Tratto dal libro "Il Signore" di Romano Guardini - Soc. Ed. Vita e Pensiero
Parte V - Cap. III
L'umiltà di Dio
Se ci si immerge nella figura e nel destino di Gesù di Nazareth, si impone presto o tardi un sentimento inquietante: come procede mai questa vita? Può esserci qualche cosa di simile?
Questo sentimento, peraltro, non è di immediato rilievo. Avendo quasi da venti secoli l'immagine della persona e della vita di Gesù nel loro spirito, nel loro cuore, nella loro mente, nel loro sentire, gli uomini hanno disimparato a farsene meraviglia, e ne hanno fatto il canone riconosciuto e. naturale di una esistenza dabbene.
A ogni modo, non appena ci si fa a riflettere seriamente, il problema pulsa alla coscienza: Come risultano la figura e l'esistenza di Cristo? Com'è la vita umana determinata da quella esistenza? Siccome una lotta condotta da secoli ha finito per seppellire gradatamente in molte anime la valorizzazione della figura di Cristo, il problema non è facile. L'immagine dell'uomo, quale è data dalla persona del Cristo, non è da tutti accettata. Dovere, quindi, del fedele, di rendersi tanto più consapevole dove stia riposto quell'elemento caratteristico del cristianesimo contro cui insorge quella opposizione che si fa sempre più profonda e accentuata; tanto più che tale opposizione non sorge unicamente nello spirito e nel cuore degli altri, ma anche in noi - e noi siamo cristiani non soltanto nella volontà e nella fedeltà, ma nella persuasione e nell'essere, unicamente dopo aver visto chiaro la ragione di tanta profondità, e dopo aver fatta nostra in modo vitale l'essenza di Cristo.
Un libro molto assennato ricordava qualche tempo fa come sia mutato profondamente, attraverso la vita e la persona di Gesù di Nazareth, il volto dell'uomo.
Se noi vogliamo vedere come lo concepissero, poniamo, gli antichi, dobbiamo considerare le loro divinità, i loro eroi, i loro miti, le loro leggende: queste rispecchiavano, quasi a modello, figura e destino dell'uomo dabbene. Accanto a questi elementi di nobiltà e di fierezza si delineano pure, senza dubbio, terribili tratti delittuosi, cadute e sterminio; comunque, tali figure e tali avvenimenti hanno tutti qualche cosa in comune: esprimono cioè la sete di grandezza, di ricchezza, di potenza e di onore. Tutto, anche delitti e catastrofi, è valutato a questa stregua. L'ostacolo, come tale, è indegno dell'uomo; e roba da uomini di secondo grado, da gente piccola, sulla quale grava la piaga dell'esistenza; roba da schiavi, che ci sono bensì necessari, ma non rientrano in ciò che è l'uomo.
Quale differenza se da questa concezione posiamo lo sguardo sulla persona di Cristo! L'unità di misura non risiede più nei concetti di grandiosità di vita o di magnificenza umana. Di ben altra cosa si tratta! In questa nostra vita accadono cose che non appartengono a quella figura dell'unico valore assoluto: la stirpe, dalla quale Gesù discende, è decaduta, ed egli è ben lungi dal pensare a reintegrarla; di una corsa alla potenza neppure la più remota idea, ma nemmeno di celebrità filosofica o letteraria. Gesù è povero. Non come un Socrate, la cui povertà ridesta fama di filosofo, ma povero, cosi, semplicemente, realmente. Povero però nemmanco come un diseredato dalla fortuna o come uno dei grandi asceti, cosicché nella sua povertà rifulga una grandezza dolorante o piena di mistero: la sua povertà appare piuttosto come una liberazione dal dover rivendicare esigenze, alle quali del resto è già provveduto.
Gli amici di Gesù non sono uomini d'importanza: né per qualità naturali né per carattere. Non lo sono punto. Chi chiama grandi, umanamente o religiosamente, gli apostoli e i discepoli, desta il sospetto di non aver mai visto vera grandezza, e per di più confonde i criteri di misura, perché essi non hanno nulla a che fare con tale grandezza. La loro nota caratteristica sta nel fatto di esser mandati, e che Iddio pone per mezzo di loro la base della futura storia della salvezza.
Finalmente, quanto alla sorte di Gesù - com'è inquietante e formidabile! Egli insegna, eppure non la vince veramente nemmanco con i propri aderenti, che non lo comprendono. Lotta, e in fondo non è per nulla una vera lotta la sua, ché le potenze non cozzano l'una con l'altra. Il suo operare e i suoi contrasti hanno piuttosto il carattere di uno strano insuccesso: Gesù non soccombe in un grande scontro, ma gli viene istruito il processo. I suoi amici non muovono un dito: confessiamo la penosa impressione che deve fare Pietro nel Getsemani e nell'atrio del gran sacerdote sopra ogni cuore geloso della sua dignità... Così il patire e il morire di Gesù, da un punto di vista naturale, sono intollerabili e strazianti. Si può capire e consentire commossi dinanzi al tramonto di un grande filosofo che muore per la sua idea, o di un soldato che cade in battaglia, o di Cesare che soccombe sotto il pugnale dei congiurati, di fronte al fastigio della potenza - ma come vedere senza indignazione il Messaggero della Sapienza increata dileggiato; i soldati farsene beffa atroce; incombere sopra di lui una morte destinata non soltanto a toglierlo materialmente di mezzo, ma a cancellare perfino il suo onore e la sua missione?
Prima però "il patto nel suo sangue" (Mt 26, 28): quel mistero che - come egli annunzia a Cafarnao - è respinto decisamente dal sentimento degli uditori. Poi l'avvenimento inaudito della resurrezione; il suo racconto produce sulla scienza moderna l'impressione del fantastico e del morboso, ma a dispetto di tutta questa catastrofe, diviene la fonte dell'esistenza redenta... L'Eucaristia, il mistero centrale della vita cristiana; la Resurrezione, la potenza capovolgitrice ormai da due millenni!
Che immagine è questa?
Se interroghiamo la civiltà antica: Che cosa s'intende, in fondo, per umano? In che cosa si può attuare il senso dell'uomo? - essa risponde: Nella pienezza dell'esistenza.
Che cosa risponde il cristianesimo? Anzi, è possibile elaborare una risposta cristiana? Probabilmente no... Tutto può accadere. A priori non è precluso nulla: non i fatti più sensazionali, e nemmanco i più esigui. Ogni cosa ha la sua missione: l'intera, incommensurabile, incalcolabile ampiezza e profondità dell'umano... Tutto però, nello stesso tempo - le realtà più nobili come le più modeste - viene proiettato sotto una nuova luce, perché in tutto si aprono le possibilità di una nuova concezione, che sale dal primo principio... Quanto si sia mutato, di qui, il volto dell'uomo, noi incominciamo a capirlo non appena cessiamo di considerarlo nel suo aspetto puramente generico. Allora forse non è più lontano il momento in cui la figura cristiana dell'uomo torni a risplendere alla nostra coscienza con tutta la sua novità.
E non soltanto la figura dell'uomo ha subito, grazie all'esistenza di Cristo, questa trasformazione, ma anche la figura stessa di Dio. E' nell'essere e nella parola di Gesù che il fedele sente e vede chi è Dio. Interrogato chi sia il Padre, Gesù risponde: "Chi vede me, vede il Padre" (Gv 14, 9). Alla stessa domanda Paolo risponde: "Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo" (2 Cor 11, 31).
Ma com'è questo Dio? In che rapporto sta con l'ente supremo dei filosofi? Con il principio universale della vita reclamato dalla religione indiana? Con la saggezza del divenire descritta dal taoismo? Con l'esuberanza delle figure, umane e sovrumane a un tempo, delle divinità greche? Con la loro inaudita intensità di vita, e con la loro olimpica superiorità?
Veramente, anche. l'immagine di Dio offerta dal cristianesimo non è di immediata evidenza. Una scuola di vita e di pensiero, che opera ormai da duemila anni, ha finito per plasmare l'idea che il "Dio e Padre di Gesù Cristo" sia l'immagine più naturale dell'Essere divino. Ma da qualche tempo la rappresentazione corrente e il modo di concepire l'Ente supremo presso gli Orientali incomincia ad abbandonare quella concezione - e si vede quanto fosse necessaria la Rivelazione.
Com'è il Dio di Gesù Cristo?
Se si rivela nella personalità, nel destino di Gesù, dovrà essere della sua stessa natura.
Ora, quale realtà divina è quella che ne promana?
Dalla figura di un Socrate parla la elevatezza del supremo Ente filosofico. Dai miti greci, la divinità delle sfere luminose o delle profondità della terra. Dal mondo delle figure indiane l'Unità che a tutto presiede: che cosa è che parla dall'esistenza di Gesù? Quale Iddio si fa manifesto in questo Gesù, il cui insuccesso è così straziante, che non trova nessun altro compagno al di fuori di questi pescatori, che, impegnato contro questa casta di politici e di teologi, vi soccombe, che viene processato ed eliminato come un mestatore e un visionario? E ci rendiamo conto di che si tratta? Che Dio non soltanto perfeziona, entusiasma commuove un uomo - ma che egli stesso è venuto? (Gv 1, 11). Venuto non con l'ala del suo spirito, ma in Persona.?
Ciò che costui opera, lo opera Iddio. Ciò che a lui contrasta, contrasta a Dio. Dio non può svincolarsi in nulla da questa vita. Ciò che presiede all'azione e all'esperienza di tale vita, il suo Io, è lui. Ciò che riguarda lui ci è lecito riferirlo a Dio, anzi dobbiamo riferirlo a Dio, perché è la sua rivelazione. E tutto questo non rimane per Dio soltanto un episodio arcano. L'unione a questa esistenza umana non termina con la morte di Gesù: noi sentiamo che egli risorge ed ascende al cielo. Dio non cancella mai più da sé questo tratto di compiutezza. Da questo momento e per l'eternità Dio rimane il Verbo incarnato. Questo solo è già cosa tanto inaudita che interiormente tutto minaccia di ribellarsi. Come conciliarlo con il reale essere di Dio?
Tu pensi erroneamente, risponde il cristianesimo. Tu hai nella tua coscienza un'immagine umana, di cui presupponi che convenga a Dio; e un'immagine di Dio, di cui chiedi se destino e personalità di Gesù possano armonizzarsi con lui. Così facendo ti costituisci giudice proprio di ciò che per sua natura porta il mutamento e il nuovo principio. Non così devi pensare; non così impostare il problema, ma in quest'altro modo: dato che Gesù è come è, dato che la sua vita si svolge così e così - come è il Dio che vi si rivela? Il "Dio e Padre di Gesù Cristo"?
Questa domanda va sempre impostata di nuovo, affinché la nostra fede e il nostro amore del Dio che ci ha chiamati siano in grado di vivere. Così dunque: come dev'essere Iddio per poter entrare nell'orbita di una tale esistenza?
La risposta che ci muove incontro da ogni lato della Sacra Scrittura dice: deve essere un Dio che ama. Tali cose fa l'amore. Esso trascende i criteri del consueto e di ciò che si dice ragionevole. Inaugura e crea. Ora, se Dio è colui che ama, che cosa farà questo amore?
E ancora ci viene detto che egli non è soltanto Colui che ama, come a dire colui che attua perfettamente il tipo preesistente del vero amore , ma lo stesso amore. Dobbiamo dunque invertire i nostri criteri, e ciò che chiamiamo amore lo dobbiamo riconoscere come il riflesso, come il ritratto, sovente contorto, di un sentire, di una potenza, il cui vero nome è Dio... Non dovrà quindi questo Dio, nel quadro dell'esistenza umana, soppiantare tutte le forme consuete? Non vi sarà pericolo che una tale vita riesca strana e innaturale? Abbandonata nell'abisso della miseria, per lanciarsi di nuovo ad un predominio della magnificenza che trascende i nostri criteri? E' così infatti, ma, per comprendere al suo giusto valore di che cosa si tratta, è necessario che alla parola "amore" si congiunga un altro elemento: vi si deve scoprire qualche cosa che per la nostra prima impressione non vi si trova ancora.
Se Dio è l'Amore - perché non riversa senz'altro nello spirito umano la sua luce? Perché non vi irrompe con la sua verità che sarebbe a un tempo la stessa magnificenza, ricchezza dominante il cuore, tale che l'uomo arderebbe di nostalgia per Dio? Questo sarebbe amore! Perché dunque un'esistenza come quella di Gesù?
Si risponde: per il peccato... Dunque il peccato sarebbe capace di ostacolare l'onnipotente volontà di amore? Non è possibile a Dio suscitare nel cuore dell'uomo un orrore così terribile del peccato da gettarlo sgomento pentito ed amante nel suo cuore? Chi dirà qui ciò che è possibile e ciò che non lo è?... No, ci deve essere ancora dell'altro. In Dio ci deve essere qualche cosa che la parola amore non comprende ancora. Mi sembra che si deve dire: Dio è umile.
Ma prima di tutto mettiamo in luce il termine. Si dice che uno è umile quando si piega dinanzi alla grandezza di un altro uomo, o quando esalta qualità d'ingegno superiori alle sue, o quando apprezza senz'ombra d'invidia meriti altrui. Ora, questo non è umiltà, ma onestà. Per quanto, a volte, possa essere difficile riconoscere una grandezza che faccia ombra al proprio essere e al proprio potere, il fatto è semplicemente opera di un animo educato. Umiltà non va dal basso in alto, ma dall'alto in basso. Non significa che il più piccolo riconosca il più grande, ma che questi s'inchini con riverenza davanti al più piccolo. E' un grande mistero, alla luce del quale appare quanto difficilmente si lasci deviare dalle cose di quaggiù il sentire cristiano. Si può capire che il grande si abbassi graziosamente al livello del piccolo, lo stimi al suo giusto valore, senta la pietà che debolezza ispira, e faccia scudo di sé al suo carattere indifeso - umiltà è però solo quando il grande s'inchina con riverenza dinanzi al piccolo.
Ma non è poi una svalutazione di sé? No. In atto di assumere la condotta dell'umiltà, il grande si sente egli stesso stranamente sicuro, e sa che quanto più arditamente egli si umilia tanto più sicuro trova se stesso... E ne ha,vantaggio? Il più grande vantaggio: nello spirito di umiltà si fa sua la ricchezza del piccolo in quanto tale. Non già nel senso che il piccolo abbia anch'esso il suo valore, ma nel senso che, appunto perché piccolo, è prezioso. Egli si rivela all'umile come un profondo mistero. Quando Francesco d'Assisi s'inginocchia davanti al trono del Papa, non è umiltà, ma, credendo egli alla dignità del Papa, è soltanto verità; umiltà è la sua quando s'inchina davanti al povero, umiliandosi al suo livello non soltanto come benefattore o come animo nobile che onora in lui l'uomo, ma col cuore illuminato da Dio, che davanti alla sua indigenza si getta ai piedi come davanti a una misteriosa maestà. Chi non vede questo, deve vedere in Francesco un esaltato. In realtà egli non ha fatto altro che attuare in sé il mistero di Gesù.
Quando il Signore dice che le cose sante Dio "le ha nascoste ai savi e avveduti e le ha rivelate ai bambini" (Lc 10, 21), non vuol dire soltanto che egli confonde la superbia, esaltando la virtù opposta, o che celebra il carattere eccelso della nuova divinità, rovesciando i valori umani - la stessa nullità umana in sé è preziosa per lui e piena di nobiltà. Ecco lo spirito che egli ha portato sulla terra: "Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore" (Mt 11, 29). All'ultima cena si è inginocchiato davanti ai suoi apostoli e ha lavato loro i piedi non per rinnegare se stesso, ma per rivelare loro il divino mistero dell'umiltà (Gv 13, 4 ss.).
Già nell'Antico Testamento egli afferma che "le sue delizie (di Dio) sono nell'essere coi figli degli uomini". Ritrovarsi nel cuore di Gesù - lo vogliamo dire adorando - deve essere per lui una beatitudine misteriosa, qualche cosa che nella sua pienezza di significato trascende ogni misura - pensiamo al gaudio di Gesù nell'essersi Dio compiaciuto di nascondere la sua magnificenza ai grandi per rivelarla invece ai piccoli e ai dimenticati fino al punto di farsi mallevadore per questa misera e fragile vita umana, e subirne la sorte.
Paolo accenna a questo mistero quando dice: "Lui che in forma di Dio sussistendo, non ritenne come geloso possesso l'essere a pari con Dio, ma dispogliò se stesso, prese forma di servo in somiglianza di uomini ridotto, e all'aspetto trovato come uomo... Per questo Iddio lo sopraesaltò e gli elargì un nome che è sopra ogni nome " (Fil 2, 6-9).
Ecco l'umiltà di Dio. Condiscendenza a ciò che al suo cospetto è nulla; possibile solo, perché egli è l'onnipotente. Di qui, una gloria sovrumana per lui: "Non doveva forse il Cristo patire tali cose, e così entrare nella sua gloria?" (Lc 24, 26). E di qui la magnificenza di quella nuova creazione, di cui Paolo e Giovanni parlano con linguaggio profetico.
Tutto questo presupposto dell'amor cristiano, quell'amore che la vita di Gesù porta, e che secondo Giovanni è Dio stesso, riposa su questa umiltà.
Dio è l'umile-amante. Quale capovolgimento di tutti i valori familiari all'uomo - non solo umani, ma anche divini! Veramente questo Dio capovolge tutto ciò che l'uomo, nell'orgoglio della sua ribellione, pretende edificare da sé. Davanti a lui si ridesta in noi l'ultima tentazione, di dire: a un Dio così non mi inchino! All'Essere assoluto, al Dominatore dell'universo, alla più nobile delle idee, a una divinità dell'Olimpo, sì. A questo Dio - no!
Umiltà cristiana è il compimento di questa intenzione di Dio. Essa implica prima di tutto che l'uomo ammetta di essere creatura. Non signore, ma creatura. Che ammetta di essere peccatore. Non un uomo nobile, un'anima bella, uno spirito eletto, ma un Peccatore... Non basta ancora, ma creatura di questo umile Iddio, e peccatore davanti a lui. Qui sta tutto. "Dio non mi va a genio": ecco un accento della più profonda ribellione. Umiltà vuol dire spezzare questa pretesa satanica del proprio gusto, e inchinarsi non soltanto alla maestà di Dio, ma specialmente alla sua umiltà. Vuol dire curvare ciò che è grande nel mondo davanti a colui che entrò nel mondo così da sembrare spregevole. Curvarsi come un uomo naturale, con tutti i sentimenti di prosperità, bellezza, forza, qualità di ingegno, intelligenza, cultura e quali altre doti mai, davanti a colui che di fronte a ciò sembra così intimamente problematico: Cristo sotto la croce. Davanti a colui che dice di se stesso: "Io sono un verme e non un uomo; il vilipendio degli uomini e lo spregio della plebe " (Sal 22 (21), 7). Qui si fonda l'umiltà cristiana. Di qui s'innalza fino a dominare il suo simile.
Naturalmente, non bisogna confondere questo con debolezza che si lasci andare, o con astuzia che si faccia più piccola di quello che è; tanto meno con un istinto di auto-umiliazione di origine malsana. Umiltà e carità non sono virtù da infermi. Fluiscono dal moto creatore di Dio, che eleva tutte le potenze della natura, e si dirigono al nuovo mondo, che da quel moto deriva. Si capisce di qui che un uomo può essere umile soltanto nella misura in cui vive la grandezza che egli è, e deve diventare, da Dio.
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