Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma 3-6 Giugno 2002
testo di Padre Raniero Cantalamessa
"Ora va, io ti mando, fa uscire dall’Egitto il mio popolo" questo è uno dei più belli invii della Bibbia, ma in essa troviamo tutta una serie di questi "va" creativi di Dio. Quando gli uomini vengono eletti per qualche compito importante occorrono firme e controfirme, documenti, atti. A Dio basta una parola: "va" e viene creata una nuova situazione, viene aperto un capitolo nuovo nella storia della salvezza, una realtà immensa segue a questo "va" di Dio che ricorda un po’ quello iniziale di "sia la luce".
Vogliamo passare in rassegna alcuni di questi grandi "va" di Dio agli uomini. Il primo è proprio questo che abbiamo ascoltato nella lettura dell’Esodo, il "va" rivolto a Mosé, ma qui è interessante, come sempre, vedere cosa precede. "Va" non è mai la prima parola di Dio, è quasi sempre la conclusione di un dialogo. Prima c’è questo misterioso incontro di Dio nel roveto ardente, un’esperienza bruciante della vivente realtà di Dio.
Questa pagina del roveto ardente è, essa stessa, un roveto ardente. Ogni volta che la apriamo ha questo potere di bruciare, di illuminare, di far quasi sentire sulla propria pelle la presenza di Dio. E’ un momento che cambia completamente la persona di Mosè. Fino a quel momento abbiamo sentito che Mosè è un uomo che guida lui gli eventi: "voglio vedere perché" si pone domande, vuole spiegazioni perché il roveto non brucia; poi dopo che ha sentito il suo nome pronunciato due volte, cambia completamente, si vela gli occhi, diventa sottomesso, remissivo, diventa la creatura che si trova alla presenza del Creatore.
Questo è importante perché, prima di ogni invio, Dio ha bisogno di far fare un’esperienza di se stesso. L’invio, la missione nasce da un incontro per cui quello che poi questo inviato dirà non sarà per sentito dire, non annuncerà una dottrina, non porteràun messaggio scritto, ma parlerà di una persona. Nella sua voce si sentirà l’eco di un incontro personale con Dio.
Troviamo un’analogia con la chiamata di Saulo. Tra l’altro sentiamo che anche qui Dio pronuncia due volte il nome. Quando Dio pronuncia due volte il nome nella Bibbia c’è sempre qualcosa di importante che segue. Dunque la chiamata di Saulo ha qualcosa di analogo, anche questa si conclude con "Vai, io ti mando, egli sarà per me un inviato, un apostolo davanti ai re e alle genti" ma prima c’è stato l’incontro sulla via di Damasco. "Saulo! Saulo!", Chi sei tu?" Qui c’è un nome: "Io sono Gesù". Che cosa è avvenuto in quel momento nel profondo dell’essere di quest’uomo Dio solo lo sa, se anche oggi noi viviamo della luce che sprigionò da quell’incontro. Perché le Lettere di Paolo, tutta la sua opera, è l’effetto di questo incontro bruciante con la vivente persona del Risorto.
Un’altra cosa importante che notiamo in questa chiamata di Mosè è che il profeta deve farsi partecipe, deve essere quasi contagiato dal patos di Dio per la salvezza del popolo. Dio comunica a Mosè la sua passione: "Ho visto la sofferenza del mio popolo, ho sentito il suo grido" e sarà proprio questa passione che farà di Mosè non un mestierante in mezzo al popolo ma uno, come una madre, che porta il bambino sulle braccia perché Dio gli ha messo nel cuore un po’ di quello che è nel suo cuore, questa misteriosa passione d’amore di cui già parlava Origene. Diceva che Dio ha sofferto una passione d’amore per gli uomini prima ancora della passione di Cristo, anzi la passione di Cristo è l’effetto di questa passione invisibile di Dio per il popolo.
Adesso Mosè può andare e sarà un’altra persona. Mosè, abbiamo sentito in questo momento sperimenta la sua fragilità la sua inadeguatezza. Il Faraone, l’Egitto erano le cose che in quel tempo evocavano la massima potenza, il massimo prestigio e Mosè, quest’uomo che era lì a pascolare le pecore, deve sfidare il Faraone e l’Egitto e la risposta di Dio non gli toglie la sua balbuzie, la sua incapacità di parlare, gliela lascia ma gli dice una cosa: "Io sarò con te" ed è la parola che Dio dice costantemente a quelli che manda.
Quando sarà Gesù, il Verbo fatto carne, Dio reso visibile a inviare, questa stessa idea è espressa nel verbo che non sarà più "va" ma "seguimi" come dire "Io sono qui, non ti mando da solo". Questa è l’anima della missione, la missione sarà andare verso il popolo non asetticamente ma portando la passione di Dio, facendosi eco della passione di Dio per la salvezza degli uomini, per la miseria del popolo.
Passiamo ad un’altra chiamata, anch’essa molto nota, che abbiamo nella mente: la chiamata di Isaia. Anche qui troviamo in conclusione questo verbo così breve "va". "Poi udii la voce del Signore che diceva: Chi manderò, chi andrà per noi?" ed io risposi "Eccomi, manda me". Egli disse "Va e parla a questo popolo". Anche qui è importante vedere cosa precede questa missione di Isaia. Una esperienza bruciante della santità di Dio nel tempio. La santità di Dio si manifesta con i segni comuni, abituali di una teofania: il fumo, il fuoco, il terremoto e Isaia, senza bisogno di esami di coscienza, senza nulla si scopre come un peccatore in mezzo a peccatori. A questo punto c’è come una specie di liturgia silenziosa, qualcuno come un angelo, come un accolito prende del fuoco da un altare, tocca misteriosamente le labbra di Isaia e lui si sente purificato e può andare perché adesso sa che lui è un uomo dalle labbra pure che abita in mezzo ad un popolo dalle labbra impure. Questo non è solo uno stato d’animo necessario che si verifica al momento della chiamata ma deve diventare lo stato d’animo permanente degli inviati. L’inviato deve sentirsi non un privilegiato, uno che dall’alto giudica, deve sempre sentirsi un peccatore tra gli altri peccatori come Paolo che diceva che Cristo è venuto a chiamare i peccatori e con tutta umiltà aggiungeva: "E io sono il primo di essi".
Se oggi stiamo assistendo a una specie di sollevazione silenziosa di ostilità contro il clero c’è dietro tanta parte misteriosa che fa parte del mistero dell’iniquità. C’è anche tanta speculazione ma forse un elemento di spiegazione è anche questo: che il mondo è contento e felice di prendere in fallo coloro che si ritengono giusti moralisti degli altri. Questo va evitato e noi dobbiamo aiutare a dissipare questo equivoco. Sempre gli inviati, a qualsiasi titolo, andranno con questo spirito di essere uomini come gli altri. Dice la lettera agli ebrei: "Ogni sacerdote è scelto in mezzo al popolo e inviato al popolo. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore essendo anche egli rivestito di debolezza". Questa è una provvidenza di Dio e noi dobbiamo assecondarla assumendo sempre questo stile come chi parla sempre e sente che la parola lo ferisce, come chi brandisce la spada a doppio taglio ma nel senso che taglia davanti e dietro, verso chi la impugna e verso chi è protesa. Quindi anche quando dobbiamo puntare il dito, che si senta che prima lo abbiamo puntato contro di noi. Se Pietro il giorno di Pentecoste potrà dire: "Voi avete crocifisso Gesù di Nazaret" senza che alcuno reagisse, era perché prima aveva detto a se stesso "Tu hai tradito il sangue innocente, tu hai tradito il giusto" e si sentiva, nella voce di Pietro, che lui era uno dei convinti di peccato che adesso aiutava i fratelli a fare lo stesso.
Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e debole per confondere i forti e perché si veda che la potenza della parola di Dio, la potenza della luce che accompagna la missione viene da lui, non da noi. Diceva uno scrittore scozzese: "Gesù, da buon falegname che era, nella sua vita ha messo insieme dei pezzetti di legno i più bitorzoluti e sgangherati che ha trovato e con essi ha fabbricato una barca che tiene il mare da duemila anni". Ma noi siamo questi pezzetti di legno bitorzoluti e nient’altro e si deve sentire. E tanto più la nostra voce di inviati sarà dentro questa fiamma dell’esperienza di Dio, sarà caratterizzata dall’esperienza del roveto ardente o di Isaia nel tempio, tanto più oggi riusciremo a convincere il mondo di peccato. Il mondo d’oggi è diventato così tetragono, così corazzato, così disincantato che non bastano le parole, non bastano i ragionamenti, non bastano i mass media, non basta che gli allestiamo la parola di Dio su un piatto attraente. Bisogna che si senta dentro un’altra parola e questa la dobbiamo recuperare sempre dall’origine della missione, dalla voce da cui è venuta la missione.
Accenno anche ad un terzo "va" anche questo di un profeta: Ezechiele. La chiamata di Ezechiele si trova nel capitolo 2° e 3° del suo libro ed è accompagnata da un’immagine. Come sempre la Bibbia è potente soprattutto nelle immagini. "Tu figlio dell’uomo ascolta ciò che ti dico, non essere ribelle come questa genia di ribelli. Apri la bocca e mangia ciò che io ti dico, non essere ribelle come questa genia di ribelli". Io guardai, ed ecco una mano tesa verso di me che teneva un rotolo, lo spiegò davanti a me e all’interno e all’esterno vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: "Figlio dell’uomo mangia ciò che hai davanti". Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo dicendomi: "Figlio dell’uomo nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo". Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse "Figlio dell’uomo va, recati dagli israeliti e riferisci loro le mie parole".
Anche qui prima del "va" c’è un’esperienza, ma diversa, il profeta deve mangiare il rotolo che simbolicamente contiene la parola di Dio che deve annunciare. Questa immagine vale più di trattati interi sulla pastorale dell’annuncio perché dice che prima di proclamare la parola, la dobbiamo mangiare, ce ne dobbiamo riempire le viscere. Giovanni riprenderà queste immagini nell’Apocalisse con un dettaglio nuovo dicendo che quella parola, quel rotolo mangiato era dolce sulle labbra ma amaro come il fiele nelle viscere. C’è una differenza enorme tra un libro letto, studiato, sviscerato e un libro mangiato, digerito, di cui ci si riempite le viscere. Questo vuol dire che la parola prima deve incarnarsi in chi la deve proclamare. Deve diventare carne della sua carne, sangue del suo sangue, deve poter aver ferito dentro, poter tagliato dentro. Questo spiega l’amarezza, perché la parola prima deve essere dolce come il miele sulle labbra perché la parola di Dio è dolce. Prima però bisogna aver sentito l’amarezza, cioè bisogna essersi lasciati giudicare dalla parola. Quante volte questo l’ho sperimentato sulle mie spalle. Quando venni a predicare la prima volta alla casa Pontificia, ero a Milano e venivo emozionato per tenere la prima predica davanti al Papa, sul treno aprii il Breviario e cominciato a leggere trovai un certo salmo di cui non ricordo il numero ma che diceva: "Perché tu vai proclamando le mie parole e hai sempre in bocca la mia alleanza mentre la mia disciplina te la getti alle spalle". Era una predica tremenda perché era proprio per me e prima che io andassi a predicare la parola di Dio. Lo dice anche Paolo nella prima lettera ai romani: "Tu che predichi agli altri perché non predichi prima per te stesso?" Nella Bibbia abbiamo un modello unico di una persona che ha mangiato il rotolo e se ne è riempite le viscere: Maria. Non ha letto la parola di Dio, non l’ha studiata, l’ha accolta nel cuore, se ne è riempita le viscere e l’ha data al mondo, in silenzio, senza parole di accompagnamento. Lei dunque può essere davvero la stella dell’evangelizzazione perché ci presenta la caratteristica essenziale dell’annuncio: aver prima mangiato, digerita la parola, averla incarnata nella propria vita. Aveva ragione Paolo VI di dire che il mondo non ha bisogno solo di maestri ma soprattutto di testimoni. Testimone è colui che prima laparola l’ha vissuta, si è sforzato di viverla. Nessuno riuscirà mai a vivere prima tutta la parola di Dio, altrimenti dovremmo tacere tutti e nessuno dovrebbe mai predicare perché mai nessuno può dire di avere già messo in pratica. Però ci sforziamo, ci lasciamo giudicare, sappiamo che quello è il nostro punto, il nostro metro di giudizio, e per il Signore è sufficiente questo, che non ci riteniamo già come degli inviati, dei mestieranti che esportano una parola che non hanno prima vissuto.
Nella Bibbia c’è un altro "va" al plurale che voglio leggere. Non è quello solito che aspettiamo noi alla fine (Matteo 28) "Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura". Si trova alcuni versetti prima: "Ma l’angelo disse alle donne: non abbiate paura voi, so che cercate Gesù il crocefisso. Non è qui, è risorto come aveva detto. Venite a vedere dove era deposto. Presto andate e dite ai suoi discepoli che è resuscitato dai morti". Anche qui come si fa ad andare avanti come se fosse una parola, una riga di un libro come un’altra? La prima volta che questo verbo è risuonato nel mondo, al passato "è risorto" il mondo cambiava, quella parola spalancava un mondo nuovo. Non è difficile immaginare quello che segue: queste donne che dopo essersi guardate l’un l’altra capiscono che è vero e si slanciano per la collina a raggiungere il Cenacolo e quando arrivano, non ci vuole fantasia, prima che le donne dicano quello che è successo, i loro occhi avevano già proclamato la resurrezione di Cristo.
Questa sera c’è un dettaglio che deve essere precisato: tutti i "va" che abbiamo menzionato e molti altri ancora sono rivolti agli uomini. Questo "va" o "andate" viene rivolto a delle donne, ed è fondamentale. E’ rivolto a delle donne perché vadano dagli apostoli. Questo è un "va" che costituisce le donne evangelizzatrici degli evangelizzatori.Questo ci spinge a vedere la missione in un orizzonte più ampio. Non come una scelta di alcune persone di un sesso solo, per alcune mansioni di uno stato unico. Ci aiuta a vedere che la missione di Dio anche quando è rivolta ad una sola persona è rivolta a tutta la comunità, a tutto un popolo. E’ il corpo che è mandato, è la Chiesa che è mandata, forse anche per questo Gesù dirà agli apostoli "Andate in tutto il mondo" ma è chiaro che quell’andate si rivolge a tutta la Chiesa perché tutta la Chiesa è inviata.
Dice Paolo che nel corpo ci sono varie membra: gli occhi, le mani, i piedi. Ma gli occhi non vedono solo per loro vedono anche per la mano, la mano non agisce solo per se, agisce anche per gli occhi infatti se gli occhi vedono arrivare un sasso la mano si alza a difenderli. Questo è vero, diceva Agostino, a livello dei carismi. Il carisma di uno è il carisma di tutti. Se tu bandisci l’invidia, sarà tuo il carisma mio. La chiamata mia sarà tua e se io bandisco l’invidia, il dono tuo, la chiamata tua sarà mia perché apparteniamo allo stesso corpo.
Aggiungeva Agostino che a volte un pagano può incontrare un cristiano e dirgli perché, dato che ha ricevuto lo spirito Santo, non parla tutte le lingue. E il cristiano può rispondere che certamente parla tutte le lingue perché appartiene a quel corpo che in tutte le lingue proclama il messaggio di salvezza. La missione dunque è di tutti, ci coinvolge tutti e abbiamo bisogno delle donne. Questa sera mi sento spinto a dire "Donne Gesù ha bisogno di voi oggi. Che siate come l’elemento portante di tutti gli invii, di tutte le chiamate". Diceva Claudel: "Non è permesso alla donna di diventare sacerdote ma non le è proibito di essere vittima" io aggiungerei ma non è proibito di essere evangelizzatrici, e Gesù le ha costituite così. Lui fa delle donne le messaggere dei futuri apostoli. Questo ha un senso, gli apostoli dovranno andare in tutto il mondo ma hanno bisogno di qualcuno che prima dia loro l’annuncio e che sempre richiami questo annuncio.
"Il Signore ha bisogno di voi" diceva Teresa di Gesù Bambino che un giorno era presa da quest’ansia di avere tutti i carismi e anche dal dispiacere e dalla frustrazione di non potere avere tutto e avrebbe voluto essere il missionario che cammina, la suora di carità che cura i malati. Poi di colpo la parola di Dio le rivela, ma nel corpo della Chiesa c’è il cuore, se si ferma il cuore si ferma tutto. "Nel corpo della Chiesa io sarò il cuore". Questa è la missione universale della donna che nessuno può togliervi ed è la missione fondamentale.
La grande piccola parola che Dio si aspetta da coloro che chiama, da colui a cui ha rivolto questo suo invito "va" "andate", in ebraico suona "ineni"(?) "Eccomi". La sentiamo sulle labbra di Abramo, sulle labbra di Mosè, sentiremo Samuele, Isaia, ecc. E’ come quando si fa un appello ed ognuno scatta in piedi dicendo "presente!". Cosa ha di misterioso questa parolina che sembra aprire il cuore di Dio, che sembra la risposta sufficiente a Dio? Per il resto ci pensa Lui ma ha bisogno prima di sentire questo "eccomi". Vuol dire "Signore sono qui, non fuggo dalla tua presenza, sono disponibile, ti ascolto, il mio cuore è pronto" come dice un Salmo: "Il mio cuore è pronto per te Signore".
Nella storia della salvezza mancano due "eccomi" e questa assenza è così tragica che ne portiamo ancora le conseguenze. Quando Dio chiamò Adamo ed Eva non sentì l’"eccomi" ma vide della gente che si nascondeva e fuggiva dietro i cespugli. Se ci fosse stato un eccomi la storia sarebbe diversa. Non abbiamo nulla da rimpiangere perché nella notte di Pasqua la Chiesa dice che quella fu una felice colpa perché ci ha meritato Gesù che ha detto un altro "eccomi", universale eterno: "Eccomi Signore, io vengo a fare la tua volontà". L’"eccomi" mancante di Eva anch’esso è stato redento da quello di Maria: "Eccomi, sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola".
Ogni "eccomi" è un miracolo della grazia di Dio, è la libertà che misteriosamente si apre alla grazia e oggi questo miracolo è più che mai evidente. Che oggi il Signore chiami con modi più che mai tenui, misteriosi, rispettosi, e che un giovane o una ragazza abbiano il coraggio di chiudere le orecchie a tutte le attrattive del mondo e rispondere "eccomi" è un miracolo. Quando mi capita di vedere una vocazione o di sentire il racconto di una vocazione, dentro di me dico "Complimenti Gesù, sei forte oggi come quando sulla sponda del lago di Tiberiade dicevi "eccomi" e la gente veniva". Questo dei chiamati deve essere, e dunque anche il nostro, un "eccomi" gioioso, entusiastico, stupito perché dentro ci deve essere il senso di essere scelti, di essere stati individuati da Dio, oggetto di una predilezione di Dio e quindi un privilegio personale che rende più preziosa la risposta. Ma vorrei esortare questi giovani a non avere paura. Spesso quando si profila una vocazione la prima reazione è di spavento. Bisogna ascoltare la grazia. Qui sta la differenza tra la vocazione sacerdotale, religiosa, a speciali stadi di consacrazione e quella vocazione anch’essa degnissima, mobilissima al matrimonio. La differenza è che nella chiamata al matrimonio si coniugano due appelli: la natura e la grazia. La grazia è potenziata ed ampliata dalla natura perché nel cuore umano c’è il desiderio naturale di trovare nel matrimonio un compimento con l’altro sesso. La chiamata a questi stadi invece è solo grazia e bisogna stare attenti a non sbagliarsi, a non richiedere la stessa intensità, lo stesso entusiasmo, lo stesso trasporto che si ha in chi è chiamato al matrimonio. Sarebbe un errore aspettarsi di avere questo trasporto perché qui c’è la grazia. Allora un grammo di questo tipo di chiamata vale un quintale di altre evidenze.
Caravaggio, Chiamata di San Matteo, Roma San Luigi dei Francesi
Un "eccomi" gioioso stupito. Nel frontespizio del libretto delle preghiere di questa sera c’è riprodotta la chiamata di Matteo del Caravaggio e forse il dettagli più geniale di questo quadro è quel dito puntato di Matteo sul petto che vuole dire "Me Signore?". Lui sta trattando soldi, lui che nella sua vita non ha pensato ad altro che a fare il pubblicano è pieno di stupore ma sappiamo che lascia tutto e segue il Signore. Dunque questo "eccomi" deve essere accompagnato da senso di stupore, di gioia, di predilezione di Dio. C’è un canto molto bello di origine spagnola: "Signore mi hai guardato negli occhi sorridendo hai pronunciato il mio nome, sulla spiaggia ho lasciato la barca e insieme con te ora navigherò verso altri mari". Anche le strofe sono bellissime: "Tu sei venuto alla spiaggia, non hai cercato sapienti e ricchi, hai cercato solo che io ti dica eccomi. Tu lo sai che cosa ho, nella mia barca non c’è né oro né spade, solo le reti e il mio lavoro".
La chiamata è questa: Dio che ti guarda negli occhi come fece Gesù quel giorno con il giovane ricco. Sarebbe strano parlare di vocazione e non menzionare la propria vocazione. Ricordo sempre il giorno in cui anch’io sono stato chiamato e, cosa strana e necessaria a dirsi oggi, all’età tra i 12 e i 13 anni. Ero in un collegio, senza ancora avere deciso cosa fare nella vita, quando ascoltai il primo ritiro spirituale della mia vita, la prima volta che ero esposto alle verità eterne di Dio, dell’amore di Dio, dell’eternità, del Paradiso e, ricordo benissimo, dell’Inferno. Il sentire queste verità e, misteriosamente, sentire che ero stato chiamato allo stato religioso, fu una cosa sola di una chiarezza tale che non ho potuto più, con tutta la teologia recuperare. Così chiara che io dicevo che questa è la grazia più grande dopo il battesimo. Ma ne ero così convinto come oggi non si penserebbe possibile all’età di 13 anni. Un giorno che eravamo a passeggio, ragazzi di Ginnasio e portavamo l’abitino a quel tempo, e si passava su una collina della città di Fano, ricordo che con un mio compagno, guardando la città che era sotto di noi diceva, convinto però: "Il Signore ci ha chiamato a camminare al di sopra del mondo".
Dunque non bisogna essere timidi, non bisogna avere paura, le vocazioni sbocciano se c’è qualcuno che presta la voce Gesù che dice "seguimi". Sono stato nei giorni scorsi a predicare a Vancouver in Canada e un sacerdote mi ha detto che in una parrocchia c’era un sacerdote, suo predecessore morto, che aveva lasciato alla Diocesi 21 vocazioni sacerdotali tutte in atto. Lui quasi regolarmente diceva ai giovani se avevano fatto un pensiero sulla sua chiamata, se avevano pensato a che cosa il Signore li chiamava e a forza di stimolare aveva scovato, individuato, permesso di sbocciare a 21 chiamate del Signore. Bisogna dire ai giovani di oggi che questa è una chiamata per la gioia, non è una chiamata per la rinuncia. Guai a noi se nelle giornate vocazionali dessimo l’impressione che abbiamo bisogno di aiuto, che c’è un lavoro da fare nella chiesa, che abbiamo bisogno di collaboratori, dobbiamo dare la certezza che è un grande privilegio lavorare per il Signore del cielo e della terra. Guai anche a dire di abbracciare lo stato religioso sacerdotale perché, nonostante ci sia la rinuncia alla famiglia, al celibato c’è la possibilità di coscientizzare le masse, di lavorare per la promozione umana, ecc. Non bisogna dire "nonostante il celibato" ma proprio perché c’è il celibato. Questo è uno degli elementi che rendono bella e attraente la chiamata e la risposta e dobbiamo avere il coraggio di dirlo.
Dobbiamo anche dire che è una chiamata per la fecondità. Paolo poteva dire "Sono io che vi ho generato mediante l’annuncio del Vangelo". Annunciando il Vangelo si diventa padri e madri in un senso più vero, perché eterno, del senso biologico. Paolo aveva questa coscienza di aver generato dei figli, anzi alle volte si sentiva una madre perché diceva "io sono adesso per voi come una madre nelle doglie del parto perché vi devo dare alla luce di nuovo". Se i chiamati avessero questa certezza, questa percezione della loro fecondità forse ci sarebbe meno crisi di identità, meno problemi, meno sproloqui sul celibato dei preti e ci sarebbe più certezza che fierezza.
Voglio leggere il testo di un chiamato, un domenicano: Lacordaire "Vivere in mezzo al mondo senza alcun desiderio per i suoi piaceri, essere membro di ogni famiglia senza appartenere ad alcuna di esse, condividere ogni sofferenza, essere messo a parte di ogni segreto, guarire ogni ferita, andare ogni giorno dagli uomini a Dio per offrirgli la loro devozione e le loro preghiere e tornare da Dio agli uomini per portare ad essi il suo perdono e la sua speranza, avere un cuore di acciaio per la castità e un cuore di carne per la carità. Insegnare e perdonare, consolare e benedire, ed essere benedetto per sempre. O Dio, che genere di vita è questa? E’ la tua vita, sacerdote di Gesù
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