PAOLO VI. Catechesi e omelie su San Pietro e San Paolo

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UDIENZA GENERALE DI PAOLO VI

Mercoledì, 28 giugno 1966

Diletti Figli e Figlie!

Oggi il Nostro pensiero è rivolto alla festa che domani celebreremo, quella dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e che interessa principalmente ed enormemente la Chiesa di Roma, la quale venera in questi due Martiri i suoi luminari, come già scriveva S. Ambrogio: «Dies factus est Petrus, dies Paulus . . .». Luce è diventato Pietro, luce Paolo (De virginitate, 19; P. L. 16, 313). «L’odierna festività, commenta San Leone Magno, oltre la venerazione che ha riscosso in tutto il mondo, dev’essere celebrata con speciale e propria venerazione dalla nostra Città, affinché dove è stato glorificato il transito dei due principali Apostoli, ivi, nel giorno del loro martirio, sia il primato della letizia» (Serm. 82, P. L. 54, 422). Si potrebbe facilmente raccogliere un’antologia di testi letterari e liturgici che celebrano insieme e la dignità di questi sommi fra gli Apostoli, e l’autorità della loro testimonianza di parola e di sangue, e il fatto che Roma raccolse il loro ministero, il loro martirio, le loro tombe, e poi la storia, per cui la loro memoria e la Chiesa da loro derivata e l’autorità della successione pontificia li ha resi, come li definisce Prudenzio (a. 405): «patroni del mondo» (P. L. 60, 257).

Ciò che ora a Noi preme è raccomandare a voi, carissimi Figli, che rendendo visita al Papa onorate l’apostolo Pietro, di cui egli è umile successore e l’apostolo Paolo, di cui egli ha implorato la protezione assumendone il nome, di avere sempre in grande venerazione questi massimi e santissimi seguaci e annunciatori di Cristo, fondamenti della Chiesa, non solo romana, ma universale. La devozione agli Apostoli Pietro e Paolo ha avuto un’immensa importanza nella formazione della mentalità cattolica e nello sviluppo della spiritualità della Chiesa, e, com’è ovvio, in quella romana specialmente; l’ha avuta nella determinazione di grandi fatti storici, come pure nella disciplina canonica ed economica della cristianità medioevale. Questa devozione acquista oggi una nuova importanza nella ecclesiologia moderna, sia per la dottrina teologica circa la costituzione unitaria e gerarchica della Chiesa (cfr. Denz. Schoen. 942), sia per il dialogo ecumenico, a riguardo specialmente dell’apostolicità della Chiesa, delle potestà conferite a Pietro e della loro trasmissibilità, sia per le ricerche e per le discussioni archeologiche di questi ultimi anni.

Bisogna, Figli carissimi amorosi della Chiesa di Cristo, riaccendere debitamente, nella pietà personale e nel culto liturgico, la devozione agli Apostoli e specialmente ai santi Pietro e Paolo: da loro è venuto a noi nella forma più autorevole e venerabile il messaggio di Cristo, da loro abbiamo tante pagine indimenticabili del nuovo Testamento, da loro la fede, che non tanto per la sede geografica e storica in cui ha messo radice e da cui s’è irradiata (cfr. Rom. 1, 8), ma per l’autorità che la professa e il carattere unitario che riveste, si è detta romana, non per essere qui limitata, ma per meglio qualificarsi cattolica. L’amore agli Apostoli Pietro e Paolo ci aiuterà a meglio comprendere come la fedeltà ferma e filiale a questa benedetta loro sede romana non restringe le dimensioni universali della Chiesa di Cristo, non mortifica la vitalità e l’originalità delle comunità diffuse nel mondo, non impone superflui e pesanti vincoli giuridici; sì bene pone la base ferma e sicura dell’edificio ecclesiastico, offre il punto onorevole e indiscutibile dell’unità cattolica, e alimenta la carità della famiglia cristiana.

Ci aiuta a ripensare queste semplici e fondamentali verità la festa odierna (28 giugno, trasferita al 3 luglio), dedicata a quella grande figura di maestro, di Vescovo, di martire († 200), che fu Sant’Ireneo, discepolo di Policarpo di Smirne e poi pastore e gloria della Chiesa di Lione nella Gallia. Rileggiamo il suo celebre testo (tanto apprezzato anche dal Duchesne, Eglises séparées, p. 119): «. . . a questa Chiesa - fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo - in grazia della sua sovraeminente posizione debbono confluire i fedeli di tutti i Paesi, perché in essa si è sempre conservata la tradizione apostolica» (Adv. haereses, 3, 3, 2; PG. 7, 848).

Così la pensava un altro Santo, uno dei Padri della Chiesa del quarto secolo, a Noi molto caro, San Gaudenzio, discepolo di S. Ambrogio e Vescovo di Brescia: «Teniamo vive, fratelli, le memorie dei Santi Apostoli; teniamole vive con la fede, con l’azione, con la condotta, con la parola . . .» (Serm. XX, p. 238).

Così essi, gli Apostoli, vi aiutino e, mediante la Nostra Benedizione, vi benedicano.



Omelia Di Paolo Vi

SOLENNITÀ DEI SANTISSIMI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Domenica, 29 giugno 1969


Fratelli e Figli, tutti in Cristo carissimi!

Noi faremo di questa nostra celebrazione della festa di San Pietro una preghiera, una preghiera principalmente per questa sua e nostra Chiesa romana, e poi per tutta la Chiesa cattolica, e per i Fratelli cristiani, con cui desideriamo avere un giorno perfetta comunione, e per l’intera umanità, alla quale Il Vangelo, mediante la predicazione apostolica, è destinato (cfr. Marc. 16, 15).

Potremmo, anzi dovremmo fare dapprima una meditazione, di capitale importanza nel disegno della nostra fede: dovremmo ricordare ciò che il Vangelo e altri libri del nuovo Testamento ci narrano di lui, Simone, figlio di Jona e fratello di Andrea, il pescatore di Galilea, discepolo di Giovanni il Precursore, chiamato da Gesù con un nuovo nome, Cefa, che significa Pietro (Io. 1, 42; Matth. 16, 18); e ricordare la missione, simboleggiata dalle figure di pescatore (Luc. 5, 10) e di pastore (Io. 21, 15, ss.), affidata a lui da Cristo, che, con gli altri undici e primo di essi, fece del discepolo l’apostolo (Luc. 6, 13); e ricordare poi la funzione, che questo uomo, umile (Luc. 5, 8), docile e modesto (cf. Io. 13, 9; 1 Petr. 5, 1), debole anche (Matth. 14, 30), ed incostante e pauroso perfino (Matth. 26, 40-45, 69 ss.; Gal. 2, 11), ma pieno d’entusiasmo e di fervore (Matth. 26, 33; Marc. 14, 47), di fede (Io. 6, 68; Matth. 16, 17), e di amore (Luc. 22, 62; Io. 21, 15 ss.), subito esercitò nella nascente comunità cristiana (cfr. Act. 1 - 12, 17), di centro, di maestro, di capo. Così dovremmo riandare la storia del suo ministero (cfr. Vangelo di S. Marco e Lettere di S. Pietro) e del suo martirio, e poi della successione nel suo pontificato gerarchico, e finalmente lo sviluppo storico della sua missione nella Chiesa, e la riflessione teologica, che ne risultò, fino ai due ultimi Concili ecumenici, Vaticano I e Vaticano II. Avremmo di che pensare e riflettere non più sul passato, ma sul presente, sulle condizioni odierne della Chiesa e del cristianesimo, e sull’istanza religiosa, ecclesiale ed ecumenica, con cui questo Pietro, messo da Cristo a fondamento del suo edificio della salvezza, della sua Chiesa, quasi tormentandoci e guidandoci ed esaltandoci, ancor oggi batte alla nostra porta (cfr. Act. 12, 13).

Ma preferiamo supporre tutti questi ricordi e questi pensieri già presenti e fermentanti nelle nostre anime; essi ci hanno qua condotti, qua ci riempiono i cuori d’altri sentimenti, propri di noi tutti che qui siamo per onorare l’Apostolo, che fra tutti ci assicura della nostra comunione con Cristo, e che, per quelle Chiavi benedette, le Chiavi, nientemeno, che del Regno dei Cieli, a lui poste in mano dal Signore, ci ispira tanto semplice, filiale e devota confidenza. Più che pensare, in questo momento, desideriamo pregare. Desideriamo parlargli. Ci conforta ad assumere questo atteggiamento di umile e fiduciosa pietà la tradizione dei secoli, che fin dai primi albori del cristianesimo, e poi ai tempi successivi, registrò commoventi segni della devozione alla tomba dell’Apostolo, con iscrizioni sepolcrali, con graffiti di visitatori, con offerte di pellegrini e con riferimenti alle condizioni civili e politiche (cfr. ad es. HALLER, Die Quellen . . . n. 10, p. 95 ss.). La spiritualità locale romana è tutta imbevuta d’un culto di predilezione ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, al primo specialmente; la nostra non dovrebbe esserlo da meno. Per di più, proprio in questi ultimi anni, gli scavi e gli studi archeologici, compiuti sotto l’altare della Confessione in questa stessa Basilica, hanno portato le ricerche a rintracciare non solo la tomba dell’Apostolo Pietro (cfr. PIO XII, Discorsi, XII, p. 380), ma, secondo gli ultimi studi, le reliquie altresì (cfr. GUARDUCCI, La tomba di Pietro, 1959; Le Reliquie di Pietro, 1965). Questo luogo, questa basilica trovano in questi fatti la loro superlativa storicità e la ragione della loro eccezionale e monumentale sacralità: dovrebbe la nostra presenza trovarvi la fonte e lo stimolo ad una viva e speciale riverenza, ad una singolare commozione religiosa. Pietro è qui! (Pétros ëni), come si ritiene che ci assicuri il famoso graffito sull’intonaco del così detto «muro rosso».

IL PRIMATO DELLA FEDELTÀ

Se Pietro è qui, anche con i resti del suo sepolcro e delle reliquie del suo corpo benedetto, oltre che con il centro della sua evangelica potestà e della sua apostolica successione, lasciamo, Figli carissimi, che l’istintivo desiderio di parlargli, di pregarlo, sgorghi in semplice ed umile invocazione dai nostri cuori. Pietro è qui. È la sua festa, la memoria del suo martirio, che, in segno di supremo amore e di suprema testimonianza, Cristo stesso gli aveva preannunciato (Io. 21, 18). È qui: che cosa gli chiederemo?

Noi cattolici, noi romani specialmente, gli chiederemo ciò ch’è proprio del suo particolare carisma apostolico, la fermezza, la solidità, la perennità, la capacità di resistere all’usura del tempo e alla pressione degli avvenimenti, la forza di essere nella diversità delle situazioni sempre sostanzialmente eguali a noi stessi, di vivere e di sopravvivere, sicuri d’un Vangelo iniziale, d’una coerenza attuale, di una meta escatologica. La fede, voi direte. Sì dobbiamo domandare a Pietro la fede, quella che da lui e dagli Apostoli ci deriva, quella che lo scorso anno abbiamo, in questa stessa ricorrenza, apertamente professata, quella di tutta la Chiesa. Sì, la fede: che saremmo noi, cattolici di Roma, senza la fede, la vera fede? Ma a noi è richiesto qualche cosa di più, se vogliamo essere i più vicini e i più esemplari cultori di San Pietro; è richiesta la fedeltà. La fede è di tutto il Popolo di Dio; ed anche la fedeltà; ma tocca principalmente a noi dare prova di fedeltà. «Siate forti nella fede», ci ammonisce San Pietro stesso, nella sua prima lettera apostolica: «Resistite fortes in fide» (5, 9). Cioè non potremmo dirci discepoli e seguaci e eredi e successori di San Pietro, se la nostra adesione al messaggio salvifico della rivelazione cristiana non avesse quella fermezza interiore, quella coerenza esteriore, che ne fa un vero e pratico principio di vita. Roma deve avere anche questo primato: quello, ripetiamo, della fedeltà, che traduce la fede nella sua vita, nella sua arte, un’arte di santità, di dare alla fede un’espressione costante e coerente, uno stile d’autenticità cristiana. E questa fedeltà, mentre nel cuore la promettiamo, oggi nella nostra orazione a S. Pietro la domandiamo, a lui, che come uomo ne sperimentò la difficoltà e la contraddizione, ma, come capo degli Apostoli, e di quanti gli sarebbero stati associati nella fede, ebbe da Cristo l’incomparabile favore della preghiera da Lui stesso assicurata proprio per la resistenza nella fede: «Ut non defìciat fides tua»; e insieme ebbe l’infallibile mandato di confermare, dopo l’ora della debolezza, i suoi fratelli: «Confirma fratres tuos» (cfr. Luc. 22, 31-32).

MISSIONE PASTORALE

E noi vorremmo che questa fedeltà fosse da noi considerata non soltanto nella sua immobile adesione alla verità, da noi ricevuta da Cristo ed evoluta e fissata nel magistero della Chiesa, convalidato da Pietro, ma nella sua intrinseca capacità diffusiva ed apostolica; una fedeltà cioè non così statica ed immobile nel suo linguaggio storico e sociale da precludere la comunicazione agli altri, e agli altri l’accessibilità; ma una fedeltà che trovi nella genuinità del contenuto sia la sua intima spinta evangelizzatrice (cfr. 1 Cor. 9, 16: «Guai a me, scrive San Paolo, se non predicassi il Vangelo»), sia la sua autorità per essere dagli altri accettata (cfr. Gal. 1, 8: «Anche se noi stessi - scrive ancora S. Paolo - o un angelo del cielo venisse ad annunziarvi un altro vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato noi, sia egli anatema»), e sia il carisma dello Spirito Santo che accompagna la voce del Vangelo (cfr. Io. 15, 20).

E chiederemo a S. Pietro un’altra fedeltà, anche questa superlativamente sua, quella dell’amore a Cristo, che si effonde in concreto e generoso servizio pastorale (cfr. Io. 21, 15 ss.). Abbiamo noi a Roma, proprio per la missione di Pietro qui stabilita e da qui irradiata, grandi doveri, maggiori doveri di quanti ne abbia qualsiasi altra Chiesa.

SERVIRE PER AMORE

Bisogna servire per amore. Questa è la grande legge del servizio, della funzionalità, dell’autorità della Chiesa. Ed è la legge, che noi siamo felici di vedere praticata, con tanta generosità e assiduità, nel cerchio romano, e diffuso nel mondo, dei collaboratori che sorreggono ed eseguiscono il nostro ministero apostolico.

Ma non sarà mai vano per noi, che vi parliamo, né per voi, che ci ascoltate, rinnovare cento volte il proposito di adempiere in perfezione questa legge di amore evangelico; e non sarà inutile perciò che anche di questa fedeltà, di questo carisma supremo della carità, noi facciamo oggi preghiera all’Apostolo, che sull’invito e sul favore di Cristo, ebbe l’audacia di rispondere che sì, alla domanda di Gesù se egli lo amava di più degli altri. Lo amava di più! Aveva il primato dell’amore a Cristo, e perciò quello pastorale verso il suo gregge.

O San Pietro! ottieni anche a noi di essere forti nella fede e di amare di più. Fa’ che questa tua Roma, in codesti doni si affermi ed anche a beneficio, ad esempio dei fratelli che sono nel mondo essa si distingua.

O Santi Pietro e Paolo («ipse consors sanguinis et diei» S. AG., Serm. 296; P.L. 38, 1354) «in mente habete»! Ricordatevi di noi! Così sia!



Udienza Generale Di Paolo Vi

Mercoledì, 26 giugno 1968

PIETRO E PAOLO ALL'ORIGINE COSTITUTIVA DELLA CHIESA DI ROMA


Diletti Figli e Figlie!

Al termine ormai dell’«Anno della Fede», che Noi abbiamo dedicato alla memoria del XIX centenario del martirio sofferto a Roma per il nome di Cristo dai Santi Apostoli Pietro e Paolo, dobbiamo rivolgere il nostro riverente pensiero a questi Corifei del cristianesimo, che possono essere considerati, come li definisce alla fine del primo secolo il Papa S. Clemente I, terzo successore di S. Pietro, e perciò quarto Vescovo sulla cattedra romana, «le massime e giustissime colonne» (1 Cor. V) della «Chiesa di Dio pellegrina a Roma» (ibid. I), e come poi sempre furono celebrati insieme quali fondamenti apostolici della Chiesa romana e universale.

Non è questo il momento per fare il loro panegirico, né quello di accennare alle questioni storiche, che si riferiscono alla venuta dell’uno e dell’altro Apostolo nell’Urbe e del loro martirio, né dello sviluppo che Roma e l’intera Cristianità diedero al culto di questi incomparabili testimoni del messaggio e del fatto cristiano, e nemmeno come mai la loro memoria fu sempre associata in un unico ricordo (cfr. S. Ignazio, ad Rom. IV), quantunque, come dice S. Ambrogio, Pietro sia stato il fondamento della Chiesa, e Paolo l’architetto, il costruttore (De Sp. S. II, 13, 158; P.L. 16, 808); cioè diversa sia stata la funzione da essi esercitata nella comunità cristiana di Roma, Vescovo l’uno, S. Pietro, Predicatore del Vangelo l’altro, S. Paolo, e sebbene entrambi, a quanto afferma S. Ireneo, siano all’origine della tradizione gerarchica della Chiesa di Roma (Contra haereses, III, 3; P.G. 7, 848-849).

VENERAZIONE AMORE FEDELTÀ PER I DUE INSIGNI ARALDI

Ciò che a Noi preme, in questo breve incontro, è di accendere nei nostri animi la venerazione, l’amore, la fedeltà verso questi Apostoli, che sono all’origine costitutiva della Chiesa romana, e le lasciano l’eredità della loro parola, della loro autorità, del loro sangue, eguali sotto diversi aspetti come declama S. Leone Magno: «electio pares, et labor similes, et finis fecit aequales», pari per l’elezione all’apostolato, simili per l’opera compiuta, ed eguali per il loro martirio (Sermo 82, 7; P.L. 54, 428); ma l’uno insignito della potestà del regno dei cieli, l’altro della scienza delle cose divine; l’uno Pastore, l’altro Dottore. A questa intensità di sentimenti ci aiutano e ci impegnano le tracce storiche e locali da loro lasciate. Non possono essere trascurati da noi Romani, a da quanti a Roma muovono i passi, questi riferimenti umani e materiali alla memoria degli Apostoli, «per quos religionis sumpsit exordium», per merito dei quali ebbe inizio la nostra vita religiosa (Colletta della Messa). Ricordiamo anche noi la prima testimonianza letteraria di questo culto locale: scrive Eusebio di Cesarea, padre della storia ecclesiastica: «Si narra che Paolo fu decapitato da lui (Nerone) e Pietro crocifisso a Roma; e ne sono riconferma tuttora i monumenti insigniti dei nomi di Pietro e di Paolo, visitati tuttora nei cimiteri della città di Roma. Del resto anche Gaio, un ecclesiastico vissuto ai tempi del Vescovo di Roma Zefirino (199-217), in un suo scritto contro Proclo, capo della setta dei Montanisti (Catafrigi), parla dei luoghi ove furono deposte le sacre spoglie dei detti Apostoli; e così si esprime: «Io posso mostrarti i trofei degli Apostoli. Se vorrai recarti al Vaticano, o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa Chiesa» (Hist. Eccl., 11, 25; P.L. 20, 207-210).

LA MEMORIA ANTICA E LE RECENTI INDAGINI DEL GLORIOSO «TROFEO»

Si è parlato assai in questi ultimi anni dei menzionati «trofei»: nessun dubbio che per trofei s’intendano le tombe dei due Apostoli martiri, le quali già prima della testimonianza di Gaio, e perciò già nel secondo secolo, erano oggetto di venerazione. Ultimamente l’attenzione degli studiosi s’è fissata sul trofeo eretto sulla tomba di San Pietro, detto appunto il trofeo di Gaio. Dobbiamo questo appassionato interessamento agli scavi, che Papa Pio XII, Nostro venerato Predecessore, ordinò che si facessero sotto questo altare centrale, detto «Confessione», della Basilica di S. Pietro, per meglio identificare la tomba dell’Apostolo, sulla quale, ed in suo onore, questa Basilica è costruita. Gli scavi, difficilissimi e delicatissimi, furono eseguiti, fra il quaranta e il cinquanta, con i risultati archeologici di somma importanza, che tutti sanno, per merito degli insigni studiosi ed operatori che all’ardua ricerca hanno dedicato cure degne di plauso e di riconoscenza. Così si esprimeva Papa Pio XII, nel suo Radiomessaggio natalizio del 23 dicembre 1950: «. . . La questione essenziale è la seguente: È stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo "sì". La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata. Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute?» (Discorsi e Radiom. XII, 380). La risposta allora data dal venerato Pontefice era sospensiva, dubitativa.

Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica.

ANNUNZIO FELICE: RINTRACCIATI I SACROSANTI RESTI MORTALI DEL PRINCIPE DEGLI APOSTOLI

Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche.

Ma da parte Nostra Ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, di dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo ad onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità, le quali furono un tempo vive membra di Cristo, tempio dello Spirito Santo, destinate alla gloriosa risurrezione (cfr. Denz. Sch., 1822); e, nel caso presente, tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che sono stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti resti mortali del Principe degli Apostoli, di Simone, figlio di Giona, del Pescatore chiamato Pietro da Cristo, di colui che fu eletto dal Signore a fondamento della sua Chiesa, e a cui il Signore affidò le somme chiavi del suo regno, con la missione di pascere e di riunire il suo gregge, l’umanità redenta, fino al suo finale ritorno glorioso.

Figli carissimi! Invochiamo il martire, apostolo, vescovo di Roma e della Chiesa cattolica, Pietro, e, con lui, Paolo, il missionario, il dottore delle genti, l’assertore principale dell’universalità del messaggio cristiano, affinché entrambi ci siano maestri e protettori dal cielo nel nostro pellegrinaggio terreno.

Possa la Benedizione Apostolica, che a Noi da quella fonte Ci deriva, essere per voi tutti effusiva delle più abbondanti grazie del Signore Gesù.



UDIENZA DI PAOLO VI

Mercoledì, 22 febbraio 1967

Questa udienza generale trova oggi, 22 febbraio, la Basilica di S. Pietro in festa per la celebrazione d’una sua particolare solennità: quella della «Cattedra di San Pietro». Dubiterà qualcuno che si tratti d’una festa di recente istituzione, dovuta allo sviluppo della dottrina circa il Pontificato romano, nel secolo scorso. No, si tratta di un’antichissima festa, che risale al terzo secolo (cf. Lexicon für Th. und K. 6, 66), e che si distingue dalla festa per la memoria anniversaria del martirio dell’Apostolo (29 giugno). Già nel quarto secolo la festa odierna è indicata come «Natale Petri de cathedra» (cf. Radò, Ench. Lit, II, 1375). Fino a pochi anni fa il nostro calendario registrava due feste della Cattedra di S. Pietro, una il 18 gennaio, riferita alla sede di Roma, l’altra il 22 febbraio, riferita alla sede di Antiochia; ma si è visto che questa geminazione non aveva fondamento né storico, né liturgico.

A che cosa si riferisce questo culto? Il primo pensiero corre alla Cattedra materiale, cioè alle reliquie del seggio sul quale l’Apostolo si sarebbe seduto per presiedere all’assemblea dei Fedeli, perché sempre in tutte le comunità cristiane il seggio episcopale era tenuto in grande onore. Si chiama ancor oggi cattedrale la chiesa dove il Vescovo risiede e governa. Ma la questione circa l’autenticità materiale di tali reliquie riguarda piuttosto l’archeologia, che la liturgia; sappiamo che tale questione ha una lunga storia di difficile ricostruzione, e che il grandioso e celebre monumento di bronzo, eretto per ordine di Papa Urbano VIII, ad opera del Bernini, nell’abside di questa Basilica, si chiama «l’altare della Cattedra», il quale, a prescindere dai cimeli archeologici ivi contenuti, vuole onorare principalmente il loro significato: vuole cioè riferirsi a ciò che dalla Cattedra è simboleggiato, la potestà pastorale e magistrale di colui che occupò la Cattedra stessa, considerata piuttosto nella sua origine costitutiva e nella sua tradizione ecclesiastica, che non nella sua entità materiale (cf. Cabrol, in DACL, III, 88: la festa «ricordava l’episcopato di S. Pietro a Roma, piuttosto che la venerazione d’una Cattedra materiale dell’Apostolo»). «Quello che conta e che commuove e la glorificazione di questa "Cattedra", la quale, fra tanto susseguirsi e variare di sistemi, di teorie, di ipotesi, che si contraddicono e cadono l’unta dopo l’altra, è l’unica che, invitta, faccia certa, da duemila anni, la grande famiglia dei cattolici; che anche su questa terra è dato agli uomini di conoscere talune immutabili verità supreme: le vere e sole che appaghino l’angoscioso spirito dell’uomo» (cf. Galassi Paluzzi, S. Pietro in Vat., II, 65).

Dunque: onoreremo nella Cattedra di San Pietro l’autorità che Cristo conferì all’Apostolo, e che nella Cattedra trovo il suo simbolo, il suo concetto popolare e la sua espressione ecclesiale. Come non ricordare che, fin dalla metà del terzo secolo, il grande vescovo e martire africano, San Cipriano, adopera questo termine per indicare la potestà della Chiesa Romana, in virtù della Cattedra di Pietro, donde scaturisce, egli dice, l’unità della gerarchia? (cf. Ep. 59, 16: Bayard, Correspondance, II, 184). E quanto alla festa della Cattedra basti citare una delle frasi dei tre discorsi attribuiti a S. Agostino e ad essa relativi: «L’istituzione della odierna solennità ha preso il nome di Cattedra dai nostri predecessori per il fatto che si dice avere il primo apostolo Pietro occupato la sua Cattedra episcopale. Giustamente dunque le Chiese onorano l’origine di quella sede, che per il bene delle Chiese l’Apostolo accettò» (Serm. 190, I; P.L. 39, 2100).

Noi faremo bene, Figli carissimi, a dare a questa festività la venerazione, che le è propria, ripensando alla insostituibile e provvidenziale funzione del magistero ecclesiastico, il quale ha nel magistero pontificio la sua più autorevole espressione. Si sa, pur troppo, come oggi certe correnti di pensiero, che ancora si dice cattolico, cerchino di attribuire una priorità nella formulazione normativa delle verità di fede alla comunità dei fedeli sulla funzione docente dell’Episcopato e del Pontificato romano, contrariamente agli insegnamenti scritturali e alla dottrina della Chiesa, apertamente confermata nel recente Concilio, e con grave pericolo per la genuina concezione della Chiesa stessa, per la sua interiore sicurezza e per la sua missione evangelizzatrice nel mondo.

Unico nostro maestro è Cristo, che più volte ha rivendicato a Sé questo titolo (Matth. 23, 8; Io. 13, 14); da Lui solo viene a noi la Parola rivelatrice del Padre (Matth. 11, 27); da Lui solo la verità liberatrice (lo. 8, 32), che ci apre le vie della salvezza; da Lui solo lo Spirito Paraclito (Io. 15: 26), che alimenta la fede e l’amore nella sua Chiesa. Ma è pur Lui che ha voluto istituire uno strumento trasmittente e garante dei suoi insegnamenti, investendo Pietro e gli Apostoli del mandato di trasmettere con autorità e con sicurezza il suo pensiero e la sua volontà. Onorando perciò il magistero gerarchico della Chiesa onoriamo Cristo Maestro e riconosciamo quel mirabile equilibrio di funzioni da Lui stabilito, affinché la sua Chiesa potesse perennemente godere della certezza della verità rivelata, dell’unità della medesima fede, della coscienza della sua autentica vocazione, dell’umiltà di sapersi sempre discepola del divino Maestro, della carità che la compagina in un unico mistico corpo organizzato, e la abilita alla sicura testimonianza del Vangelo.

Voglia il Signore conservare ed accrescere, per i bisogni del nostro tempo, questo culto amoroso, fiducioso e filiale al magistero ecclesiastico stabilito da Cristo; e sia a noi propizio l’Apostolo, che primo ne ebbe il mandato, e che qui ancora, dalla sua Cattedra romana, per mano Nostra, tutti vi benedica.



XIII ANNIVERSARIO DELL’INCORONAZIONE DI PAOLO VI

OMELIA DI PAOLO VI

Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo
Martedì, 29 giugno 1976


Noi celebriamo oggi la festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Quale immenso tema di meditazione! quale giocondo motivo di spirituale celebrazione! quale classica ragione di ecclesiale fiducia! Per noi Romani la festa si arricchisce di altri due titoli: che essi furono nostri concittadini, Romani anch’essi di adozione e di ministero; e che a Roma coronarono la loro vita col martirio nel nome di Gesù Cristo. Ed ecco, a questo supremo ricordo, scaturisce una polla di annose e grandi questioni: quando fu consumato tale martirio? dove? e come? e quale la vicenda e la sorte delle loro tombe e delle loro reliquie? Questioni storiche, archeologiche, letterarie, religiose di grande interesse, assai documentate, assai discusse, i cui vari e a volte contestati aspetti non infirmano il culto tributato in Roma e nella Chiesa intera a questi sommi eroi della fede, ma lo confermano e lo ravvivano.

A questo nostro tempo inoltre è stata data la fortuna di raggiungere, per ciò che riguarda San Pietro, la certezza, di cui si è fatto araldo il nostro venerato predecessore, Papa Pio XII di venerata memoria (Cfr. PIO XII, Discorsi e Radiomessaggi, XII, 380), circa la collocazione della tomba dell’Apostolo Pietro in questo venerabile luogo, dove sorge questa solenne basilica a lui dedicata, e dove noi ora ci troviamo in preghiera; prova questa incontestabile della permanenza dell’Apostolo nell’Urbe, oggetto da parte di alcuni studiosi di critica negativa, che sembra farsi sempre più silenziosa. Inoltre a noi è toccata un’altra fortuna, quella di essere rassicurati dei risultati che sembrano positivi delle assidue ed erudite ricerche circa l’identificazione e l’autenticità delle veneratissime residue reliquie del beato Pietro, Simone figlio di Giovanni, l’umile pescatore di Galilea, il discepolo e quindi l’apostolo, eletto da Gesù Cristo stesso per essere capo del gruppo dei suoi primi qualificati seguaci, e posto a fondamento dell’edificio, chiamato Chiesa, che Cristo si è proposto di costruire e da lui garantito indenne nel misterioso conflitto con le potestà delle tenebre.

Riconoscenti a quanti hanno merito in questa ardua esplorazione, noi accogliamo con riverenza e con gioia l’esito di così significativo avvenimento archeologico, che conforta con nuovi argomenti storici e scientifici la secolare convinzione del culto qui professato al Principe degli Apostoli, e vi ravvisa una conferma e un presagio della sua drammatica, ma vittoriosa missione di propagare il nome di Cristo nella storia e nel mondo.

Ed è proprio su questa missione, che oggi vogliamo fermare, anche per un solo istante, la vostra attenzione, venerati Fratelli e Figli carissimi, la vostra devozione. Noi possiamo collegare tale missione ad una parola istituzionale e profetica di Cristo, che principalmente, ma non esclusivamente, a Pietro si riferisce. E la parola è quella di Gesù Cristo prima del suo congedo dalla umana conversazione; è registrata da San Luca nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli, il primo libro della storia della Chiesa, là dove il Signore risorto dice ai suoi: «voi sarete miei testimoni» (Act. 1, 8). Questa è una parola che ritorna frequente nell’economia della nostra religione, per quanto si riferisce ai suoi titoli originari e trascendenti, quelli della rivelazione, e alla sua fedele e perenne trasmissione. La tradizione cristiana, la diffusione e l’insegnamento della fede, la sua interiore e umana certezza, suffragata dal carisma dello Spirito Santo e dall’autorità divinamente stabilita del magistero della Chiesa cattolica, si riferiscono essenzialmente all’istituzione d’una testimonianza qualificata, che serve da tramite, da veicolo, da garanzia alla Verità, di cui solo alcuni, gli Apostoli, e i fedeli contemporanei «preordinati da Dio» (Act. 10, 41) ebbero diretta e sensibile esperienza. Da questa sperimentale realtà di fatto nasce il messaggio, nasce il «Kerigma», cioè una predicazione, una parola da trasmettere; la potestà ed insieme il dovere di comunicare ad altri la parola di verità conosciuta; nasce l’apostolato, quale sorgente genetica della fede.

Gesù darà a Pietro la celebre consegna, successiva alla pavida negazione di lui: «Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Luc. 22, 32); e poi, dopo la risurrezione e la triplice riparatrice professione d’amore, la triplice investitura pastorale: «pasci il mio gregge» (Cfr. Io. 21, 17). Pietro si sentirà ormai dominato da questa interiore imperiosa coscienza; il timido discepolo sarà ormai l’inflessibile testimonio, l’impavido apostolo: «noi non possiamo tacere - egli affermerà - quello che abbiamo visto e ascoltato» (Act. 4, 20); «noi siamo testimoni di tutte le cose da Lui, Gesù Cristo, compiute . . .» (Ibid. 10. 39).

La documentazione potrebbe ancora essere assai ricca e potrebbe confortarci con l’esortazione alla fermezza nelle tribolazioni stesse, che possono provenire dalla professione della fede trasmessa dall’Apostolo alla Chiesa nascente: «Chi potrà farvi del male - egli scrive - se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi . ..! Beati voi, se siete insultati per il nome di Cristo . . . Se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome» (1 Petr. 3, 13; 4, 14-16). Il discepolo è diventato maestro e apostolo; e da apostolo animatore, e poi martire. E martire significa appunto testimonio, ma, nel linguaggio cristiano, da Stefano in poi s’intende testimonio nel sangue, come lo fu Pietro stesso, conforme alla profezia a lui fatta da Gesù medesimo (Io. 21, 18-19). «Cum autem senueris . . . alius cinget te . . .».

Due conclusioni ci sia concesso trarre da questo fugace accenno alla qualifica di testimonio attribuita da Cristo ai suoi Apostoli, ed in primo luogo a Pietro ed a Paolo, dei quali celebriamo la sempre gloriosa festività. La prima conclusione riguarda l’equazione che possiamo, in certa misura, stabilire fra l’apostolato e l’evangelizzazione, per riscontrare la potestà di magistero nella Chiesa apostolica e in quella che ne è legittimamente derivata, con le facoltà d’insegnamento, di interpretazione e di intrinseco sviluppo circa la rivelazione cristiana, nelle sue parole e nei suoi fatti, e sempre nella sua suprema esigenza di autenticità. Questo, lo sappiamo, è uno dei punti forti della cultura contemporanea e della discussione ecumenica del nostro tempo; forte per la controversia che vorrebbe ammorbidire la saldezza del magistero ecclesiastico, che si rifà a quello apostolico; lo si vorrebbe più flessibile, più docile alla storia, più relativo alla moda del pensiero, più pluralistico, più libero; cioè guidato da criteri soggettivi e storicisti, e punto vincolato a formulazioni d’un magistero tradizionale che si appella ad una dottrina rivelata e divina; e forte per l’atteggiamento storicamente e logicamente coerente, con cui la Chiesa di Pietro tutela il «deposito» dottrinale che le è affidato (Cfr. 1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14): non è ostinazione la sua, non arretratezza, non incomprensione delle evoluzioni del pensiero umano; è fermezza al Pensiero divino, è fedeltà, e perciò verità e vita, anche per il tempo nostro.

L’altra conclusione riguarda l’ampiezza che il termine «apostolato» deve assumere, inteso non nel senso di potestà d’insegnamento, affidata a coloro che «lo Spirito Santo ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio» (Act. 20, 28); ma nel senso di dovere di diffondere l’annuncio evangelico; esaltante dovere che nasce in ogni cristiano, battezzato e cresimato, chiamato come membro vivo della Chiesa a contribuire, come insegna il Concilio, alla edificazione della Chiesa stessa (Cfr. Lumen Gentium, 3 3 ; Apostolicam Actuositatem, 1, 9, 10, etc.; Ad Gentes, 21; etc. Cfr. etiam Eph. 4, 7; 1 Cor. 9, 16; etc.). Ogni cristiano, secondo le sue personali e sociali condizioni, dev’essere testimonio di Cristo; dovere questo che l’essere fanciullo, giovane, uomo, donna, impegnato in uffici secolari, o impedito da particolari doveri, o infermità, non dispensa dal suo compimento. Non indolenza, non timidezza, non scetticismo, non animosità critica e contestatrice, o altro sentimento negativo deve paralizzare, oggi specialmente, l’esercizio dell’apostolato, cioè la testimonianza personale, familiare, collettiva del buon esempio, dell’osservanza dei doveri religiosi, della professione, tacita almeno ma trasparente, della propria fede cristiana, dallo stile di vita, retto, buono, cortese, premuroso della carità (Cfr. J. ESQUERDA BIFFET, Noi siamo testimoni, Marietti, 1976). Cosciente di questa comune vocazione, nessuno si esima da questo fondamentale dovere della testimonianza personale e cattolica al nome di Cristo nella semplice, ferma, solidale comunione con gli Apostoli, di cui noi celebriamo, con la memoria liturgica, la successione storica ed ecclesiale; e nessuno di voi, venerati Fratelli e Figli carissimi, tralasci di offrire a Cristo, mediante l’invocata intercessione degli Apostoli Pietro e Paolo, per questo umile loro successore, che vi parla, una preghiera, affinché egli sia fedele nell’ufficio gravissimo che gli è stato affidato, per il bene della Chiesa e del mondo. Egli oggi ricambia la vostra carità, sempre nel nome degli Apostoli, con la sua speciale, specialissima Benedizione (Cfr. 1 Cor. 4, 2; 9, 27; Eph. 4, 3).



UDIENZA GENERALE DEL PAPA PAOLO VI

Mercoledi 17 giugno 1964

Diletti Figli e Figlie!

NON POSSIAMO, in questa Basilica, ed in questo mese, non ricordare all’udienza, che tutti ci riunisce sulla Tomba dell’Apostolo Pietro, essere prossima la sua festa.

Vi invitiamo perciò tutti a fare atto di venerazione alla sua memoria, al suo sepolcro, alle sue reliquie, e a professare qui, dove è celebrata la missione da Cristo a lui conferita, la fede nel messaggio evangelico da lui predicato e confermato con il suo martirio, e la fedeltà alla Chiesa, che ha Pietro per centro e fondamento.

Questo atto di adesione al Primo degli Apostoli può sollevare anche nel vostro spirito il desiderio di avere di lui un concetto più esatto e più pieno di quello che il suo semplice nome sveglia nel nostro animo. Cioè viene facilmente davanti alla mente di tutti la domanda: chi era S. Pietro? A questa facile domanda non è facile dare pronta e completa risposta. Se cercate col pensiero questa risposta, vi accorgete che essa prende due direzioni: una che si rivolge verso l’uomoPietro, che si chiama Simone, figlio di Giona, che aveva per fratello Andrea, entrambi di Betsaida, in Galilea, di professione pescatori, di temperamento vivo ed entusiasta, ma im. pressionabile, eccetera; cioè la risposta cerca di tracciare il profilo biografico dell’Apostolo; e i Vangeli, con gli Atti degli Apostoli, le Lettere di S. Paolo e le due di S. Pietro, con qualche altro riflesso nei documenti storici ci offrono elementi sufficienti e interessantissimi per descrivere la figura e la ‘vita di lui; abbiamo libri bellissimi a tale riguardo. Ma questa risposta non ci basta; ne occorre un’altra, che cerca i suoi elemeki nelle parole e nel pensiero di Gesù, per sapere che cosa il Signore volle realmente’ fare di Simone, da lui chiamato Pietro. Non più la biografia, ma la teologia di S. Pietro ci interessa alla fine; e cioè: chi era S. Pietro nel volere di Nostro Signore?

La risposta, che sembra pronta: era il discepolo, il primo, chiamato Apostolo con gli altri undici..., si complica al ricordo delle immagini, delle figure, delle metafore, di cui il Signore si servi per farci comprendere chi doveva essere e diventare questo suo eletto. Osservate. L’immagine più ovvia è quella della pietra, della roccia; il nome di Pietro la proclama. E che cosa significa questo termine applicato ad un uomo semplice e sensibile, volubile e debole, potremmo dire? La pietra è dura, è forte, è stabile, è duratura; sta alla base dell’edificio, tutto lo sostiene... e l’edificio si chiama la Chiesa: « Sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa »

Ma vi sono altre immagini riferite a Pietro, che meriterebbero spiegazioni e meditazioni; immagini usate da Gesù stesso, piene di profondo significato. Le chiavi, ad esempio; cioè i poteri; date a Pietro soltanto, fra tutti gli apostoli, a significare una pienezza di facoltà che si esercitano non solo in terra, ma perfino in cielo. E la rete, la rete di Pietro, due volte nel Vangelo lanciata per una pesca miracolosa? « Ti farò pescatore di uomini », diceva il Vangelo di S. Luca, domenica scorsa (5, 10). Anche qui: l’umile immagine della pesca assume l’immenso e maestoso significato della missione storica e universale affidata a quel semplice pescatore del lago di Genesareth! E la figura de1 pastore? « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore » (Io. 21, 1617), disse Gesù a S. Pietro quasi per far a noi pensare che il disegno della nostra salvezza implica un rapporto necessario fra noi e lui, il sommo Pastore.

E così via; sebbene, a meglio guardare nelle pagine della Scrittura, troveremmo altre immagini significative, come quella della moneta (Matth. 17, 25), per ordine di Gesù pescata da Pietro per pagare il tributo; come quella della barca di Pietro, dalla quale Gesù sale ed insegna (Luc. 5, 3); come quella del lenzuolo calato dal cielo nella visione di Joppe (Act. 10, 3), e quella delle catene che cadono dai polsi di Pietro (Act. 12, 7), e quella del gallo che canta per ricordare a Pietro la sua umana fragilità (Marc. 14, 72), e quella della cintura che un giorno, l’ultimo, a significare il martirio dell’Apostolo, circonderà i fianchi di Pietro (Io. 21, 18); per tacere delle immagini, riferite a Pietro, insieme agli altri Apostoli: « Voi siete il sale della terra..., voi siete la luce del mondo... » (Matth. 5, 13 e 14).

Tutte queste immagini, caratteristiche del linguaggio biblico e di quello evangelico specialmente, nascondono significati grandi e precisi. Sotto il simbolo è una verità, è una realtà, che la nostra mente può esplorare, e può vedere immensa e divina. La devozione a S. Pietro ci fa così incontrare il pensiero di Gesù. Ed è questo l’incontro spirituale che Noi auguriamo possiate fare anche voi in questo momento, e poi sempre. S. Ambrogio scrisse le famose parole: « Ubi Petrus, ibi Ecclesia, dov’è Pietro, lì è la Chiesa » (in Ps. 40, 30; P.L. 14, 1082); noi possiamo aggiungere: dove è Pietro e insieme la Chiesa, ivi è Cristo! Cosi è.

Con questo pensiero, vi salutiamo e vi benediciamo.



Udienza Generale Di Paolo Vi

Mercoledì, 28 giugno 1972

Domani è S. Pietro. È la festa del primo Apostolo, celebrata a Roma, già fino dal terzo secolo insieme con la festa di S. Paolo, cioè: «quella di S. Pietro in Vaticano; quella di S. Paolo sulla via Ostiense; di entrambi alle catacombe», dove ora si trova la basilica di S. Sebastiano (Cfr. KIRSCH, Jahrbuch f. Lithurgiewiss., 1923, 38, riassumendo il Martirologio così detto Geroniminiano; M. GUARDUCCI, La tomba di Pietro, p. 141 ss.).

Grande festa, a Roma specialmente, come si sa; l’Urbe sembra risvegliarsi nelle sue venerande memorie, tanto più care e stimolanti ora che i recenti scavi e gli studi nuovissimi ci hanno dato la commozione e la gioia della confermata autenticità della tomba e anche delle reliquie dell’Apostolo Pietro, custodite sotto la cupola della Basilica a lui dedicata.

Ma può succedere questo: che la meraviglia e la venerazione delle cose consuete e vicine si attenuano, se la riflessione non ce ne ricorda il senso ed il valore. Bisogna riflettere. E la riflessione, la quale ci porterebbe a profonde e interminabili escursioni nella sacra Scrittura, nella Teologia, nella Storia, nell’Agiografia, e soprattutto nell’Ecclesiologia, ci è facilitata e semplificata, ad uso almeno di questo nostro breve sermone popolare, dai simboli di cui la figura di Pietro è circondata.

IL NOME

A cominciare proprio dal nome stesso di Pietro. Conoscete il racconto evangelico (Cfr. Matth. 16, 18). Chi diede questo nome a Simone, figlio di Giovanni? perché tale era il suo nome originario. Fu Gesù Cristo stesso, che, dopo la dichiarazione ispirata, fatta a Lui dall’Apostolo: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo», proclamò: «. . . e Io dico a te, che tu sei Pietro, e su questa Pietra, Io edificherò la mia Chiesa». Che cosa comporta questa metamorfosi, operata da Cristo stesso, di Simone trasformato in Pietro, e messo al posto della pietra angolare della costruzione progettata da Cristo; posto che solo al Signore stesso deve spettare? (Cfr. Matth. 21, 42; Act. 4, 11; Rom. 9, 33; 1 Petr. 2, 6) Quali concetti richiama, quali doveri impone, quali prerogative conferisce, quali disegni divini rivela, quale ecclesiologia stabilisce, quale prodigio storico permanente annuncia . . . la scelta d’un tale nome inventato ed imposto dal Signore al suo discepolo, il quale, umanamente parlando, non sembrava esservi predisposto? Provate a pensarci (Cfr. S. Aug. Sermo 293; PL 38, 1348).

LE CHIAVI

Un altro simbolo: le chiavi. Cristo a Pietro preannuncia la consegna delle chiavi. Quali chiavi? «Le chiavi del regno dei cieli» dice il Signore. Che cosa vuol dire? le chiavi indicano la potestà, indicano la facoltà di disporre, di aprire e di chiudere per incarico del padrone di casa. Di quale casa? il regno dei cieli, cioè l’economia della salvezza, il disegno misterioso dell’ordine soprannaturale nascosto da secoli e instaurato da Cristo fra Dio e gli uomini (Cfr. Col. 1, 26; Eph. 1, 7 ss.). «Il dono delle chiavi è dunque l’investitura del potere su tutta la casa» (LAGRANGE, Matth. 16, 13). Pietro, e con lui il collegio degli altri Apostoli, è nominato intermediario necessario per l’accesso regolare al regno dei cieli . . . Anche questo simbolo così semplice e così chiaro, ma così denso di significato, invita a pensare.

LA RETE

E la rete? la vedete appesa sulla porta della Basilica, stilizzata in forma abbastanza strana, ma che dice il concetto, e tanto basta. Il concetto, qual è? È quello che ricorda l’umile, ma bella professione di Simon Pietro. Egli era pescatore. E Gesù si vale di questa qualifica, relativa al mestiere del discepolo e di altri parimente con lui, per significare sotto la figura della pesca la missione a cui Pietro e gli Apostoli saranno destinati: «Vi farò diventare, dice il Signore dopo Ia sorpresa della pesca miracolosa, pescatori di uomini!» (Matth. 4, 19). Pescare gli uomini! Cioè: avvicinarli, conoscerne i costumi ed i bisogni, saperli aspettare, sapersi adattare alla loro mobilità, avere l’arte di attrarli, il cuore capace di amarli, la sapienza di convincerli; ecco l’ufficio apostolico, ecco l’esercizio d’un ministero paziente, ecco la prospettiva di un’estensione universale della predicazione evangelica, ecco la tacita promessa di Cristo, che la temeraria impresa di convertire a Lui il mondo potrà avere, non per abilità umana, e nonostante l’ostinata resistenza degli uomini, ma per divina virtù, un insperato esito felice.

LA BARCA

Pietro pescatore ci fa pensare ad un altro segno che lo caratterizza: la sua barca; quella barca sulla quale salì Gesù come sopra una cattedra, ed ivi seduto ammaestrava le turbe «raccolte sulla riva del lago di Genezareth» (Luc. 5, 3); quella barca donde Gesù ordinò di lanciare le reti, e furono piene di pesci a tal punto che un’altra barca fu chiamata al soccorso, ma non senza temere che entrambe facessero naufragio, così che Pietro, uomo del mestiere, notò subito il carattere miracoloso del fatto e proruppe in uno stupendo atto di umiltà, cadendo in ginocchio davanti a Gesù ed esclamando: «Via da me, Signore, perché io sono uomo peccatore» (Ibid. 5, 8); quella barca, su cui Gesù, sedendo a poppa (v’era, osserva Marco forse informato da Pietro, anche un cuscino), misteriosamente s’addormentò; e infuriando un’improvvisa tempesta, i discepoli atterriti lo svegliarono, e Gesù alzatosi intimò al vento furioso di calmarsi e al mare fremente di tacere; e subito fu grande calma (Marc. 4, 35-41); quella barca, che sembra simboleggiare l’aspetto mobile e relativo della Chiesa, che naviga sulle onde del tempo e della storia, e che ancora figura come stemma di Pietro nel sigillo adoperato tuttora per dare autenticità ai documenti più gravi della Chiesa, segnati dall’«anello del Pescatore».

IL GALLO

E ancora un altro segno ci narra la storia di Pietro, il gallo. Quel gallo implacabile che cantò nella notte della negazione, la notte del processo di Gesù, come Gesù aveva predetto: «Prima che il gallo canti per la seconda volta, mi rinnegherai» (Matth. 14, 72). Pietro uomo ci appare nella sua drammatica complessità psicologica, nella sua fragilità umana; era buono, sincero, era esuberante di sentimenti e di parole; si fidava, così trasportato dal suo entusiasmo, si fidava di sé, Il demonio prevalse su di lui (1 Petr. 5, 8). E subito la paura l’invase, e negò, e mentì alla fedeltà e all’amore: «Non lo conosco!» (Marc. 14, 71). Per fortuna - oh! quale bontà di Cristo per il suo debole e prescelto testimonio! - Gesù, proprio in quel momento, «si voltò e guardò Pietro» (Luc. 22, 61); e tanto bastò per sconvolgere nel rimorso e nel pianto il povero apostolo, che fuggì, ma non disperò. Gesù gli aveva anche predetto ch’egli si sarebbe ripreso e che sarebbe stato poi suo compito di «confermare i suoi fratelli» (Ibid. 22, 32).

Possiamo concludere questa serie di simboli ricordando l’ultimo, quello del Pastore, altro titolo proprio di Gesù, che il Signore risorto, dopo aver fatto salire dal cuore di Pietro tre volte la professione dell’amore, tre volte gli affida la missione d’essere per eccellenza il pastore del gregge di Cristo; il pastore, in sua vece, della sua Chiesa (Io. 21, 15 ss.). Meditate: Pietro Pastore, vivente nei suoi successori, «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità» (Lumen Gentium, 23), nella fede, nella speranza, nella carità!

Chi ora vi parla, esulta e trema rievocando queste immagini evangeliche, relative a Pietro, in cui oggi la Chiesa onora Gesù Cristo; e voi potete comprendere perché. Abbiate allora, Fratelli e Figli carissimi, una preghiera anche per noi, che indegni, ma veri successori di Pietro, tutti di cuore vi benediciamo.





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