileo è un’esperienza piena di segni: il pellegrinaggio, la porta santa, la visita alle basiliche; è una storia di segni e c’è una grande sapienza nel farci periodicamente rifare l’esperienza che ci sono dei segni e che i segni vanno letti, guardati, pensati. Ma c’è anche l’ambiguità dei segni quotidiani che sono segni dati per spiegare, dunque sono segni “chiari”. Nella nostra vita quotidiana non sappiamo mai se la soglia che stiamo per attraversare è una porta santa o una porta di perdizione, non sappiamo mai bene se il luogo verso cui stiamo pellegrinando è un luogo “segno” della presenza del Signore o no, se la persona che incontriamo ci sta mostrando la povertà di Cristo o che cosa.
Questo tema dell’ambiguità della storia è un tema tipico dell'adultità credente. Usciamo dall’entusiasmo giovanile che sa sempre chi ha ragione e chi ha torto e cominciamo ad essere un po’ più pensosi, a sapere qualcosa di più di noi stessi, della nostra vita, ad essere un po’ più cauti nel decidere chi ha ragione e chi ha torto.
Questa ambiguità è qualcosa che Gesù ripropone: l’anno di grazia è proclamato, ma nella storia sta sotto spoglie ambiguamente interpretabili; come Lui, che è il Figlio di Dio incarnato e di cui si può dire: “Non è forse costui il figlio di Giuseppe?”. La frase non è casuale, non è un insulto qualsiasi, la frase è: è Lui stesso un segno ambiguo, è qualcuno che può essere chiamato con il nome del suo padre in terra che è Giuseppe, e Lui invece è il Figlio del Padre.
“All’udire queste cose tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno. Si levarono, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero sulla cima del monte per gettarlo giù dal precipizio”. Anche qui Luca si dimostra buon conoscitore degli esseri umani. Possiamo essere meravigliati di un annuncio di libertà e anche ammirarlo, ma l’annuncio dell’ambiguità ci angoscia. Quindi si arrabbiano molto e vogliono buttarlo giù da un monte. Cioè vogliono negare il dovere di discernere nei segni che invece viene messo nelle loro mani. Credo che capiti anche a noi così: molto spesso preferiremmo che gli annunci di libertà ci fossero dati preconfezionati; se qualcuno mi dice che cosa devo fare, posso poi decidere se farlo o no, il fatto è che viene rimessa in mano a ciascuno di noi la nostra esistenza, che sarà ancora la stessa cosa che il Risorto farà (pensiamo all’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala, nel quale lei, quando lo riconosce, lo chiama maestro e Lui la chiama Maria, cioè le restituisce il suo nome, le ridà la sua vita). L’incontro con Gesù nei Vangeli è sempre raccontato sotto questo segno: chi ha fede in Lui, chi lo incontra gli domanda qualcosa e Lui rende sempre a se stessi, ti rimette in mano tutta la tua vita.
C’è chi, come i vari pubblicani, dice: “ho sbagliato”, c’è chi, come il giovane ricco se ne va triste. Le reazioni sono molto diverse: c’è chi, come Pietro si agita moltissimo, ma l’operazione di grande libertà, la parola adempiuta della grande libertà, è che ognuno è reso a se stesso, che significa anche reso alla propria ambiguità, alla fatica che noi facciamo a sapere di noi, dei nostri desideri, di quello che ci accade, di quello che vogliamo.Ma questa è la parola compiuta della libertà: essere resi a noi stessi.
Gli uditori di Gesù, secondo Luca, si arrabbiano molto: vogliono buttarlo giù dal monte. “… ma Egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.” Moltissime volte, nel Vangelo, c’è questa espressione. Gesù scatena la discussione, ma poi non vi partecipa. Tutte le volte che c’è una reazione è come se desse questo segnale: da quel punto in poi il problema è loro, non è più suo. Dunque Lui passa in mezzo e se ne va. E’ qualcosa che, in qualche modo, non lo riguarda più, non è più un dato suo, ha fatto ciò che doveva fare, Lui l’ha fatto. Questa dunque è la prima parte: l’annuncio della libertà e la reazione.
Poi ci sono i due racconti di guarigione.
“Discese a Cafarnao…”: va in un’altra città e comincia a compiere le opere delle quali ha annunciato nella lettura del testo di Isaia.
A Cafarnao “insegna”, ammaestra la gente, che rimane colpita dal suo insegnamento, e c’è lo scontro con il demonio, lo spirito immondo che gli dice: “so chi sei, il Santo di Dio”. Gesù gli dice: “Taci, vattene”. E tutti sono presi da paura e dicono: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?”.
E’ chiaro che Luca sta dicendo che la parola che Gesù ha detto nella prima parte “ora si è compiuta..”, che è una parola efficace, una parola che opera, e opera su due cose: sullo spirito immondo e sulla febbre della suocera di Simone.
Il grande annuncio è che la prima libertà che ci viene data è la libertà dalle invisibili forze che ci abitano, la libertà da tutte quelle parti di noi o da quella esperienza di noi che facciamo e che è così difficilmente governabile e che in realtà è la più grande schiavitù che abbiamo: quasi mai sono le cose esterne, o comunque solo in situazioni limite, che ci rendono schiavi; la nostra esperienza quotidiana è che, in fondo, abbiamo un margine di manovra piuttosto ampio, ma è la nostra esperienza interiore che fa di noi, in qualche modo, degli schiavi.
La seconda guarigione, la guarigione della suocera di Simone ci racconta la guarigione da qualcosa che ci viene dall’esterno, che nella vita può accadere. Questa è molto più semplice, non è scenografica come la prima, è banale: qualcun altro chiede per lei la guarigione e Gesù guarisce. La cosa svanisce, ma il risultato è che “lei cominciò a servirli”. Come se ciò che ci libera dal di dentro ci rendesse capaci di “stare”, di “essere”, ciò che ci libera dal di fuori provoca gratitudine e capacità di servizio.
Riflettiamo su queste due dimensioni di libertà: se non siamo liberi dentro, liberi da noi stessi, dalle prigioni che ci costruiamo, non siamo nemmeno persone, ma è vero che poi le mille cose dell’esterno fanno spazio e allora possiamo servire il Signore, cioè possiamo avere lo spazio di cuore, di anima, di energia, di desiderio per fare ciò che serve al Suo Regno.
Questo testo disegna bene questa novità portata da Gesù: è la novità di una parola di libertà incarnata, che non dice solo più i valori, ma libertà incarnata nella storia di Gesù e, dunque, nella nostra storia; l’annuncio di libertà ha i colori e i sapori dei nostri percorsi di vita, di quello che siamo, si fa carico dell’ambiguità e della fatica, ma anche della potenza di risposta della nostra vita quotidiana.
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