San Paolo. L’apostolo bimillenario

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Il teologo madrileno García smentisce:"Saulo di Tarso non è “l’inventore” del cristianesimo"

di Roberto Persico

Durante l’incontro sull’apostolo san Paolo con la storica Marta Sordi organizzato il 27 maggio dal Centro culturale di Milano, José Miguel García si è garbatamente limitato alla parte dell’intervistatore. Ma è anche lui un’autorità in materia. Docente di Cristianesimo delle origini all’Università complutense e alla Facoltà teologica San Damaso di Madrid, è uno degli elementi di spicco della Scuola teologica di Madrid, che negli ultimi decenni ha rivoluzionato gli studi biblici. Partendo dalla constatazione che il greco del Nuovo Testamento presenta spesso strutture caratteristiche della lingua aramaica, gli studiosi madrileni hanno formulato l’ipotesi che la versione greca che conosciamo dei Vangeli e delle lettere apostoliche sia in molti casi la traduzione (e non di rado una traduzione approssimativa) di un originale aramaico, che hanno provato a ricostruire. Il risultato è una rilettura dei testi sacri che da un lato chiarisce molti punti altrimenti di difficile comprensione, dall’altro conferma che devono essere stati scritti in una data molto vicina agli eventi della vita di Gesù e da persone che conoscevano bene il contesto (geografico, politico, culturale) della vicenda. In attesa di leggere una sintesi dei suoi studi ne Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo (di prossima pubblicazione da Rizzoli), abbiamo chiesto a don García di approfondire qualche aspetto fondamentale della figura di Paolo. «Farne una sintesi è un’impresa difficilissima», esordisce. «Come si fa a scegliere un aspetto della sua figura piuttosto che un altro? Però, se proprio devo, due mi sembrano gli elementi che vale la pena più di tutti riscoprire in questo anno paolino: da un lato il suo rapporto con la comunità degli apostoli, dall’altro il fatto che la sua missione non è un’eccezione, ma si inscrive in un dinamismo di annuncio della fede che è della Chiesa tutta».

Il primo aspetto, il suo legame con gli altri apostoli, è tutt’altro che riconosciuto.

Solo dal grande pubblico. Nella comunità scientifica ormai l’assoluta continuità tra l’opera di Paolo e quella degli apostoli è un fatto accertato. Solo i mass media e i libri di divulgazione popolare, nemici della Chiesa e della fede cristiana, preferiscono continuare a riproporre tesi che nel mondo accademico ormai sono morte e sepolte. È stato nel corso del XIX secolo che molti studiosi hanno insistito su una frattura, un’opposizione che esisterebbe tra il cristianesimo paolino e quello degli apostoli. L’accusa è partita da un celebre studioso tedesco, William Wrede. Secondo lui san Paolo, pur avendo una “base” comune con Gesù, è essenzialmente un fenomeno nuovo: Gesù è dentro al giudaismo, Paolo appartiene al mondo ellenistico. A Paolo si deve, secondo Wrede, un cambiamento radicale: avrebbe introdotto una immagine nuova del Gesù storico, facendolo diventare un essere trascendente, preesistente, divino. Quindi deve essere considerato il fondatore del cristianesimo che conosciamo oggi. Gli studi successivi a Wrede, però, hanno ampiamente documentato che la fede di Paolo non è diversa da quella degli apostoli. Semplicemente, le sue formulazioni rendono più esplicito quel che nei Vangeli sinottici si trova già espresso in altri termini.

Ci vuole fare qualche esempio di questa concordanza tra la fede di san Paolo e quella degli altri apostoli?

Ne basta uno, sulla questione principale. Paolo annuncia espressamente la divinità di Gesù, che nei Vangeli non è mai affermata in questi termini: lì si trova solo l’espressione “Figlio di Dio”. Ma da tutto il racconto evangelico emerge evidente la pretesa di Gesù di essere Dio. Come ha osservato anche Jacob Neusner, lo studioso ebreo citato da Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret, da dove altro può nascere la presunzione di essere al di sopra del sabato, al di sopra del tempio, al di sopra della legge? Per gli ebrei, solo Jahvé è signore di tutto questo: porsi al di sopra delle istituzioni date al popolo ebraico da Jahvé vuol dire porsi al suo stesso livello. In tutta la sua vita e la sua opera, Gesù afferma sé come criterio di salvezza. Che cosa vuol dire questo se non identificarsi con Dio medesimo? San Paolo non ha “inventato” la divinità di Gesù, ha semplicemente formulato in termini espliciti quel che nel racconto evangelico sta tutto nei fatti.

E come ha fatto, se è vero che non ha praticamente mai avuto contatti con la comunità apostolica?

Questa è un’altra forzatura. È vero che lui nella lettera ai Galati scrive di essere stato “solo due volte” a Gerusalemme, e di avere avuto “pochi rapporti” con gli apostoli, ma non lo dice per sottrarsi a questo rapporto (che anzi ha ricercato tutte le volte che era necessario) o per contrapporre la propria predicazione alla loro: quante volte ripete che la fede che egli annuncia non è altro se non la fede degli apostoli? Con l’espressione “pochi rapporti” vuole semplicemente sottolineare il fatto che la sua chiamata è venuta direttamente da Gesù, anche se non era stato attratto dalla predicazione dei suoi seguaci.
Ma Paolo, si dice, era di formazione greca: ha interpretato a modo suo una vicenda ebraica, adoperando categorie che le erano estranee.
Questo semplicemente non è vero. Paolo non solo è ebreo, ma appartiene al gruppo dei farisei, un’élite molto rigorosa per accedere alla quale occorreva stare lontani da ogni rapporto contaminante. E tra i rapporti che contaminavano la purezza rituale dei farisei rientrava anche vivere in un paese straniero. Infatti non abbiamo notizie di scuole farisaiche fuori della Palestina nell’epoca di cui ci stiamo occupando, ragion per cui l’educazione al fariseismo di Paolo può essere avvenuta solo a Gerusalemme. Del resto è lui stesso, secondo quanto riferisce Luca negli Atti, ad affermare di «essere cresciuto in questa città», cioè a Gerusalemme. E lo zelo con cui all’inizio perseguita i cristiani è quello di un uomo profondamente legato alla tradizione ebraica. Dunque contrapporre un Paolo “greco” a un Pietro “ebreo” semplicemente non ha senso: Paolo conosce perfettamente la tradizione ebraica, ci è cresciuto dentro, l’ha amata. Proprio per questo capisce fino in fondo che la pretesa di Gesù è una pietra di scandalo: i suoi atti lo pongono alla pari di Dio. Se poi arriva a tradurre l’annuncio cristiano con un vocabolario differente è grazie alla sua genialità, che gli permette di rivolgersi ai diversi ascoltatori con il linguaggio che ciascuno è in grado di comprendere.

Ed eccoci al secondo aspetto, la missione.

Come ho accennato prima, la missione di Paolo si inscrive perfettamente in una dimensione che è dell’intera Chiesa. Perché è vero che lui è passato alla storia come “l’apostolo delle genti”, ma è altrettanto vero che anche gli altri apostoli – secondo la tradizione trasmessa da Eusebio di Cesarea – sono andati ad annunciare la fede in quasi tutto il mondo allora conosciuto. Il fatto è che l’opera evangelizzatrice di Paolo è l’unica che conosciamo bene, per via degli Atti e delle lettere; anche gli altri apostoli, però, si mossero seguendo il comando di Gesù: «Andate e annunciate il Vangelo a tutte le genti». Il caso di Paolo, perciò, non è straordinario, è solo il più documentato. Anche lui peraltro non si muove da solo. Lo Spirito, leggiamo negli Atti, ha scelto Paolo e Barnaba, poi ciascuno dei due prosegue per conto proprio, scegliendo un collaboratore. Il tutto in stretto rapporto con la comunità degli apostoli. Anche chi resta, infatti, partecipa in qualche modo dell’opera missionaria: raccogliendo fondi per sostenere chi viaggia, prendendosi cura delle famiglie di quelli che sono partiti… tutti sono coinvolti nella missione.
La missione di san Paolo, comunque, è l’unica che riscuote successo.
È l’unica il cui successo è documentato. E le cui caratteristiche sono quelle di ogni missione cristiana. Paolo è realista: usa di tutte le istituzioni, di tutte le possibilità che si offrono. Non ha nessuna sfiducia, nessun pregiudizio moralistico, entra in rapporto con tutti. L’unica preoccupazione che ha è permettere a chiunque l’incontro con Gesù. Tutto è a servizio di questo, incluso il suo patrimonio personale (non dimentichiamo che viene da una famiglia benestante): l’unica ragione della sua opera è Gesù e che Gesù sia conosciuto. E in lui vediamo in azione una caratteristica che è della Chiesa tutta: appartiene alla natura della Chiesa cattolica essere missionaria. Non si può vivere la fede senza comunicarla. Una fede chiusa su se stessa è una posizione mortale: le comunità che si chiudono sono sempre, nella storia, comunità che spariscono. Paolo mostra in modo assolutamente evidente che il cristianesimo non è altro che Gesù, il rapporto con Gesù, l’amore a Gesù. E che l’unico modo per incontrare Gesù dopo la sua ascesa al cielo è l’incontro con un testimone.

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