Paolo è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi «Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue Lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: “Abbiamo avuto il coraggio (con il noi ecclesiale della tradizione)… di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte… Mai infatti abbiamo pronunciato parole di adulazione, come sapete” (1 Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell’incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era uno capace di amare, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana - quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme a Lui. Questo amore è ora la “legge” della sua vita e proprio così è la libertà (compiuta) della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: Dilige et quod vis fac (Tract. In 1 Jo 7,7-8) - ama e fa quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo (e quindi libertà incompiuta), ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere (e quindi libertà compiuta)» [Benedetto XVI, Omelia durante i Vesperi per la solenne apertura dell’Anno Paolino, 28 giugno 2008].
Paolo nacque due mila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Ma chi era questo Paolo, per cui è stato indetto questo speciale “Anno Paolino 28 giugno 2008 - 29 giugno 2009) per apprendere da lui, quale nostro maestro, “la fede e la verità”, in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto (fin da bambino) in questa città (Gerusalemme), formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, (fariseo) pieno di zelo per Dio…” (At 22,3). Per Paolo, che non ha incontrato Gesù nella fase terrena come gli altri dodici apostoli, lo ha incontrato nel quadro storico - salvifico ormai maturo dei primi cristiani cioè la Persona del Crocifisso risorto per gli altri, anzi per tutti gli uomini. Tra Gesù in croce risorto, Signore e Paolo c’è la Chiesa, il vissuto fraterno di comunione ecclesiale guidata dagli Apostoli, guidati a loro volta da Pietro cioè l’inizio della Tradizione apostolica come quando dice ai Corinti: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture…” (1 Cor 15,3ss). Questo è il cuore del tramandare cioè lo strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa cioè la sua stessa continuità o primo credo, primo catechismo.
Chi era Paolo? Chi è Paolo? Che cosa dice a me, oggi, nell’“Anno Paolino”?
Dalla testimonianza del Nuovo Testamento appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere, la modalità di come vede Dio. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. “Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte in croce non per qualcosa di anonimo, ma per amore di lui - di Paolo - e che come Risorto, come Signore, lo ama tutt’ora come Persona viva, presente, che cioè Cristo si è donato e si dona continuamente per lui. La sua fede è l’essere continuamente colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, tanto meno un’opinione, tra le tante, su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo e quindi dell’amore di Dio sul suo cuore: Via, Verità, Vita d’amore. E così questa stessa fede, questa speranza affidabile, questa meta così grande da giustificare la fatica del cammino è la risposta di amore per Gesù Cristo che per primo lo ama.
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo occorre ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Alla domanda: “Ma chi sei, o Signore?” viene data la risposta: “Io sono Gesù che tu perseguiti” (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, i cristiani in comunione, Paolo perseguita lo stesso Gesù, perseguita il suo Jahvé. “Tu perseguiti me”. Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto: “come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente (ipostaticamente) unito, così in modo non dissimile (la Chiesa non deve essere né identificata né separata dal Signore risorto) l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del Corpo” (LG 8,1). In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo (Sacramento) di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti “la sua causa”. La Chiesa non è una associazione che vuole promuovere una certa causa, una certa idea di Dio e dell’uomo. In essa si tratta sacramentalmente della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto, da Signore è rimasto “carne”, “sacramenti”, soprattutto Eucaristia. Egli ha “carne e ossa” (Lc 24,39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. E’ personalmente presente nella sua Chiesa., “Capo e Corpo” formano un unico soggetto, dirà Agostino. “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” scrive Paolo ai Corinzi (1 Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (1 Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà: C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. “Perché mi perseguiti?”. Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù della quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme
Paolo dalla prigione, di fronte alla morte, dice come testamento a Timoteo: “Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo” (2 Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trova cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinnanzi ai popoli e ai re. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15. L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In 1 Cor 1,17 Paolo dichiara con precisione lo scopo fondamentale che intende perseguire: “Affinché non sia svuotata la croce di Cristo”. E’ scandaloso per Paolo che si allarghi lo spazio della risurrezione al punto tale da ridurre la croce a qualcosa di scolorito, sullo sfondo, in ogni caso senza senso in se stessa e del tutto superata: chi conta ora è il Cristo risorto, il Cristo Spirito, non Gesù crocifisso! O anche quando si riduce la croce a poco più di un simbolo del più completo dono di sé: ciò che conta e la logica della croce, cioè la carità! O, infine, quando si assorbe la storia di Gesù, e dunque l’evento atroce della croce nell’esperienza carismatica presente, attuale, comunitaria o personale. Può essere che la giovane comunità di Corinto abbia cercato di rompere con il Cristo crocifisso scandalo per i giudei e follia per i pagani, per affidarsi a esperienze spirituali entusiaste, dono del Risorto. Alla “sapienza di parola” (1 Cor 1,17) nelle sue diverse forme, Paolo oppone senza alcun tentennamento la “parola della croce” (1,18), cioè il “Cristo crocifisso” (1,23; 2,2) nella sua concretezza storica, nella sua paradossale forza salvifica e nella permanente attualità eucaristica ed ecclesiale. Non è certo casuale che in tutto il passo egli non accenni (se non forse molto implicitamente alla risurrezione, che sarebbe stata la prima cosa da opporre allo scandalo del Crocifisso. Così egli invita i corinzi a scoprire la “potenza” e la “sapienza” nell’evento stesso della croce e non soltanto nel suo superamento mediante la risurrezione. Paolo sa benissimo che Gesù è ora il Risorto cioè il Signore, ma ai corinzi vuole ricordare che il Risorto è pur sempre il Crocifisso.
In un mondo in cui oggi la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità del Crocifisso, Signore ma Crocifisso, e così servitore con fede, speranza, carità. Non c’è amore che anticipa l’eternità, la vita veramente vita, senza sofferenza - senza sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà, per la libertà compiuta. L’icona del dramma umano di ogni uomo, il dramma del percorso alla libertà compiuta, alla liberà vera è il Getzemani nell’opposizione della volontà umana di Gesù di non morire e la volontà divina che si offre liberamente alla morte cioè per amore, per la salvezza di tutto e di tutti. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia, anche con l’immagine del Crocifisso sull’altare, che rende attuale la Croce in ogni tempo e in ogni luogo - il centro del nostro essere cristiani - si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato e trova il suo culmine. Di questo amore che si dona a noi viviamo. Il suo regno non è un al di là immaginario, posto in futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore, in tutte le tribolazioni, ci fa scoppiare di gioia e ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio, la “corsa” verso la meta, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. Il suo amore ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta da Annania nell’ora della chiamata: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”. La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, al propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi. E il suo amore, allo steso tempo, è per noi garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita.
Paolo non è un giudeo convertito ma un giudeo compiuto, un giudeo di Cristo
L’“Anno Paolino” è un’occasione per comprendere meglio i nostri fratelli ebrei nella loro identità e quindi dialogare con loro. Paolo mai usa la parola conversione. Paolo non è un convertito. Come Gesù che della Legge non ha tralasciato quasi nulla, ma l’ha portata a compimento in “Se stesso”: La perfezione, l’essere santi come Dio è santo (Lv 19,2) richiesta dalla Torah, adesso consiste nel seguire Gesù, nel lasciarsi assimilare a Lui, come la parola di Gesù al giovane ricco: “seguimi”, la legge di Dio è Lui al di sopra di tutti e di tutto. Paolo ebreo radicale, fariseo, divenne immediatamente un fiero persecutore verso chi si sostituiva alla Torah, a Dio, lo riconosce lui stesso per ben tre volte in altrettante lettere: “Ho perseguitato la Chiesa di Dio”, quasi a presentare questo suo comportamento come il peggiore crimine: perseguitare la Chiesa di Dio è perseguitare Jahvé stesso, è distruggersi in modo infernale. E Paolo continua, dopo l’incontro con il Risorto nella comunità di Gerusalemme a ritenersi un giudeo ma un giudeo di Cristo. Il giudeo non si converte dall’Antico Testamento di preparazione all’Incarnazione ma giunge a compimento. C’è una celebra frase del rabbino di Roma Eugenio Zolli, battezzato dopo la seconda guerra mondiale: “Io non sono un convertito, sono un giudeo arrivato”, perché il convertito è colui che gira le spalle al passato, invece il giudeo non gira le spalle al passato, poiché l’Antico Testamento è tutto proteso verso l’Incarnazione dell’Essere, del Verbo, della Parola di Dio, del Verbo risuonata in tanti modi nell’Antico Testamento, va solo avanti. Certo, Paolo ha conosciuto un passaggio. Lo mostra in Filippesi 3,7 “Tutto quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita (sterco) a motivo di Cristo”. Il guadagno in cosa sarebbe consistito? Nella tensione ideale senza riuscire, nella giustizia farisaica, alla Legge, nella tensione ideale alle dieci eterne parole di amore a Dio, alla Legge di Mosé, tanta da considerarla come condizione del proprio essere, del giungere giusti solo con le proprie forze davanti a Dio e quindi salvi e felici. Paolo questo l’ha superato: è Dio che ci rende giusti non a nostra insaputa e senza la nostra accoglienza, che vuole rendere giusti tutti, capaci quindi, per dono, di realizzare anche le dieci parole di amore. Però Israele, la Chiesa di Gesù nell’Antico Testamento resta sempre il percorso per il compimento in Lui. Nella Lettera ai Romani: i Gentili sono innestati su Israele, su Gerusalemme; la pianta è santa se la radice è santa cioè da Dio come i semina Verbi della ricerca della verità nella filosofia di Atene. Il cristianesimo di fede - ragione - amore, unisce Gerusalemme e Atene in Cristo.
Paolo nacque due mila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Ma chi era questo Paolo, per cui è stato indetto questo speciale “Anno Paolino 28 giugno 2008 - 29 giugno 2009) per apprendere da lui, quale nostro maestro, “la fede e la verità”, in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto (fin da bambino) in questa città (Gerusalemme), formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, (fariseo) pieno di zelo per Dio…” (At 22,3). Per Paolo, che non ha incontrato Gesù nella fase terrena come gli altri dodici apostoli, lo ha incontrato nel quadro storico - salvifico ormai maturo dei primi cristiani cioè la Persona del Crocifisso risorto per gli altri, anzi per tutti gli uomini. Tra Gesù in croce risorto, Signore e Paolo c’è la Chiesa, il vissuto fraterno di comunione ecclesiale guidata dagli Apostoli, guidati a loro volta da Pietro cioè l’inizio della Tradizione apostolica come quando dice ai Corinti: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture…” (1 Cor 15,3ss). Questo è il cuore del tramandare cioè lo strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa cioè la sua stessa continuità o primo credo, primo catechismo.
Chi era Paolo? Chi è Paolo? Che cosa dice a me, oggi, nell’“Anno Paolino”?
Dalla testimonianza del Nuovo Testamento appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere, la modalità di come vede Dio. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. “Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte in croce non per qualcosa di anonimo, ma per amore di lui - di Paolo - e che come Risorto, come Signore, lo ama tutt’ora come Persona viva, presente, che cioè Cristo si è donato e si dona continuamente per lui. La sua fede è l’essere continuamente colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, tanto meno un’opinione, tra le tante, su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo e quindi dell’amore di Dio sul suo cuore: Via, Verità, Vita d’amore. E così questa stessa fede, questa speranza affidabile, questa meta così grande da giustificare la fatica del cammino è la risposta di amore per Gesù Cristo che per primo lo ama.
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo occorre ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Alla domanda: “Ma chi sei, o Signore?” viene data la risposta: “Io sono Gesù che tu perseguiti” (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, i cristiani in comunione, Paolo perseguita lo stesso Gesù, perseguita il suo Jahvé. “Tu perseguiti me”. Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto: “come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente (ipostaticamente) unito, così in modo non dissimile (la Chiesa non deve essere né identificata né separata dal Signore risorto) l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del Corpo” (LG 8,1). In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo (Sacramento) di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti “la sua causa”. La Chiesa non è una associazione che vuole promuovere una certa causa, una certa idea di Dio e dell’uomo. In essa si tratta sacramentalmente della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto, da Signore è rimasto “carne”, “sacramenti”, soprattutto Eucaristia. Egli ha “carne e ossa” (Lc 24,39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. E’ personalmente presente nella sua Chiesa., “Capo e Corpo” formano un unico soggetto, dirà Agostino. “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” scrive Paolo ai Corinzi (1 Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (1 Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà: C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. “Perché mi perseguiti?”. Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù della quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme
Paolo dalla prigione, di fronte alla morte, dice come testamento a Timoteo: “Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo” (2 Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trova cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinnanzi ai popoli e ai re. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15. L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In 1 Cor 1,17 Paolo dichiara con precisione lo scopo fondamentale che intende perseguire: “Affinché non sia svuotata la croce di Cristo”. E’ scandaloso per Paolo che si allarghi lo spazio della risurrezione al punto tale da ridurre la croce a qualcosa di scolorito, sullo sfondo, in ogni caso senza senso in se stessa e del tutto superata: chi conta ora è il Cristo risorto, il Cristo Spirito, non Gesù crocifisso! O anche quando si riduce la croce a poco più di un simbolo del più completo dono di sé: ciò che conta e la logica della croce, cioè la carità! O, infine, quando si assorbe la storia di Gesù, e dunque l’evento atroce della croce nell’esperienza carismatica presente, attuale, comunitaria o personale. Può essere che la giovane comunità di Corinto abbia cercato di rompere con il Cristo crocifisso scandalo per i giudei e follia per i pagani, per affidarsi a esperienze spirituali entusiaste, dono del Risorto. Alla “sapienza di parola” (1 Cor 1,17) nelle sue diverse forme, Paolo oppone senza alcun tentennamento la “parola della croce” (1,18), cioè il “Cristo crocifisso” (1,23; 2,2) nella sua concretezza storica, nella sua paradossale forza salvifica e nella permanente attualità eucaristica ed ecclesiale. Non è certo casuale che in tutto il passo egli non accenni (se non forse molto implicitamente alla risurrezione, che sarebbe stata la prima cosa da opporre allo scandalo del Crocifisso. Così egli invita i corinzi a scoprire la “potenza” e la “sapienza” nell’evento stesso della croce e non soltanto nel suo superamento mediante la risurrezione. Paolo sa benissimo che Gesù è ora il Risorto cioè il Signore, ma ai corinzi vuole ricordare che il Risorto è pur sempre il Crocifisso.
In un mondo in cui oggi la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità del Crocifisso, Signore ma Crocifisso, e così servitore con fede, speranza, carità. Non c’è amore che anticipa l’eternità, la vita veramente vita, senza sofferenza - senza sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà, per la libertà compiuta. L’icona del dramma umano di ogni uomo, il dramma del percorso alla libertà compiuta, alla liberà vera è il Getzemani nell’opposizione della volontà umana di Gesù di non morire e la volontà divina che si offre liberamente alla morte cioè per amore, per la salvezza di tutto e di tutti. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia, anche con l’immagine del Crocifisso sull’altare, che rende attuale la Croce in ogni tempo e in ogni luogo - il centro del nostro essere cristiani - si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato e trova il suo culmine. Di questo amore che si dona a noi viviamo. Il suo regno non è un al di là immaginario, posto in futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore, in tutte le tribolazioni, ci fa scoppiare di gioia e ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio, la “corsa” verso la meta, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. Il suo amore ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta da Annania nell’ora della chiamata: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”. La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, al propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi. E il suo amore, allo steso tempo, è per noi garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita.
Paolo non è un giudeo convertito ma un giudeo compiuto, un giudeo di Cristo
L’“Anno Paolino” è un’occasione per comprendere meglio i nostri fratelli ebrei nella loro identità e quindi dialogare con loro. Paolo mai usa la parola conversione. Paolo non è un convertito. Come Gesù che della Legge non ha tralasciato quasi nulla, ma l’ha portata a compimento in “Se stesso”: La perfezione, l’essere santi come Dio è santo (Lv 19,2) richiesta dalla Torah, adesso consiste nel seguire Gesù, nel lasciarsi assimilare a Lui, come la parola di Gesù al giovane ricco: “seguimi”, la legge di Dio è Lui al di sopra di tutti e di tutto. Paolo ebreo radicale, fariseo, divenne immediatamente un fiero persecutore verso chi si sostituiva alla Torah, a Dio, lo riconosce lui stesso per ben tre volte in altrettante lettere: “Ho perseguitato la Chiesa di Dio”, quasi a presentare questo suo comportamento come il peggiore crimine: perseguitare la Chiesa di Dio è perseguitare Jahvé stesso, è distruggersi in modo infernale. E Paolo continua, dopo l’incontro con il Risorto nella comunità di Gerusalemme a ritenersi un giudeo ma un giudeo di Cristo. Il giudeo non si converte dall’Antico Testamento di preparazione all’Incarnazione ma giunge a compimento. C’è una celebra frase del rabbino di Roma Eugenio Zolli, battezzato dopo la seconda guerra mondiale: “Io non sono un convertito, sono un giudeo arrivato”, perché il convertito è colui che gira le spalle al passato, invece il giudeo non gira le spalle al passato, poiché l’Antico Testamento è tutto proteso verso l’Incarnazione dell’Essere, del Verbo, della Parola di Dio, del Verbo risuonata in tanti modi nell’Antico Testamento, va solo avanti. Certo, Paolo ha conosciuto un passaggio. Lo mostra in Filippesi 3,7 “Tutto quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita (sterco) a motivo di Cristo”. Il guadagno in cosa sarebbe consistito? Nella tensione ideale senza riuscire, nella giustizia farisaica, alla Legge, nella tensione ideale alle dieci eterne parole di amore a Dio, alla Legge di Mosé, tanta da considerarla come condizione del proprio essere, del giungere giusti solo con le proprie forze davanti a Dio e quindi salvi e felici. Paolo questo l’ha superato: è Dio che ci rende giusti non a nostra insaputa e senza la nostra accoglienza, che vuole rendere giusti tutti, capaci quindi, per dono, di realizzare anche le dieci parole di amore. Però Israele, la Chiesa di Gesù nell’Antico Testamento resta sempre il percorso per il compimento in Lui. Nella Lettera ai Romani: i Gentili sono innestati su Israele, su Gerusalemme; la pianta è santa se la radice è santa cioè da Dio come i semina Verbi della ricerca della verità nella filosofia di Atene. Il cristianesimo di fede - ragione - amore, unisce Gerusalemme e Atene in Cristo.
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