Alessanfro Zangrando |
Matteo, il vecchio usuraio che lasciò tutto per Gesù. Un pubblicano e odiato esattore. Nessuno lo avrebbe mai immaginato al fianco del Messia. Invece finì tra i Dodici, per un’attrazione «Il vento soffia dove vuole», dice Gesù durante il colloquio con l’insigne fariseo Nicodemo (Gv 3,8). Così come il soffio dello Spirito Santo, che manda all’aria i prevedibili disegni e le aspettative degli uomini. E il vento raggiunse anche Matteo. Era un pubblicano, cioè un imprenditore che riceveva in appalto dal procuratore romano la riscossione delle gabelle, il portorium, una forma di diritto di dogana e pedaggio che dovevano pagare i viandanti ai confini fra le tetrarchie di Erode Antipa e di Erode Filippo. Matteo, insomma, faceva come mestiere l’esattore delle tasse, una figura professionale, allora come adesso, che non godeva certo di grandi simpatie fra gli abitanti della Galilea. Come esattore aveva il diritto di frugare nelle tasche e nei bagagli della gente. Sul suo tavolino, pieno di carte e documenti, faceva conti, contava le monete. Proprio su di lui Gesù posa lo sguardo. Siamo a Cafarnao. Il Messia ha appena guarito il paralitico, poi «uscì e vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi!”. Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì» (Lc 5, 27-28). Anche per Matteo la vita cambia in un attimo. Dopo l’incontro lascia subito la sua attività e prepara un grande banchetto nella sua casa. «C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”» (Lc 5,29-32). Di Matteo non si sa molto di più. Il suo nome deriva dal greco Mathaios, traduzione dall’ebraico Mattai che significa “dono di Dio”. Negli altri Sinottici, l’evangelista è citato come “Levi di Alfeo” in Marco (Mc 2,14) e in Luca è «un pubblicano chiamato Levi» (Lc 5,27): la spiegazione è che i giudei abbinavano al nome semitico un altro nome greco o latino. Poi Matteo viene ricordato negli Atti (1,14), quando Luca fa l’elenco degli apostoli reduci dall’Ascensione. Dati incertiSecondo alcune tradizioni, nella sua opera di evangelizzazione ha raggiunto l’Etiopia, la Persia, la Siria, la Macedonia e persino l’Irlanda. Non ci sono certezze neppure sulla sua morte: c’è chi afferma che sia morto di vecchiaia oppure martire, trafitto da una spada, mentre celebrava messa. Matteo aveva convertito Ifigenia, figlia del re Egipo d’Etiopia, dopo averla resuscitata. La ragazza si rifiutò di andare in sposa al re Itarco e Matteo difese la sua virtù, un gesto che pagò con la vita. Alla fine del IV secolo i marinai che provenivano dall’Etiopia portarono a Velia il corpo del Santo. Successivamente le popolazioni, sotto la minaccia dei Visigoti, trasportarono le spoglie in Lucania. Nel 954, infine, il corpo dell’evangelista raggiunge Salerno, per volere del re longobardo Gisulfo I, che le nascose nella cattedrale. Le ossa furono ritrovate nel 1080 e, da allora, riposano nella cripta. Matteo apostolo è lo stesso che firma il primo Vangelo? Gli storici sono divisi. Per alcuni il Vangelo è da attribuire a un altro Matteo, perché c’è un richiamo alla distruzione di Gerusalemme (il versetto 22,7 «... e il re diede fiamme alla loro città») che fa pensare a una stesura posteriore al 70. Altri esegeti, tra cui l’autorevole Oscar Cullmann, pensano che il Vangelo si basi su una fonte in aramaico redatta dall’Apostolo (una raccolta di detti di Gesù, i cosiddetti “logia”). Secondo Apollonio, vescovo asiatico citato da Eusebio, la stesura risalirebbe al 42 circa, prima che l’Apostolo lasciasse la Palestina per andare a predicare in altri Paesi. Per sant’Ireneo di Lione il libro sarebbe stato pubblicato «mentre Pietro e Paolo evangelizzavano e fondavano la Chiesa di Roma», quindi la datazione slitterebbe al 60. Tracce del mestiere È molto probabile che il Vangelo di Matteo sia stato redatto inizialmente in aramaico, successivamente in greco. Il gabelliere era abituato a scrivere «perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell’ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei pagamenti», come spiega l’abate Giuseppe Ricciotti nel suo Vita di Gesù Cristo. E del mestiere resta traccia nella narrazione: nel suo Vangelo il denaro è descritto in maniera minuziosa, ogni moneta è citata con il proprio nome e il proprio valore. Persino in materia di norme fiscali dimostra una certa minuziosità. «Fra i Vangeli sinottici - continua l’abate - Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occupano circa tre quinti dell’intero scritto». Anche la struttura del racconto, raccolta attorno a cinque grandi discorsi, corrisponde a un intento didattico: il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole, il discorso ecclesiale e quello escatologico. Di fronte a sé Matteo ha un destinatario ben definito. Sono i cristiani provenienti dall’ebraismo: il suo Vangelo contiene molti elementi lessicali e stilistici di origine semitica, trasmessi dal testo originale alla versione greca. Il più noto è l’espressione «Regno dei Cieli», che troviamo solo qui, una formula nata in seguito alla preoccupazione dei rabbini di non usare il nome di Dio. La preoccupazione di Matteo è riportare un avvenimento efficace per i lettori che hanno la fede in Mosé, come spiega il Ricciotti: nel suo Vangelo, più che in ogni altro, Gesù appare come il Messia promesso dall’Antico Testamento, che ha adempiuto in se stesso le profezie. Come ha notato Oscar Cullmann, Matteo ha una particolare insistenza nel mostrare le corrispondenze tra le profezie dell’Antico Testamento e la figura di Gesù: «Forse tra tutti i documenti scritti precedentemente, egli utilizza già delle specie di florilegi di testi dell’Antico Testamento applicati a Cristo», scrive Cullmann. |
Matteo. Il previsto e l’imprevisto
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