tratto da BREZZI Paolo, Il Papato, Studium, Roma 1967, p. 32-52.
Scomparso Pietro, la chiesa romana rientrò nell'ombra per qualche decennio; non intendendo dare un elenco dei vescovi di Roma, con qualche notizia biografica ad essi relativa, ma tentando di seguire lo svolgimento dell'istituto papale, tralasciamo senz'altro quell'intervallo di tempo e passiamo a considerare il primo significativo documento della preminente posizione goduta dalla comunità romana e dal suo capo nel corpo della cristianità primitiva: la lettera di Clemente ai Corinti.
La lettera di Clemente ai Corinti
Già al tempo di S. Paolo la chiesa di Corinto era stata dilaniata da gravi discordie interne, aspramente rimproverate dall'apostolo nelle sue epistole. Tali contrasti continuarono, od altri ne sorsero verso la fine del primo secolo, e portarono anche all'esclusione dei presbiteri dalla comunità. Ci sfuggono le ragioni che provocarono questi urti (dualismi tra carismatici e gerarchia; insofferenze razziali tra greci e latini), né ai nostri fini importa indagarle; invece quello che interessa è l'intervento romano nella vertenza. Fu esso provocato da una richiesta dei Corinti o fu attuato per iniziativa dei fedeli di Roma? La domanda è un po' oziosa perché sta il fatto che, invocata od accolta, la voce di Roma era ascoltata anche da chiese autorevoli per fondazione apostolica ed importanti per la loro posizione geografica quale era quella di Corinto: «La chiesa di Dio che è pellegrina in Roma alla chiesa di Dio che è pellegrina in Corinto, ai chiamati e santificati dalla volontà di Dio per il Signore nostro Gesù Cristo. Grazia a voi e pace dall'onnipotente Iddio per Gesù Cristo si accresca».
La lettera continua riferendo varie notizie storiche e dando un preciso ricordo del martirio che i SS. Pietro e Paolo avevano subito in Roma; a giustificazione del ritardo nell'intervento per far cessare la «scissione aliena ed estranea agli eletti di Dio, scellerata ed empia che poche persone temerarie e presuntuose accesero» vengono addotte dall'estensore della lettera «le improvvise e susseguenti contro di noi disgrazie ed avversità», ossia la persecuzione di Domiziano che durò fino al 96 d. C.
Autore della lettera ai Corinti fu il vescovo Clemente, che nella serie dei pontefici viene dopo Lino e Anacleto; qualche studioso ha ridotto la funzione di Clemente a quella di semplice estensore del documento, di segretario della comunità, incaricato di mettere per scritto i sentimenti e le decisioni di questa. Al contrario, tutta la tradizione antica gli ha riconosciuto un posto più eminente ed ha visto in lui una personalità notevole, conscia delle responsabilità della sua carica e desiderosa di restare fedele alla tradizione trasmessa a lui dai Fondatori della chiesa romana. Risulta, infatti, da vari passi della lettera che Clemente concepisce le comunità cristiane come gruppi di fedeli guidati dai propri pastori, i quali hanno una duplice funzione, di comando e di assistenza caritatevole; tali società religiose hanno una loro regola (kanon) alla quale tutti debbono aderire mentre le autorità debbono assolvere il loro ufficio (leiturgia) e trasmetterlo agli altri; queste autorità sono indicate coi nomi di vescovi e di presbiteri senza distinzione; fuori della società cristiana non c'è possibilità di salvezza.
La «I Clementis» (così è passato alla storia questo importante documento) non è, come lo ha definito il Sohn, la prima manifestazione del diritto ecclesiastico, non è, cioè, il sintomo che l'ordinamento burocratico ha soppiantato la spiritualità delle origini cristiane; non è neppure, a rigor di termini, una prova del primato romano perché di esso non vi è traccia in alcuna dichiarazione del testo; il suo valore consiste nel fatto stesso di esser stata scritta, in quanto dimostra che in un tempo in cui esistevano tante comunità di indubbia origine apostolica, soltanto quella romana sentì l'opportunità - o per richiesta degli interessati o per sua iniziativa - di occuparsi della vita interna di una chiesa; vi era in essa un senso «cattolico» della vita cristiana, che conteneva, almeno embrionalmente, l'affermazione di un compito di sorveglianza e di magistero: «Ci darete grande gioia se obbedirete a quanto vi abbiamo scritto per lo Spirito Santo, se toglierete di mezzo la peccaminosa gelosia assecondando l'ammonimento di pace e di concordia che vi abbiamo rivolto in questa lettera» (LXIII, 2). Poiché tale coscienza non poteva essere frutto di arroganza, come ci fa fede lo stesso sviluppo storico della chiesa primitiva, essa doveva procedere da qualche fonte, essere la conseguenza di un deposito affidato secondo un disegno divino alla comunità romana ed al suo capo; in base ad esso Roma agì con prudenza ma con energia facendo vibrare sempre la nota disciplinare ed insistendo sulla necessità che fosse rispettata la gerarchia se si voleva che l'ordine fosse mantenuto.
La Chiesa di Corinto accolse con venerazione la lettera di Clemente e la pose tra i testi sacri che venivano letti durante la funzione domenicale; c'è, anche se non espresso, il «Roma locuta est» che Agostino pronunzierà trecentoventi anni più tardi. Ma la comunità romana non sapeva soltanto comandare, sapeva pur essere generosa perché anche attraverso la beneficenza potevano esser tenuti stretti i legami della comunione ecclesiastica. Consideriamo una testimonianza relativa a questo secondo aspetto della posizione di Roma nella cristianità antica.
Da Ignazio di Antiochia ad Abercio
Se alla fine del I secolo dell'era cristiana s'incontrano i segni di un intervento romano nelle faccende delle altre chiese, per i primi decenni del secolo successivo restano le prove di devote invocazioni rivolte a Roma dai membri più illustri di cristianità lontane. Così Ignazio d'Antiochia, mentre era condotto al martirio, dopo avere indirizzato varie lettere ai fedeli di tutto il mondo, ne inviò una anche ai Romani, ma tenne a precisare subito che egli non aveva ordini da imporre a questa comunità bensì soltanto desiderava richiedere da essa preghiere: «Ignazio detto Teoforo, alla chiesa che ha ottenuto misericordia nella magnificenza del Padre Altissimo e di Gesù Cristo unico Figlio di lui; amata e illuminata per volontà di colui che vuole tutte le cose che sono la carità di Gesù Cristo nostro Dio; la quale anche presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, meritamente beata, degna di lode, degna di felice successo, degnamente casta, che presiede alla carità, che custodisce la legge di Cristo, Figlio del Padre; a quelli che secondo la carne e lo spirito sono uniti nell'obbedienza a ogni comandamento di lui, ripieni di grazia di Dio, saluti cordiali in Gesù Cristo».
Queste dichiarazioni indicano che Ignazio riconosceva a Roma una speciale posizione e, come diceva l'Harnack, attribuiva alla comunità romana una precedenza nel gruppo delle comunità sorelle, essendogli nota l'energica e costante attività di essa capace di trasmettere forza ed insegnamenti alle altre. Non entriamo in discussioni sulle varie espressioni usate da Ignazio nell'intestazione riportata; in particolare ha dato da pensare l'inciso che potrebbe anche esser tradotto «che sta a capo della comunità», intendendo non tanto come carità materiale quanto come legame d'amore che unisce i membri della chiesa. Ad ogni modo è certo che nel corso della lettera Ignazio insiste ancora sul primato di Roma e fonda tale prerogativa sulla tradizione apostolica; nel capitolo IV ricorda il soggiorno di Pietro e Paolo a Roma e ne parla come di cosa a tutti nota ed accettata pacificamente. Conforme alla sua concezione ecclesiologica, Ignazio dà grande importanza al vescovo, unico capo di ogni chiesa e fulcro della vita di essa; in tal modo i vari elementi costitutivi della comunità vengono componendosi davanti ai nostri occhi in modo organico dandoci la possibilità di raffigurare in concreto l'ordinamento e le attività di essa. Anche le altre varie testimonianze del II secolo concordano nel mostrare il fervore e la complessità della vita della comunità cristiana di Roma.
Alla metà del secolo s'incontra un nuovo esempio del rispetto da cui era circondata la sede romana e dell'influenza da essa esercitata su tutta la cristianità: il venerando ed autorevole vescovo di Smirne, Policarpo, decise di compiere il viaggio fino a Roma per dirimere una questione, che teneva agitati gli animi dei fedeli, relativa alla data della celebrazione della Pasqua, fissata da alcuni al 14 del mese di nisan (giorno della morte di Gesù), da altri spostata alla domenica successiva al plenilunio di quel mese (come avviene ancor oggi). Il vescovo Aniceto, che reggeva allora la comunità, non volle derogare dagli usi locali, o, come disse S. Ireneo pochi decenni più tardi, «non poté mutare la costumanza dei presbiteri che lo avevano preceduto», mentre Policarpo, forte della tradizione giovannea, non volle a sua volta transigere; tuttavia i due vescovi mantennero la buona pace tra loro e, in segno di amicizia, Aniceto fece celebrare una volta la funzione eucaristica dal suo confratello in sua vece. La personalità del vescovo incomincia con Aniceto a prendere rilievo, anche se esagera l'Harnack a considerare il suo governo come l'inizio dell'episcopato monarchico locale; la sua attività fu rivolta principalmente ad affermare l'unità nella comunità minacciata da eresie e da divergenze; se anche non riuscì pienamente nell'intento, rimane un fatto indiscutibile la chiarezza dei suoi propositi e lo zelo dimostrato.
Un commosso omaggio a Roma rivolse Abercio, un cristiano, forse prete, di Jeropoli nella Frigia; non si può pensare che gli elogi profusi «al regno e alla regina che ha d'oro la stola e i calzari» ed al popolo «che fulgido porta un sigillo» siano rivolti alla Roma pagana, alla persecutrice dei cristiani; si tratta invece della descrizione della chiesa, che era imponente non tanto per le ricchezze esteriori quanto per la sostanziale importanza delle sue funzioni e per la nobiltà della sua origine. Le frasi ora riferite fanno parte di un epitaffio, conservato nel Museo Lateranense e giudicato la più preziosa delle iscrizioni cristiane per l'abbondanza di notizie contenute; Abercio visse nella seconda metà del II secolo, viaggiò molto e venne di persona a Roma.
Ireneo di Lione e Vittore
Tutte le testimonianze finora addotte sull'importanza e la funzione della chiesa di Roma sono superate da quella di Ireneo, che fu vescovo di Lione in Gallia pur essendo di origine orientale, perché la sua parola è autorevole ed esplicita, fondata su prove e precisa nei riferimenti. Infatti Ireneo era separato dagli Apostoli da una sola generazione ed aveva conosciuto molti discepoli diretti di essi; per questo la sua dottrina era tutta derivante da tradizioni fresche e dalle istruzioni di persone autorevoli e competenti; inoltre i suoi viaggi da un'estremità all'altra del bacino mediterraneo lo avevano messo in grado di essere al corrente delle condizioni delle varie cristianità. Di fronte al grave pericolo rappresentato dalle insorgenti eresie, Ireneo non soltanto mosse in polemica contro gli erranti ma si appellò al rimedio più sicuro, quello rappresentato dal ritorno alle pure tradizioni apostoliche; in tal modo egli è per noi (ed anche gli studiosi protestanti e razionalisti convengono in questo) il garante dello spirito conservatore della chiesa primitiva, il testimonio dell'unità ed immutabilità della fede cristiana nel II secolo.
Per quanto sia indubbio che il testo di Ireneo è giunto a noi corrotto, risulta tuttavia ben chiaro in esso il concetto che la chiesa di Roma possiede un'autorità superiore a qualunque altra in ciò che concerne la fede, e tale autorità non le deriva dall'essere la chiesa più antica (né infatti lo è) o di fondazione apostolica (anche altre lo erano), ma da un qualcosa che essa sola possiede o che almeno ha in grado più eminente delle altre; di conseguenza è un obbligo morale accordarsi con essa nelle questioni di fede se si vuole mantenere la verità e non fare come gli eretici che per vanagloria od accecamento «raccolgono là dove non debbono», ossia introducono novità contrarie alla tradizione; la chiesa romana, che è ben nota a tutti, confonderà con la purezza del suo insegnamento, conforme all'autorità della Scrittura, gli erranti e manterrà l'autenticità della dottrina apostolica.
Si è parlato finora di chiesa, ma Ireneo ha ben chiara davanti alla mente una persona, non un ente, in quanto sa che è soltanto per la successione dei vescovi che si realizza la continuità della tradizione; il riconoscimento di un'autorità dottrinale del vescovo di Roma forma, pertanto, il nucleo del pensiero di Ireneo e permette a noi di parlare di una credenza nell'infallibilità in materia di fede già viva nel secondo secolo ed universalmente accolta, tanto da divenire l'arma più sicura per confondere gli eretici, il mezzo più certo per stabilire la verità religiosa tra i cristiani.
Due applicazioni di tal principio s'incontrano in quel tempo e denotano sempre meglio il peso rappresentato dalla comunità romana nella evoluzione storica del messaggio evangelico; si tratta della determinazione del canone ufficiale dei libri del Nuovo Testamento e della formulazione dei primi Simboli o professioni di fede. E' stato l'Harnack ad osservare che non solo la distinzione tra i libri biblici - canonici o non - compare per la prima volta nella chiesa di Roma, ma anche che i manoscritti orientali ci offrono lezioni del testo usato costì, il che si spiega agevolmente supponendo che ogni comunità ricevesse un modello da Roma e correggesse su di esso i propri lezionari; d'altronde è cosa notissima, sempre secondo l'autore citato, che le varie chiese comunicavano tra loro non direttamente ma attraverso quella romana ed anche la datazione degli atti era segnata ovunque non secondo gli anni di governo dei propri vescovi ma secondo quelli del vescovo di Roma. Nell'elaborazione del simbolo, che attraverso successive aggiunte assunse la sua forma attuale soltanto al tempo del concilio di Nicea, la parte avuta dalla chiesa romana fu ancora una volta decisiva sia per la sorveglianza esercitata al fine di non lasciare introdurre nuovi passi sia nella cura dimostrata a diffondere le formule ormai fissate; e poiché l'accettazione o meno del simbolo era «conditio sine qua non» per l'appartenenza alla chiesa e la sua interpretazione era una funzione importante e delicata nell'andamento della vita della comunità, ognun vede quale notevole coefficiente abbia rappresentato, per gli sviluppi del prestigio e dei poteri della chiesa romana, la sua azione in tal campo.
L'avvento di Vittore, l'«episcopus afer» eletto nel 189, segnò un nuovo orientamento nella storia del pontificato ed un buon passo avanti sulla via dell'affermazione del primato romano. Anzitutto si constata un cambiamento nella lingua dei documenti ufficiali, che è indice di uno spostamento nelle influenze predominanti nella comunità (dal greco, in cui erano finora scritti i testi cristiani di Roma, si passa al latino); in secondo luogo fu accentuato il carattere organizzativo, fu irrigidita la disciplina ed accresciuta la severità. Le questioni più importanti sorte nel decennio di episcopato di Vittore furono due, una disciplinare ed una dottrinale, ed in entrambe la presa di posizione di Vittore fu netta e la sua linea di condotta inflessibile. Per definire una volta per sempre la vecchia questione della data della Pasqua, Vittore fece convocare vari concili provinciali e regionali, poi ordinò all'unico che aveva dato un parere diverso da quello romano (era quello dell'Asia Minore, erede della tradizione giovannea e di Policarpo) di uniformarsi senz'altro alla maggioranza minacciando le più gravi sanzioni ai renitenti; dovette interporsi il già ricordato Ireneo di Lione e, col tempo, il dissidio fu appianato, ma il gesto d'autorità compiuto dal vescovo di Roma rimane significativo. Lo stesso avvenne a proposito dell'errore dottrinale di un certo Teodoto, che andava predicando che Cristo non era Dio ma soltanto un uomo adottato da Dio; con stile lapidario Ippolito - di cui dovremo trattare a lungo tra breve - ricorda che «Vittore ha scomunicato Teodoto conciatore di pelli capo di quella apostasia»; l'eresia era infatti gravissima, mettendo in forse i fondamenti stessi di tutta la rivelazione, ma la reazione fu pure immediata e severa.
Così facendo, il pontefice non suscitava scandali, anzi soddisfaceva un'esigenza universalmente sentita; se, infatti, qualcuno osservò, a proposito della minaccia di separare gli Asiatici dalla comunione romana e dall'unità comune, che Vittore era stato troppo severo, nessuno mise in dubbio il suo diritto di esercitare quel potere, e circa la punizione degli eretici, Tertulliano ricordò - la citazione concerne Valentino e non Teodoto, ma il concetto è applicabile ad entrambi - che colui che «ab ecclesia authenticae regulae abrupit» non può più sperare di essere discepolo di Cristo. Dagli scritti del bollente apologista africano ora ricordato possiamo ancor trarre questa citazione che va ad onore della chiesa di Roma e conferma il soggiorno di Pietro nell'Urbe: «Se ti piace indagare più addentro nell'interesse della tua salvezza, percorri le chiese apostoliche dove tuttora le cattedre stesse degli Apostoli estendono sui vicini la loro autorità... Se abiti vicino all'Acaia, eccoti Corinto;... se poi sei dalle parti d'Italia, quivi è Roma, da cui viene anche a noi (Africani) l'autorità. Fortunata veramente è quella chiesa nella quale gli Apostoli diffusero ogni dottrina e versarono tutto il loro sangue! Quivi Pietro è fatto degno d'una morte simile a quella del Signore, quivi Paolo e Giovanni ottengono la palma del martirio...» («De praescriptione», XXXVI; lo scritto fu composto intorno al 200).
La ecelesiologia di Cipriano di Cartagine
Davanti a questo complesso di testimonianze è difficile persistere nella negazione del primato romano ed, infatti, ormai la sana critica storica non ripete le vecchie accuse di usurpazione di poteri, di diritti infondati e simili. Tuttavia gli errori non scompaiono e, ad esempio, il Koch presenta le cose in questo modo: il vescovo di Roma passò dal rango di fratello a quello di maestro prendendo l'iniziativa di assicurare alla chiesa un'autorità centrale e compiendo con questo un prezioso servizio alla cristianità perché ne centuplicò le forze; egli solo ebbe l'energia ed il coraggio di compiere tal colpo di genio e ciò in virtù delle qualità native della razza latina: il premio che ne ebbe fu la giusta ricompensa della sua forza morale e della fedeltà al dovere. Un simile atteggiamento, se non è volgarmente ostile, è pur sempre radicalmente incapace di comprendere il fondamento del primato e la caratteristica della funzione del vescovo di Roma.
Del discusso e discutibile editto di Callisto non importa in questa sede esaminare il contenuto e le applicazioni, ma è sufficiente ricordare che anche quei vari provvedimenti relativi ai matrimoni misti, al perdono dei peccati più gravi e ad altre misure disciplinari mostrano un fervore d'attività, una complessità di problemi in gioco, una sicurezza nelle proprie attribuzioni, che ci fanno certi dell'importanza della sede romana all'inizio del III secolo (Callisto pontificò dal 218 al 222); anche l'acre dissidio tra Callisto ed Ippolito - nominato antipapa dal gruppo orientale della comunità romana e rimasto a lungo sulla breccia - prova «ex contrario» che la dignità vescovile era ambìta e che riuscire a mettere il proprio candidato a quel posto significava trarne vantaggi notevoli. Né i cristiani di Roma erano ormai sconosciuti ai pagani ed alle autorità, né i rapporti che si stabilivano con questi erano sempre ostili; Callisto era in relazioni d'affari con gli ambienti bancari di Roma, e Vittore ottenne per intercessione di Marcia (che pur essendo cristiana era la concubina dell'imperatore Commodo) la liberazione dei fedeli condannati ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna.
I tempi brutti non tardarono però a venire, e vari vescovi di Roma coronarono col martirio la loro vita; così fu di Callisto, del suo successore Ponziano e dello stesso Ippolito, che, deportato in Sardegna «ad metalla», si riconciliò col papa; più tardi furono condannati Antero, Fabiano, Sisto, mentre Cornelio ed altri vennero esiliati. Siamo al tempo delle grandi persecuzioni della metà del III secolo; l'imperatore Decio, per primo, volle sistematicamente stroncare l'insidiosa minaccia rappresentata dal cristianesimo per la compagine statale, naturalmente giudicando le cose dal suo punto di vista, ossia stimando che il mantenimento dell'antico ordine statale fosse un vantaggio per tutti e rappresentasse la salvezza di Roma. A proposito di Decio, un suo biografo riferisce che egli riteneva più pericoloso un vescovo di Roma del più potente dei suoi avversari politici; e vi sono stati degli studiosi che hanno osato affermare che fu il potere imperiale a conferire ai pontefici la forza ed il prestigio di cui godettero! Quando i favori vennero, dal IV secolo in poi, i vescovi di Roma avevano già una posizione consolidata ed erano riusciti a superare secolari lotte, all'ultimo sangue, contro la «grande meretrice» e gli anticristi impersonificati dai diversi titolari della suprema carica mondana.
Le persecuzioni provocarono dissensi anche nell'interno delle comunità cristiane perché i rigoristi non volevano riammettere i lapsi, ossia coloro che non avevano saputo resistere alla prova ma che, passato il pericolo, si mostravano pentiti e chiedevano perdono; a Roma scoppiò uno scisma in proposito, tra Novaziano e papa Cornelio (253-55), aggravato da divergenze di dottrine sulla Trinità e da rancori personali per la mancata scelta di Novaziano a capo della chiesa dopo una sua lunga reggenza durante la sedevacanza. Qualcosa del genere si verificò pure a Cartagine, ma con le posizioni invertite; Novato e Felicissimo, che si contrapposero al vescovo Cipriano, erano infatti dei lapsi, ma non ebbero difficoltà ad allearsi per convenienza con Novaziano.
Tra Cipriano e papa Cornelio, invece, non vi era piena intesa e mutua comprensione per divergenze su vari punti e per una certa suscettibilità personale, ma il peggio fu quando sulla cattedra romana salì Stefano (254); gli incidenti avvennero allora con frequenza e furono di una certa gravità, primo tra tutti quello sulla validità del battesimo amministrato dagli eretici, che a Roma era riconosciuta ed a Cartagine no, in conformità di tutto l'atteggiamento di maggior rigidezza proprio della chiesa africana. Una serie di concili confermò la piena adesione di tutti i suffraganei intorno a Cipriano, ma i delegati africani non furono neppure ammessi alla presenza del vescovo di Roma, il quale per contro inviò lettere severissime a Cartagine minacciando scomuniche; la triste vicenda ebbe termine per la sopravvenuta morte dei protagonisti, entrambi martirizzati nella ripresa della persecuzione sotto l'imperatore Valeriano, ed una decisione in merito fu rimandata ad altra epoca.
Nel frattempo Cipriano aveva modo di esporre alcune sue idee sull'ordinamento della chiesa e sulle facoltà del vescovo di Roma, che meritano un attento esame anche perché sono state interpretate variamente e tendenziosamente. Per Cipriano il fulcro della chiesa è il vescovo e la forza del vescovo sta nella sua legittima discendenza dagli Apostoli attraverso una regolare successione; ma dicendo chiesa, non si deve pensare ad un'universalità che abbracci tutte le sedi vescovili bensì alle singole comunità, che formano ciascuna un'unità organica e sono governate con pieni poteri dal vescovo locale. In questo senso, Cipriano afferma che ogni vescovo è vicario di Cristo e successore degli Apostoli, perché sostituisce e rappresenta quello ed esercita la stessa autorità di questi. Sorge allora il problema delle relazioni delle varie chiese tra loro, e soprattutto con quella di Roma, e della posizione preminente di questa nel corpo ecclesiastico; in proposito il vescovo di Cartagine non ebbe un parere costante e sarebbe esagerato voler trovare in lui una sola opinione ed un perfetto accordo tra le varie fasi dei suoi scritti; troppo diverse furono, d'altronde, le questioni da lui affrontate in quegli anni turbinosi.
Quello che è certo è il suo rispetto per la «cathedra Petri», il riconoscimento che egli fece in modo esplicito e caloroso di una «principalità» della chiesa di Roma in base alla quale egli ritenne che essa fosse la fonte della unità sacerdotale, cioè che costituisse l'archetipo, il modello di tutte le chiese, benché, di fatto, non tutte avessero avuto origine da lei. Con questo, Cipriano non intendeva ancora riconoscere un diritto d'intervento romano negli affari interni delle altre comunità, cioè, per usare altre parole, non ammetteva un primato d'ordine giurisdizionale e legislativo, pur ritenendo che Roma fosse la chiesa primaria in linea di principio ed affidando ad essa il compito di tenere le fila di tutte le chiese, di essere il punto di riferimento; a suo giudizio, il vescovo di Roma svolgeva un'azione positiva e concreta come fattore dell'unità cattolica, di conseguenza era necessario che tutte le altre chiese si conformassero al suo modo d'agire.
Ma, con tutto ciò, resta il fatto che Cipriano, a causa della sua tarda conversione e della troppo rapida formazione religiosa, non comprese mai bene il valore dei privilegi di Pietro, anche se ebbe per la chiesa un amore fervente e devoto (è sua la frase: «non avrà Dio per padre chi non ha la chiesa per madre»). Inoltre egli tenne con papa Stefano un tono che non è certo quello del subordinato che chiede ordini, ma di un collega che non esita ad unire alla deferenza una certa arditezza (d'Alès); Cipriano rimproverava a Stefano di essersi attribuito un'autorità indebita, d'essersi arbitrariamente costituito superiore, d'aver fatto il tiranno, ma non per questo dimenticava che la «cathedra Petri» non è soltanto un ricordo ed un simbolo, ma è una realtà presente ed operante, un'istituzione permanente alla quale occorre riferirsi dato che si concreta nella persona del vivente successore dell'Apostolo.
A sua volta Stefano si mostrò all'altezza del compito quando con testarda perseveranza ripeté: «nihil innovetur nisi quod traditum est»; era suo dovere mantenersi ligio alla tradizione e tutto quanto pareva attentare alla purezza di essa veniva giudicato da lui come un pericolo ed un'indegnità.
La posizione del Vescovo di Roma nella federazione delle chiese antiche
Dopo la grave controversia ora narrata, la storia del pontificato romano rientra nell'ombra per un lungo periodo e non richiede un approfondito esame; due soli episodi meritano un ricordo per il restante del secolo III: la lettera di Dionigi (261-272) all'omonimo vescovo di Alessandria d'Egitto in cui vengono mosse delle critiche ad alcuni punti del suo insegnamento a proposito della Trinità. Benché il secondo Dionigi fosse un personaggio autorevolissimo e rappresentasse la tradizione dell'illustre scuola alessandrina decorata dei nomi di Clemente ed Origene, il primo non esitò a compiere il suo dovere, pur usando la maggior delicatezza possibile e cercando di non sminuire il prestigio del collega di fronte ai suoi diocesani; Dionigi alessandrino si sottomise volenterosamente ai richiami. L'esercizio del magistero ecclesiastico da parte di Roma continuava dunque inalterato ed era rispettato anche da uomini e da chiese di grande importanza.
Di tutt'altro genere è l'altro episodio: si tratta di una decisione dell'imperatore Aureliano in una controversia tra il vescovo di Antiochia, Paolo, e Demetriano, che era stato destinato a sostituirlo essendo l'altro caduto in errori dogmatici; non volendo il primo sloggiare dall'episcopio, si dovette richiedere l'intervento dei pubblici poteri, ed Aureliano decretò che la casa fosse occupata da coloro «ai quali venivano scritte lettere dai vescovi d'Italia e di Roma». Dunque anche un estraneo, come l'imperatore, sapeva che la comunione con Roma costituiva la essenza della vita cristiana, il segno di riconoscimento della validità delle cariche e dell'ortodossia delle dottrine. E siamo ad Antiochia, che pure era stata una sede di Pietro, né a noi consta che il vescovo di Roma fosse stato precedentemente interessato alla questione di Paolo o che in qualche modo sia intervenuto presso Aureliano per far sentire la sua voce.
La persecuzione di Diocleziano provocò larghi vuoti nella Chiesa romana, e nella stessa serie dei vescovi vi sono lunghi intervalli di sedevacanza; per di più le difficoltà esterne ebbero riflessi nell'interno della comunità e, come spesso avveniva in quei casi, si crearono diversi partiti che si accusavano a vicenda di defezione. Anche i vescovi furono coinvolti in tali critiche e ne uscirono assai male; di Marcellino è persino dubbio che abbia saputo resistere alla prova e pare che abbia consegnato i libri santi in un momento di debolezza, riscattato poi dal martirio subito nel 304; di Marcello si sa che venne mandato in esilio da Massenzio perché l'opposizione di un gruppo di fedeli creava turbamenti e disordini in città; lo stesso fu di Eusebio e del suo antagonista Eraclio, entrambi espulsi da Roma per ordine dello stesso Massenzio. Invece Milziade ottenne nel 311, ancora da Massenzio, la restituzione degli edifici di culto che erano stati confiscati durante la persecuzione. Siamo, ormai, alla vigilia del riconoscimento ufficiale del cristianesimo da parte dell'impero ed è superfluo soffermarsi sulle conseguenze che quel gesto produsse in tutto l'organismo ecclesiastico, e quindi anche nell'attività e nella posizione del vescovo di Roma. Conviene piuttosto, avendo terminata l'esposizione abbastanza dettagliata, quale era richiesta dall'importanza dell'argomento, delle vicende della Chiesa romana nei primi secoli della storia del cristianesimo, tentare di ricavare qualche conclusione, cosa che d'altronde non presenta difficoltà.
La concezione che si aveva allora della «Chiesa» era quella di una grande federazione di «chiese» locali, ciascuna delle quali formava una società perfetta ed autonoma, retta da un'autorità centrale, il vescovo, che conservava il deposito della fede ed impersonava la tradizione; ma non per questo le varie chiese cessavano di appartenere alla comunione dell'unità cattolica anzi tendevano a moltiplicare le relazioni reciproche, ad avere la stessa struttura, gli stessi riti e lo stesso simbolo. La Chiesa visibile veniva, in tal modo, a coincidere con la Chiesa mistica in una cattolicità che indicava sia la concentrazione di ogni comunità in se stessa sia la coesione perfetta nell'unica fede e nelle istituzioni fondamentali. Quale era il posto occupato dal vescovo di Roma in una situazione siffatta od, in altre parole, esistono le condizioni per poter parlare con verosimiglianza di un primato? Naturalmente non bisogna prendere come modelli la prassi pontificia di altre epoche o le dichiarazioni di dottrinari posteriori, ma occorre tener presente che allora varie chiese erano di fondazione apostolica. Tuttavia vi era una funzione specifica del vescovo di Roma, che implicava l'esercizio di un'autorità su tutti, ed era il controllo della conformità all'autentica fede, la sorveglianza sulla fedeltà alla tradizione, il mantenimento della comunione tra i vari membri del corpo cristiano. L'intervento nella vita interna delle chiese locali, la minaccia di sanzioni, l'esclusione dall'unità della Chiesa universale sono conseguenze di tale privilegio e sono prerogative esclusive di Roma, dato che nessun'altra ha mai rivendicato poteri di tale genere e nessuna ha mai scomunicato la Chiesa romana od anche solo agitato lo spauracchio di una simile punizione, mentre, come si è visto, qualche vescovo di Roma ha persino esagerato in proposito e soltanto la morte lo ha trattenuto dal compiere gesti eccessivi.
Per inciso, si può anche far notare che non erano le qualità personali dei singoli vescovi di Roma ad imporre il rispetto e ad ottenere l'assenso; era il seggio come tale che era venerato ed ubbidito, ed anche mutando il titolare, lo svolgimento delle pratiche proseguiva senza interruzione. I cristiani non si stupivano se, avendo scritto ad un vescovo, ricevevano risposta da un altro che nel frattempo gli era succeduto nella carica, la persona che veramente parlava e che guidava la Chiesa era unica, Pietro. Però è anche doveroso riconoscere che durante i primi tre secoli il ricorso a Roma aveva luogo soltanto a titolo eccezionale, in casi particolarmente gravi, cioè quando era in gioco la fede o veniva fortemente turbata la disciplina; nella pratica quotidiana, nel disbrigo degli affari ordinari i vescovi non pensavano mai di interessare il papa e sarà soltanto alla fine del IV secolo che si verificherà un'importante innovazione, mutando radicalmente il sistema dei rapporti tra Roma e la periferia.
Ma, in occasione degli interventi, che cosa permetteva a Roma d'agire in tal modo senza incontrare opposizioni e senza ricevere smentite? Già si disse: il privilegio, che era veramente un unicum, di essere l'erede di Pietro, la continuatrice della sua posizione di «princeps Apostolorum». Solo in lei - ossia nel suo vescovo - si effettuava il punto d'incontro delle diverse parti della cristianità disperse nello spazio ma incentrate in Roma per la «principalitas» ad essa connaturata, per la caratteristica che le era propria di essere guardiana della fede e modello di condotta e d'organizzazione. La circostanza che la città di Roma fosse la capitale politica del mondo, il centro di un impero allorché ebbe inizio il cristianesimo, non è un fattore decisivo nella giustificazione del posto occupato dalla comunità cristiana di essa nella totalità delle chiese; può essere stato un buon punto d'appoggio, un vantaggio per le comunicazioni scambievoli, così come le virtù proprie dell'indole romana (il senso pratico, la disciplina, lo spirito di sopportazione delle fatiche) possono avere agevolato l'esercizio delle funzioni ecclesiastiche, ma nessun membro delle diverse chiese allora esistenti, che erano autorevoli e potenti, si sarebbe mai sottomesso per motivi così banali ed estrinseci, mentre accettava tutto quanto derivava dalla «ecclesia Petri» sapendo che i privilegi conferiti da Cristo all'apostolo erano rimasti attaccati alla Chiesa a lui confidata e divenuta, per questo stesso, la «principalis» in perpetuo.
Postscriptum - Sul tema della collegialità vescovile e del primato pontificio nei primi secoli della storia della Chiesa, Jean Colson - specialista di tali studi - ha scritto recentemente: «Quando Harnack scrive che Roma è passata dal rango di sorella a quello di madre si deve riconoscere che ciò è avvenuto non per un aumento della potenza della chiesa della capitale imperiale (anche se questo fatto ha avuto la sua parte) ma perchè Pietro aveva ivi trasferita nel 63 la chiesa madre di Gerusalemme. Tuttavia sarebbe più esatto dire che nè Roma nè Gerusalemme erano madri, bensì sorelle maggiori delle altre chiese essendo state generate per prime e a parte dal Cristo in Pietro, centro del collegio apostolico, facendone il riassunto, il prototipo, il simbolo dell'unità di tutte quelle che sarebbero sorte in seguito ma che coesistevano di già con esse collegialmente, indivisibilmente, nel pensiero di Cristo allorquando Egli stabiliva su «Pietro e quelli che erano con lui» l'unica chiesa di cui «Pietro insieme con gli Undici» convocò la prima riunione nel giorno della Pentecoste. Lo ha affermato anche il Concilio Vaticano I......
«Il vescovo di Roma appare dunque nel corso dei primi secoli come il legame della fraternità, il vescovo della collegialità realizzante l'unanimità delle fede e della carità delle chiese nella Chiesa. In quanto egli è tale legame della collegialità apostolica, segno efficace dell'unione dei guardiani della Tradizione nella verità della stessa Fede, egli parla in certi casi con una personale infallibilità dottrinale, essendo la bocca mediante la quale si esprime la Tradizione, contenuta e continuata da tutto il collegio apostolico. Non è il vescovo di Roma come tale «il» guardiano della Tradizione, perchè lo sono tutti i vescovi collegialmente con gli altri, ma ciascuno nella sua chiesa, un «sacramento-persona» dell'unità cattolica; tuttavia il suo ruolo è quello di essere al centro di quella collegialità dei successori degli Apostoli, il «sacramento-persona » dell'unità di tale collegialità dispersa tra tutti i popoli della terra.
«Nell'epoca feudale, essendosi ciascun vescovo chiuso nella sua diocesi, andò smarrita tale coscienza della collegialità episcopale nell'opera solidale di evangelizzazione del mondo (...) e dal XII secolo in avanti le formule liturgiche sottolineeranno la nuova situazione tendente a ridurre i vescovi al semplice posto di prefetti che hanno ricevuto da Roma l'amministrazione di un territorio circoscritto e non aventi autorità e funzione se non in quanto essi sono un riflesso di Roma (...). Nell'antichità cristiana Pietro è centro e capo del corpo, ma non si sostituisce a questo né lo assorbe, ed egli interviene sempre per il bene comune, per la salute del popolo cristiano: il senso collegiale dell'episcopalità è profondamente radicato nella Chiesa antica» (I. Colson, "L'épiscopat catholique", Paris, 1963).
Scomparso Pietro, la chiesa romana rientrò nell'ombra per qualche decennio; non intendendo dare un elenco dei vescovi di Roma, con qualche notizia biografica ad essi relativa, ma tentando di seguire lo svolgimento dell'istituto papale, tralasciamo senz'altro quell'intervallo di tempo e passiamo a considerare il primo significativo documento della preminente posizione goduta dalla comunità romana e dal suo capo nel corpo della cristianità primitiva: la lettera di Clemente ai Corinti.
La lettera di Clemente ai Corinti
Già al tempo di S. Paolo la chiesa di Corinto era stata dilaniata da gravi discordie interne, aspramente rimproverate dall'apostolo nelle sue epistole. Tali contrasti continuarono, od altri ne sorsero verso la fine del primo secolo, e portarono anche all'esclusione dei presbiteri dalla comunità. Ci sfuggono le ragioni che provocarono questi urti (dualismi tra carismatici e gerarchia; insofferenze razziali tra greci e latini), né ai nostri fini importa indagarle; invece quello che interessa è l'intervento romano nella vertenza. Fu esso provocato da una richiesta dei Corinti o fu attuato per iniziativa dei fedeli di Roma? La domanda è un po' oziosa perché sta il fatto che, invocata od accolta, la voce di Roma era ascoltata anche da chiese autorevoli per fondazione apostolica ed importanti per la loro posizione geografica quale era quella di Corinto: «La chiesa di Dio che è pellegrina in Roma alla chiesa di Dio che è pellegrina in Corinto, ai chiamati e santificati dalla volontà di Dio per il Signore nostro Gesù Cristo. Grazia a voi e pace dall'onnipotente Iddio per Gesù Cristo si accresca».
La lettera continua riferendo varie notizie storiche e dando un preciso ricordo del martirio che i SS. Pietro e Paolo avevano subito in Roma; a giustificazione del ritardo nell'intervento per far cessare la «scissione aliena ed estranea agli eletti di Dio, scellerata ed empia che poche persone temerarie e presuntuose accesero» vengono addotte dall'estensore della lettera «le improvvise e susseguenti contro di noi disgrazie ed avversità», ossia la persecuzione di Domiziano che durò fino al 96 d. C.
Autore della lettera ai Corinti fu il vescovo Clemente, che nella serie dei pontefici viene dopo Lino e Anacleto; qualche studioso ha ridotto la funzione di Clemente a quella di semplice estensore del documento, di segretario della comunità, incaricato di mettere per scritto i sentimenti e le decisioni di questa. Al contrario, tutta la tradizione antica gli ha riconosciuto un posto più eminente ed ha visto in lui una personalità notevole, conscia delle responsabilità della sua carica e desiderosa di restare fedele alla tradizione trasmessa a lui dai Fondatori della chiesa romana. Risulta, infatti, da vari passi della lettera che Clemente concepisce le comunità cristiane come gruppi di fedeli guidati dai propri pastori, i quali hanno una duplice funzione, di comando e di assistenza caritatevole; tali società religiose hanno una loro regola (kanon) alla quale tutti debbono aderire mentre le autorità debbono assolvere il loro ufficio (leiturgia) e trasmetterlo agli altri; queste autorità sono indicate coi nomi di vescovi e di presbiteri senza distinzione; fuori della società cristiana non c'è possibilità di salvezza.
La «I Clementis» (così è passato alla storia questo importante documento) non è, come lo ha definito il Sohn, la prima manifestazione del diritto ecclesiastico, non è, cioè, il sintomo che l'ordinamento burocratico ha soppiantato la spiritualità delle origini cristiane; non è neppure, a rigor di termini, una prova del primato romano perché di esso non vi è traccia in alcuna dichiarazione del testo; il suo valore consiste nel fatto stesso di esser stata scritta, in quanto dimostra che in un tempo in cui esistevano tante comunità di indubbia origine apostolica, soltanto quella romana sentì l'opportunità - o per richiesta degli interessati o per sua iniziativa - di occuparsi della vita interna di una chiesa; vi era in essa un senso «cattolico» della vita cristiana, che conteneva, almeno embrionalmente, l'affermazione di un compito di sorveglianza e di magistero: «Ci darete grande gioia se obbedirete a quanto vi abbiamo scritto per lo Spirito Santo, se toglierete di mezzo la peccaminosa gelosia assecondando l'ammonimento di pace e di concordia che vi abbiamo rivolto in questa lettera» (LXIII, 2). Poiché tale coscienza non poteva essere frutto di arroganza, come ci fa fede lo stesso sviluppo storico della chiesa primitiva, essa doveva procedere da qualche fonte, essere la conseguenza di un deposito affidato secondo un disegno divino alla comunità romana ed al suo capo; in base ad esso Roma agì con prudenza ma con energia facendo vibrare sempre la nota disciplinare ed insistendo sulla necessità che fosse rispettata la gerarchia se si voleva che l'ordine fosse mantenuto.
La Chiesa di Corinto accolse con venerazione la lettera di Clemente e la pose tra i testi sacri che venivano letti durante la funzione domenicale; c'è, anche se non espresso, il «Roma locuta est» che Agostino pronunzierà trecentoventi anni più tardi. Ma la comunità romana non sapeva soltanto comandare, sapeva pur essere generosa perché anche attraverso la beneficenza potevano esser tenuti stretti i legami della comunione ecclesiastica. Consideriamo una testimonianza relativa a questo secondo aspetto della posizione di Roma nella cristianità antica.
Da Ignazio di Antiochia ad Abercio
Se alla fine del I secolo dell'era cristiana s'incontrano i segni di un intervento romano nelle faccende delle altre chiese, per i primi decenni del secolo successivo restano le prove di devote invocazioni rivolte a Roma dai membri più illustri di cristianità lontane. Così Ignazio d'Antiochia, mentre era condotto al martirio, dopo avere indirizzato varie lettere ai fedeli di tutto il mondo, ne inviò una anche ai Romani, ma tenne a precisare subito che egli non aveva ordini da imporre a questa comunità bensì soltanto desiderava richiedere da essa preghiere: «Ignazio detto Teoforo, alla chiesa che ha ottenuto misericordia nella magnificenza del Padre Altissimo e di Gesù Cristo unico Figlio di lui; amata e illuminata per volontà di colui che vuole tutte le cose che sono la carità di Gesù Cristo nostro Dio; la quale anche presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, meritamente beata, degna di lode, degna di felice successo, degnamente casta, che presiede alla carità, che custodisce la legge di Cristo, Figlio del Padre; a quelli che secondo la carne e lo spirito sono uniti nell'obbedienza a ogni comandamento di lui, ripieni di grazia di Dio, saluti cordiali in Gesù Cristo».
Queste dichiarazioni indicano che Ignazio riconosceva a Roma una speciale posizione e, come diceva l'Harnack, attribuiva alla comunità romana una precedenza nel gruppo delle comunità sorelle, essendogli nota l'energica e costante attività di essa capace di trasmettere forza ed insegnamenti alle altre. Non entriamo in discussioni sulle varie espressioni usate da Ignazio nell'intestazione riportata; in particolare ha dato da pensare l'inciso che potrebbe anche esser tradotto «che sta a capo della comunità», intendendo non tanto come carità materiale quanto come legame d'amore che unisce i membri della chiesa. Ad ogni modo è certo che nel corso della lettera Ignazio insiste ancora sul primato di Roma e fonda tale prerogativa sulla tradizione apostolica; nel capitolo IV ricorda il soggiorno di Pietro e Paolo a Roma e ne parla come di cosa a tutti nota ed accettata pacificamente. Conforme alla sua concezione ecclesiologica, Ignazio dà grande importanza al vescovo, unico capo di ogni chiesa e fulcro della vita di essa; in tal modo i vari elementi costitutivi della comunità vengono componendosi davanti ai nostri occhi in modo organico dandoci la possibilità di raffigurare in concreto l'ordinamento e le attività di essa. Anche le altre varie testimonianze del II secolo concordano nel mostrare il fervore e la complessità della vita della comunità cristiana di Roma.
Alla metà del secolo s'incontra un nuovo esempio del rispetto da cui era circondata la sede romana e dell'influenza da essa esercitata su tutta la cristianità: il venerando ed autorevole vescovo di Smirne, Policarpo, decise di compiere il viaggio fino a Roma per dirimere una questione, che teneva agitati gli animi dei fedeli, relativa alla data della celebrazione della Pasqua, fissata da alcuni al 14 del mese di nisan (giorno della morte di Gesù), da altri spostata alla domenica successiva al plenilunio di quel mese (come avviene ancor oggi). Il vescovo Aniceto, che reggeva allora la comunità, non volle derogare dagli usi locali, o, come disse S. Ireneo pochi decenni più tardi, «non poté mutare la costumanza dei presbiteri che lo avevano preceduto», mentre Policarpo, forte della tradizione giovannea, non volle a sua volta transigere; tuttavia i due vescovi mantennero la buona pace tra loro e, in segno di amicizia, Aniceto fece celebrare una volta la funzione eucaristica dal suo confratello in sua vece. La personalità del vescovo incomincia con Aniceto a prendere rilievo, anche se esagera l'Harnack a considerare il suo governo come l'inizio dell'episcopato monarchico locale; la sua attività fu rivolta principalmente ad affermare l'unità nella comunità minacciata da eresie e da divergenze; se anche non riuscì pienamente nell'intento, rimane un fatto indiscutibile la chiarezza dei suoi propositi e lo zelo dimostrato.
Un commosso omaggio a Roma rivolse Abercio, un cristiano, forse prete, di Jeropoli nella Frigia; non si può pensare che gli elogi profusi «al regno e alla regina che ha d'oro la stola e i calzari» ed al popolo «che fulgido porta un sigillo» siano rivolti alla Roma pagana, alla persecutrice dei cristiani; si tratta invece della descrizione della chiesa, che era imponente non tanto per le ricchezze esteriori quanto per la sostanziale importanza delle sue funzioni e per la nobiltà della sua origine. Le frasi ora riferite fanno parte di un epitaffio, conservato nel Museo Lateranense e giudicato la più preziosa delle iscrizioni cristiane per l'abbondanza di notizie contenute; Abercio visse nella seconda metà del II secolo, viaggiò molto e venne di persona a Roma.
Ireneo di Lione e Vittore
Tutte le testimonianze finora addotte sull'importanza e la funzione della chiesa di Roma sono superate da quella di Ireneo, che fu vescovo di Lione in Gallia pur essendo di origine orientale, perché la sua parola è autorevole ed esplicita, fondata su prove e precisa nei riferimenti. Infatti Ireneo era separato dagli Apostoli da una sola generazione ed aveva conosciuto molti discepoli diretti di essi; per questo la sua dottrina era tutta derivante da tradizioni fresche e dalle istruzioni di persone autorevoli e competenti; inoltre i suoi viaggi da un'estremità all'altra del bacino mediterraneo lo avevano messo in grado di essere al corrente delle condizioni delle varie cristianità. Di fronte al grave pericolo rappresentato dalle insorgenti eresie, Ireneo non soltanto mosse in polemica contro gli erranti ma si appellò al rimedio più sicuro, quello rappresentato dal ritorno alle pure tradizioni apostoliche; in tal modo egli è per noi (ed anche gli studiosi protestanti e razionalisti convengono in questo) il garante dello spirito conservatore della chiesa primitiva, il testimonio dell'unità ed immutabilità della fede cristiana nel II secolo.
Per quanto sia indubbio che il testo di Ireneo è giunto a noi corrotto, risulta tuttavia ben chiaro in esso il concetto che la chiesa di Roma possiede un'autorità superiore a qualunque altra in ciò che concerne la fede, e tale autorità non le deriva dall'essere la chiesa più antica (né infatti lo è) o di fondazione apostolica (anche altre lo erano), ma da un qualcosa che essa sola possiede o che almeno ha in grado più eminente delle altre; di conseguenza è un obbligo morale accordarsi con essa nelle questioni di fede se si vuole mantenere la verità e non fare come gli eretici che per vanagloria od accecamento «raccolgono là dove non debbono», ossia introducono novità contrarie alla tradizione; la chiesa romana, che è ben nota a tutti, confonderà con la purezza del suo insegnamento, conforme all'autorità della Scrittura, gli erranti e manterrà l'autenticità della dottrina apostolica.
Si è parlato finora di chiesa, ma Ireneo ha ben chiara davanti alla mente una persona, non un ente, in quanto sa che è soltanto per la successione dei vescovi che si realizza la continuità della tradizione; il riconoscimento di un'autorità dottrinale del vescovo di Roma forma, pertanto, il nucleo del pensiero di Ireneo e permette a noi di parlare di una credenza nell'infallibilità in materia di fede già viva nel secondo secolo ed universalmente accolta, tanto da divenire l'arma più sicura per confondere gli eretici, il mezzo più certo per stabilire la verità religiosa tra i cristiani.
Due applicazioni di tal principio s'incontrano in quel tempo e denotano sempre meglio il peso rappresentato dalla comunità romana nella evoluzione storica del messaggio evangelico; si tratta della determinazione del canone ufficiale dei libri del Nuovo Testamento e della formulazione dei primi Simboli o professioni di fede. E' stato l'Harnack ad osservare che non solo la distinzione tra i libri biblici - canonici o non - compare per la prima volta nella chiesa di Roma, ma anche che i manoscritti orientali ci offrono lezioni del testo usato costì, il che si spiega agevolmente supponendo che ogni comunità ricevesse un modello da Roma e correggesse su di esso i propri lezionari; d'altronde è cosa notissima, sempre secondo l'autore citato, che le varie chiese comunicavano tra loro non direttamente ma attraverso quella romana ed anche la datazione degli atti era segnata ovunque non secondo gli anni di governo dei propri vescovi ma secondo quelli del vescovo di Roma. Nell'elaborazione del simbolo, che attraverso successive aggiunte assunse la sua forma attuale soltanto al tempo del concilio di Nicea, la parte avuta dalla chiesa romana fu ancora una volta decisiva sia per la sorveglianza esercitata al fine di non lasciare introdurre nuovi passi sia nella cura dimostrata a diffondere le formule ormai fissate; e poiché l'accettazione o meno del simbolo era «conditio sine qua non» per l'appartenenza alla chiesa e la sua interpretazione era una funzione importante e delicata nell'andamento della vita della comunità, ognun vede quale notevole coefficiente abbia rappresentato, per gli sviluppi del prestigio e dei poteri della chiesa romana, la sua azione in tal campo.
L'avvento di Vittore, l'«episcopus afer» eletto nel 189, segnò un nuovo orientamento nella storia del pontificato ed un buon passo avanti sulla via dell'affermazione del primato romano. Anzitutto si constata un cambiamento nella lingua dei documenti ufficiali, che è indice di uno spostamento nelle influenze predominanti nella comunità (dal greco, in cui erano finora scritti i testi cristiani di Roma, si passa al latino); in secondo luogo fu accentuato il carattere organizzativo, fu irrigidita la disciplina ed accresciuta la severità. Le questioni più importanti sorte nel decennio di episcopato di Vittore furono due, una disciplinare ed una dottrinale, ed in entrambe la presa di posizione di Vittore fu netta e la sua linea di condotta inflessibile. Per definire una volta per sempre la vecchia questione della data della Pasqua, Vittore fece convocare vari concili provinciali e regionali, poi ordinò all'unico che aveva dato un parere diverso da quello romano (era quello dell'Asia Minore, erede della tradizione giovannea e di Policarpo) di uniformarsi senz'altro alla maggioranza minacciando le più gravi sanzioni ai renitenti; dovette interporsi il già ricordato Ireneo di Lione e, col tempo, il dissidio fu appianato, ma il gesto d'autorità compiuto dal vescovo di Roma rimane significativo. Lo stesso avvenne a proposito dell'errore dottrinale di un certo Teodoto, che andava predicando che Cristo non era Dio ma soltanto un uomo adottato da Dio; con stile lapidario Ippolito - di cui dovremo trattare a lungo tra breve - ricorda che «Vittore ha scomunicato Teodoto conciatore di pelli capo di quella apostasia»; l'eresia era infatti gravissima, mettendo in forse i fondamenti stessi di tutta la rivelazione, ma la reazione fu pure immediata e severa.
Così facendo, il pontefice non suscitava scandali, anzi soddisfaceva un'esigenza universalmente sentita; se, infatti, qualcuno osservò, a proposito della minaccia di separare gli Asiatici dalla comunione romana e dall'unità comune, che Vittore era stato troppo severo, nessuno mise in dubbio il suo diritto di esercitare quel potere, e circa la punizione degli eretici, Tertulliano ricordò - la citazione concerne Valentino e non Teodoto, ma il concetto è applicabile ad entrambi - che colui che «ab ecclesia authenticae regulae abrupit» non può più sperare di essere discepolo di Cristo. Dagli scritti del bollente apologista africano ora ricordato possiamo ancor trarre questa citazione che va ad onore della chiesa di Roma e conferma il soggiorno di Pietro nell'Urbe: «Se ti piace indagare più addentro nell'interesse della tua salvezza, percorri le chiese apostoliche dove tuttora le cattedre stesse degli Apostoli estendono sui vicini la loro autorità... Se abiti vicino all'Acaia, eccoti Corinto;... se poi sei dalle parti d'Italia, quivi è Roma, da cui viene anche a noi (Africani) l'autorità. Fortunata veramente è quella chiesa nella quale gli Apostoli diffusero ogni dottrina e versarono tutto il loro sangue! Quivi Pietro è fatto degno d'una morte simile a quella del Signore, quivi Paolo e Giovanni ottengono la palma del martirio...» («De praescriptione», XXXVI; lo scritto fu composto intorno al 200).
La ecelesiologia di Cipriano di Cartagine
Davanti a questo complesso di testimonianze è difficile persistere nella negazione del primato romano ed, infatti, ormai la sana critica storica non ripete le vecchie accuse di usurpazione di poteri, di diritti infondati e simili. Tuttavia gli errori non scompaiono e, ad esempio, il Koch presenta le cose in questo modo: il vescovo di Roma passò dal rango di fratello a quello di maestro prendendo l'iniziativa di assicurare alla chiesa un'autorità centrale e compiendo con questo un prezioso servizio alla cristianità perché ne centuplicò le forze; egli solo ebbe l'energia ed il coraggio di compiere tal colpo di genio e ciò in virtù delle qualità native della razza latina: il premio che ne ebbe fu la giusta ricompensa della sua forza morale e della fedeltà al dovere. Un simile atteggiamento, se non è volgarmente ostile, è pur sempre radicalmente incapace di comprendere il fondamento del primato e la caratteristica della funzione del vescovo di Roma.
Del discusso e discutibile editto di Callisto non importa in questa sede esaminare il contenuto e le applicazioni, ma è sufficiente ricordare che anche quei vari provvedimenti relativi ai matrimoni misti, al perdono dei peccati più gravi e ad altre misure disciplinari mostrano un fervore d'attività, una complessità di problemi in gioco, una sicurezza nelle proprie attribuzioni, che ci fanno certi dell'importanza della sede romana all'inizio del III secolo (Callisto pontificò dal 218 al 222); anche l'acre dissidio tra Callisto ed Ippolito - nominato antipapa dal gruppo orientale della comunità romana e rimasto a lungo sulla breccia - prova «ex contrario» che la dignità vescovile era ambìta e che riuscire a mettere il proprio candidato a quel posto significava trarne vantaggi notevoli. Né i cristiani di Roma erano ormai sconosciuti ai pagani ed alle autorità, né i rapporti che si stabilivano con questi erano sempre ostili; Callisto era in relazioni d'affari con gli ambienti bancari di Roma, e Vittore ottenne per intercessione di Marcia (che pur essendo cristiana era la concubina dell'imperatore Commodo) la liberazione dei fedeli condannati ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna.
I tempi brutti non tardarono però a venire, e vari vescovi di Roma coronarono col martirio la loro vita; così fu di Callisto, del suo successore Ponziano e dello stesso Ippolito, che, deportato in Sardegna «ad metalla», si riconciliò col papa; più tardi furono condannati Antero, Fabiano, Sisto, mentre Cornelio ed altri vennero esiliati. Siamo al tempo delle grandi persecuzioni della metà del III secolo; l'imperatore Decio, per primo, volle sistematicamente stroncare l'insidiosa minaccia rappresentata dal cristianesimo per la compagine statale, naturalmente giudicando le cose dal suo punto di vista, ossia stimando che il mantenimento dell'antico ordine statale fosse un vantaggio per tutti e rappresentasse la salvezza di Roma. A proposito di Decio, un suo biografo riferisce che egli riteneva più pericoloso un vescovo di Roma del più potente dei suoi avversari politici; e vi sono stati degli studiosi che hanno osato affermare che fu il potere imperiale a conferire ai pontefici la forza ed il prestigio di cui godettero! Quando i favori vennero, dal IV secolo in poi, i vescovi di Roma avevano già una posizione consolidata ed erano riusciti a superare secolari lotte, all'ultimo sangue, contro la «grande meretrice» e gli anticristi impersonificati dai diversi titolari della suprema carica mondana.
Le persecuzioni provocarono dissensi anche nell'interno delle comunità cristiane perché i rigoristi non volevano riammettere i lapsi, ossia coloro che non avevano saputo resistere alla prova ma che, passato il pericolo, si mostravano pentiti e chiedevano perdono; a Roma scoppiò uno scisma in proposito, tra Novaziano e papa Cornelio (253-55), aggravato da divergenze di dottrine sulla Trinità e da rancori personali per la mancata scelta di Novaziano a capo della chiesa dopo una sua lunga reggenza durante la sedevacanza. Qualcosa del genere si verificò pure a Cartagine, ma con le posizioni invertite; Novato e Felicissimo, che si contrapposero al vescovo Cipriano, erano infatti dei lapsi, ma non ebbero difficoltà ad allearsi per convenienza con Novaziano.
Tra Cipriano e papa Cornelio, invece, non vi era piena intesa e mutua comprensione per divergenze su vari punti e per una certa suscettibilità personale, ma il peggio fu quando sulla cattedra romana salì Stefano (254); gli incidenti avvennero allora con frequenza e furono di una certa gravità, primo tra tutti quello sulla validità del battesimo amministrato dagli eretici, che a Roma era riconosciuta ed a Cartagine no, in conformità di tutto l'atteggiamento di maggior rigidezza proprio della chiesa africana. Una serie di concili confermò la piena adesione di tutti i suffraganei intorno a Cipriano, ma i delegati africani non furono neppure ammessi alla presenza del vescovo di Roma, il quale per contro inviò lettere severissime a Cartagine minacciando scomuniche; la triste vicenda ebbe termine per la sopravvenuta morte dei protagonisti, entrambi martirizzati nella ripresa della persecuzione sotto l'imperatore Valeriano, ed una decisione in merito fu rimandata ad altra epoca.
Nel frattempo Cipriano aveva modo di esporre alcune sue idee sull'ordinamento della chiesa e sulle facoltà del vescovo di Roma, che meritano un attento esame anche perché sono state interpretate variamente e tendenziosamente. Per Cipriano il fulcro della chiesa è il vescovo e la forza del vescovo sta nella sua legittima discendenza dagli Apostoli attraverso una regolare successione; ma dicendo chiesa, non si deve pensare ad un'universalità che abbracci tutte le sedi vescovili bensì alle singole comunità, che formano ciascuna un'unità organica e sono governate con pieni poteri dal vescovo locale. In questo senso, Cipriano afferma che ogni vescovo è vicario di Cristo e successore degli Apostoli, perché sostituisce e rappresenta quello ed esercita la stessa autorità di questi. Sorge allora il problema delle relazioni delle varie chiese tra loro, e soprattutto con quella di Roma, e della posizione preminente di questa nel corpo ecclesiastico; in proposito il vescovo di Cartagine non ebbe un parere costante e sarebbe esagerato voler trovare in lui una sola opinione ed un perfetto accordo tra le varie fasi dei suoi scritti; troppo diverse furono, d'altronde, le questioni da lui affrontate in quegli anni turbinosi.
Quello che è certo è il suo rispetto per la «cathedra Petri», il riconoscimento che egli fece in modo esplicito e caloroso di una «principalità» della chiesa di Roma in base alla quale egli ritenne che essa fosse la fonte della unità sacerdotale, cioè che costituisse l'archetipo, il modello di tutte le chiese, benché, di fatto, non tutte avessero avuto origine da lei. Con questo, Cipriano non intendeva ancora riconoscere un diritto d'intervento romano negli affari interni delle altre comunità, cioè, per usare altre parole, non ammetteva un primato d'ordine giurisdizionale e legislativo, pur ritenendo che Roma fosse la chiesa primaria in linea di principio ed affidando ad essa il compito di tenere le fila di tutte le chiese, di essere il punto di riferimento; a suo giudizio, il vescovo di Roma svolgeva un'azione positiva e concreta come fattore dell'unità cattolica, di conseguenza era necessario che tutte le altre chiese si conformassero al suo modo d'agire.
Ma, con tutto ciò, resta il fatto che Cipriano, a causa della sua tarda conversione e della troppo rapida formazione religiosa, non comprese mai bene il valore dei privilegi di Pietro, anche se ebbe per la chiesa un amore fervente e devoto (è sua la frase: «non avrà Dio per padre chi non ha la chiesa per madre»). Inoltre egli tenne con papa Stefano un tono che non è certo quello del subordinato che chiede ordini, ma di un collega che non esita ad unire alla deferenza una certa arditezza (d'Alès); Cipriano rimproverava a Stefano di essersi attribuito un'autorità indebita, d'essersi arbitrariamente costituito superiore, d'aver fatto il tiranno, ma non per questo dimenticava che la «cathedra Petri» non è soltanto un ricordo ed un simbolo, ma è una realtà presente ed operante, un'istituzione permanente alla quale occorre riferirsi dato che si concreta nella persona del vivente successore dell'Apostolo.
A sua volta Stefano si mostrò all'altezza del compito quando con testarda perseveranza ripeté: «nihil innovetur nisi quod traditum est»; era suo dovere mantenersi ligio alla tradizione e tutto quanto pareva attentare alla purezza di essa veniva giudicato da lui come un pericolo ed un'indegnità.
La posizione del Vescovo di Roma nella federazione delle chiese antiche
Dopo la grave controversia ora narrata, la storia del pontificato romano rientra nell'ombra per un lungo periodo e non richiede un approfondito esame; due soli episodi meritano un ricordo per il restante del secolo III: la lettera di Dionigi (261-272) all'omonimo vescovo di Alessandria d'Egitto in cui vengono mosse delle critiche ad alcuni punti del suo insegnamento a proposito della Trinità. Benché il secondo Dionigi fosse un personaggio autorevolissimo e rappresentasse la tradizione dell'illustre scuola alessandrina decorata dei nomi di Clemente ed Origene, il primo non esitò a compiere il suo dovere, pur usando la maggior delicatezza possibile e cercando di non sminuire il prestigio del collega di fronte ai suoi diocesani; Dionigi alessandrino si sottomise volenterosamente ai richiami. L'esercizio del magistero ecclesiastico da parte di Roma continuava dunque inalterato ed era rispettato anche da uomini e da chiese di grande importanza.
Di tutt'altro genere è l'altro episodio: si tratta di una decisione dell'imperatore Aureliano in una controversia tra il vescovo di Antiochia, Paolo, e Demetriano, che era stato destinato a sostituirlo essendo l'altro caduto in errori dogmatici; non volendo il primo sloggiare dall'episcopio, si dovette richiedere l'intervento dei pubblici poteri, ed Aureliano decretò che la casa fosse occupata da coloro «ai quali venivano scritte lettere dai vescovi d'Italia e di Roma». Dunque anche un estraneo, come l'imperatore, sapeva che la comunione con Roma costituiva la essenza della vita cristiana, il segno di riconoscimento della validità delle cariche e dell'ortodossia delle dottrine. E siamo ad Antiochia, che pure era stata una sede di Pietro, né a noi consta che il vescovo di Roma fosse stato precedentemente interessato alla questione di Paolo o che in qualche modo sia intervenuto presso Aureliano per far sentire la sua voce.
La persecuzione di Diocleziano provocò larghi vuoti nella Chiesa romana, e nella stessa serie dei vescovi vi sono lunghi intervalli di sedevacanza; per di più le difficoltà esterne ebbero riflessi nell'interno della comunità e, come spesso avveniva in quei casi, si crearono diversi partiti che si accusavano a vicenda di defezione. Anche i vescovi furono coinvolti in tali critiche e ne uscirono assai male; di Marcellino è persino dubbio che abbia saputo resistere alla prova e pare che abbia consegnato i libri santi in un momento di debolezza, riscattato poi dal martirio subito nel 304; di Marcello si sa che venne mandato in esilio da Massenzio perché l'opposizione di un gruppo di fedeli creava turbamenti e disordini in città; lo stesso fu di Eusebio e del suo antagonista Eraclio, entrambi espulsi da Roma per ordine dello stesso Massenzio. Invece Milziade ottenne nel 311, ancora da Massenzio, la restituzione degli edifici di culto che erano stati confiscati durante la persecuzione. Siamo, ormai, alla vigilia del riconoscimento ufficiale del cristianesimo da parte dell'impero ed è superfluo soffermarsi sulle conseguenze che quel gesto produsse in tutto l'organismo ecclesiastico, e quindi anche nell'attività e nella posizione del vescovo di Roma. Conviene piuttosto, avendo terminata l'esposizione abbastanza dettagliata, quale era richiesta dall'importanza dell'argomento, delle vicende della Chiesa romana nei primi secoli della storia del cristianesimo, tentare di ricavare qualche conclusione, cosa che d'altronde non presenta difficoltà.
La concezione che si aveva allora della «Chiesa» era quella di una grande federazione di «chiese» locali, ciascuna delle quali formava una società perfetta ed autonoma, retta da un'autorità centrale, il vescovo, che conservava il deposito della fede ed impersonava la tradizione; ma non per questo le varie chiese cessavano di appartenere alla comunione dell'unità cattolica anzi tendevano a moltiplicare le relazioni reciproche, ad avere la stessa struttura, gli stessi riti e lo stesso simbolo. La Chiesa visibile veniva, in tal modo, a coincidere con la Chiesa mistica in una cattolicità che indicava sia la concentrazione di ogni comunità in se stessa sia la coesione perfetta nell'unica fede e nelle istituzioni fondamentali. Quale era il posto occupato dal vescovo di Roma in una situazione siffatta od, in altre parole, esistono le condizioni per poter parlare con verosimiglianza di un primato? Naturalmente non bisogna prendere come modelli la prassi pontificia di altre epoche o le dichiarazioni di dottrinari posteriori, ma occorre tener presente che allora varie chiese erano di fondazione apostolica. Tuttavia vi era una funzione specifica del vescovo di Roma, che implicava l'esercizio di un'autorità su tutti, ed era il controllo della conformità all'autentica fede, la sorveglianza sulla fedeltà alla tradizione, il mantenimento della comunione tra i vari membri del corpo cristiano. L'intervento nella vita interna delle chiese locali, la minaccia di sanzioni, l'esclusione dall'unità della Chiesa universale sono conseguenze di tale privilegio e sono prerogative esclusive di Roma, dato che nessun'altra ha mai rivendicato poteri di tale genere e nessuna ha mai scomunicato la Chiesa romana od anche solo agitato lo spauracchio di una simile punizione, mentre, come si è visto, qualche vescovo di Roma ha persino esagerato in proposito e soltanto la morte lo ha trattenuto dal compiere gesti eccessivi.
Per inciso, si può anche far notare che non erano le qualità personali dei singoli vescovi di Roma ad imporre il rispetto e ad ottenere l'assenso; era il seggio come tale che era venerato ed ubbidito, ed anche mutando il titolare, lo svolgimento delle pratiche proseguiva senza interruzione. I cristiani non si stupivano se, avendo scritto ad un vescovo, ricevevano risposta da un altro che nel frattempo gli era succeduto nella carica, la persona che veramente parlava e che guidava la Chiesa era unica, Pietro. Però è anche doveroso riconoscere che durante i primi tre secoli il ricorso a Roma aveva luogo soltanto a titolo eccezionale, in casi particolarmente gravi, cioè quando era in gioco la fede o veniva fortemente turbata la disciplina; nella pratica quotidiana, nel disbrigo degli affari ordinari i vescovi non pensavano mai di interessare il papa e sarà soltanto alla fine del IV secolo che si verificherà un'importante innovazione, mutando radicalmente il sistema dei rapporti tra Roma e la periferia.
Ma, in occasione degli interventi, che cosa permetteva a Roma d'agire in tal modo senza incontrare opposizioni e senza ricevere smentite? Già si disse: il privilegio, che era veramente un unicum, di essere l'erede di Pietro, la continuatrice della sua posizione di «princeps Apostolorum». Solo in lei - ossia nel suo vescovo - si effettuava il punto d'incontro delle diverse parti della cristianità disperse nello spazio ma incentrate in Roma per la «principalitas» ad essa connaturata, per la caratteristica che le era propria di essere guardiana della fede e modello di condotta e d'organizzazione. La circostanza che la città di Roma fosse la capitale politica del mondo, il centro di un impero allorché ebbe inizio il cristianesimo, non è un fattore decisivo nella giustificazione del posto occupato dalla comunità cristiana di essa nella totalità delle chiese; può essere stato un buon punto d'appoggio, un vantaggio per le comunicazioni scambievoli, così come le virtù proprie dell'indole romana (il senso pratico, la disciplina, lo spirito di sopportazione delle fatiche) possono avere agevolato l'esercizio delle funzioni ecclesiastiche, ma nessun membro delle diverse chiese allora esistenti, che erano autorevoli e potenti, si sarebbe mai sottomesso per motivi così banali ed estrinseci, mentre accettava tutto quanto derivava dalla «ecclesia Petri» sapendo che i privilegi conferiti da Cristo all'apostolo erano rimasti attaccati alla Chiesa a lui confidata e divenuta, per questo stesso, la «principalis» in perpetuo.
Postscriptum - Sul tema della collegialità vescovile e del primato pontificio nei primi secoli della storia della Chiesa, Jean Colson - specialista di tali studi - ha scritto recentemente: «Quando Harnack scrive che Roma è passata dal rango di sorella a quello di madre si deve riconoscere che ciò è avvenuto non per un aumento della potenza della chiesa della capitale imperiale (anche se questo fatto ha avuto la sua parte) ma perchè Pietro aveva ivi trasferita nel 63 la chiesa madre di Gerusalemme. Tuttavia sarebbe più esatto dire che nè Roma nè Gerusalemme erano madri, bensì sorelle maggiori delle altre chiese essendo state generate per prime e a parte dal Cristo in Pietro, centro del collegio apostolico, facendone il riassunto, il prototipo, il simbolo dell'unità di tutte quelle che sarebbero sorte in seguito ma che coesistevano di già con esse collegialmente, indivisibilmente, nel pensiero di Cristo allorquando Egli stabiliva su «Pietro e quelli che erano con lui» l'unica chiesa di cui «Pietro insieme con gli Undici» convocò la prima riunione nel giorno della Pentecoste. Lo ha affermato anche il Concilio Vaticano I......
«Il vescovo di Roma appare dunque nel corso dei primi secoli come il legame della fraternità, il vescovo della collegialità realizzante l'unanimità delle fede e della carità delle chiese nella Chiesa. In quanto egli è tale legame della collegialità apostolica, segno efficace dell'unione dei guardiani della Tradizione nella verità della stessa Fede, egli parla in certi casi con una personale infallibilità dottrinale, essendo la bocca mediante la quale si esprime la Tradizione, contenuta e continuata da tutto il collegio apostolico. Non è il vescovo di Roma come tale «il» guardiano della Tradizione, perchè lo sono tutti i vescovi collegialmente con gli altri, ma ciascuno nella sua chiesa, un «sacramento-persona» dell'unità cattolica; tuttavia il suo ruolo è quello di essere al centro di quella collegialità dei successori degli Apostoli, il «sacramento-persona » dell'unità di tale collegialità dispersa tra tutti i popoli della terra.
«Nell'epoca feudale, essendosi ciascun vescovo chiuso nella sua diocesi, andò smarrita tale coscienza della collegialità episcopale nell'opera solidale di evangelizzazione del mondo (...) e dal XII secolo in avanti le formule liturgiche sottolineeranno la nuova situazione tendente a ridurre i vescovi al semplice posto di prefetti che hanno ricevuto da Roma l'amministrazione di un territorio circoscritto e non aventi autorità e funzione se non in quanto essi sono un riflesso di Roma (...). Nell'antichità cristiana Pietro è centro e capo del corpo, ma non si sostituisce a questo né lo assorbe, ed egli interviene sempre per il bene comune, per la salute del popolo cristiano: il senso collegiale dell'episcopalità è profondamente radicato nella Chiesa antica» (I. Colson, "L'épiscopat catholique", Paris, 1963).
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