Sul quaderno di note aveva scritto: «Abbozzo di sceneggiatura per un film su san Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)» e, sotto, la data «Roma, 22 28 maggio 1968». Quarant’anni fa, dunque, Pier Paolo Pasolini aveva pensato a un soggetto cinematografico dedicato all’Apostolo che, però, non avrebbe mai visto la sua esecuzione. In quegli appunti c’era un’intuizione che si potrebbe riproporre pari pari anche per l’anno paolino che ieri Benedetto XVI ha aperto solennemente nella basilica romana che custodisce la tomba di questa figura capitale del cristianesimo.
Pasolini, infatti, pensava di trasporre la vicenda di Paolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche metropoli della cultura e del potere (Atene, Roma, Corinto, Gerusalemme…) con New York, Londra, Parigi, Berlino e la Roma attuale.
L’Apostolo, infatti, è l’uomo che ha rincorso la modernità senza lasciarsi da essa omologare; ha operato l’inculturazione di un messaggio dalle forti connotazioni semitiche nelle coordinate linguistiche, ideali e sociali dell’Impero romano e della civiltà ellenistica; non ha temuto di inoltrarsi sui sentieri d’altura della teologia senza cadere nelle panie dell’ideologia asfittica; è stato un edificatore di cattedrali spirituali ma anche di comunità locali, così intimamente insediate nel tessuto urbano da correre il rischio talora di impolverarsi mani, piedi e coscienza (si leggano le Lettere ai Corinzi!). Equivocava, perciò, il nostro Gramsci quando liquidava San Paolo come «il Lenin del Cristianesimo», così come sbandava Nietzsche quando lo opponeva agli 'evangelisti', cioè ai primi annunziatori della 'buona novella' di Cristo, bollandolo come 'disangelista', cioè araldo di una 'cattiva novella', confermando laicamente uno stereotipo, diffuso anche tra molti credenti, secondo il quale l’Apostolo è un gelido teorico, «la causa dei principali difetti della teologia cristiana», come lo accusava Renan.
Certo, Paolo è convinto che fede e pensiero si richiamino reciprocamente e quindi esige nel suo lettore rigore religioso e intellettuale. Ne era già consapevole la stessa Seconda Lettera di San Pietro quando osservava che «nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo vi sono alcune cose difficili da comprendere gli ignoranti e gli incerti le travisano a loro rovina» (3,16). È, dunque, necessaria una lettura sorvegliata e accurata del patrimonio letterario e teologico paolino che comprende ben 2003 versetti sui 5621 che compongono l’intero Nuovo Testamento. Egli induce al ritorno verso una fede che accoglie e approfondisce le ragioni che la sostengono. Questo anno paolino, anche se ancorato a una data di nascita più simbolica che reale, potrebbe allora essere il tempo per riproporre una meditazione personale e comunitaria dell’epistolario paolino.
Sarà, certo, un vigoroso esercizio mentale ma anche l’occasione per ritrovare una spiritualità pura, spoglia da fronzoli secondari, da ridondanze devozionali, da derive evanescenti, una fede che abbia il suo cuore profondo e vitale in quel Gesù Cristo che è nominato almeno quattrocento volte negli scritti dell’Apostolo. Il motto emblematico paolino, è, infatti, tutto in quella frase incastonata nella Lettera indirizzata agli amati cristiani della città macedone di Filippi: «Per me il vivere è Cristo» (1,21). Ma la sua riflessione riesce a raggiungere anche le vette dei temi religiosi ultimi, come la grazia, la fede, la giustificazione, la legge, la libertà, la salvezza, l’agape, senza però evitare gli abissi oscuri del peccato, della carne, del male e della nostra fragilità creaturale. Per questo il poeta Mario Luzi definiva 'smisurata' la figura di Paolo, capace cioè di varcare le frontiere per discendere nei segreti tenebrosi dell’umanità e ascendere verso il cielo del divino e della redenzione piena. E il suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, sta lì, davanti a noi ancor oggi a sfidarci per imboccare la via di un cristianesimo radicale e autentico.
© Copyright Avvenire, 29 giugno 2008
Pasolini, infatti, pensava di trasporre la vicenda di Paolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche metropoli della cultura e del potere (Atene, Roma, Corinto, Gerusalemme…) con New York, Londra, Parigi, Berlino e la Roma attuale.
L’Apostolo, infatti, è l’uomo che ha rincorso la modernità senza lasciarsi da essa omologare; ha operato l’inculturazione di un messaggio dalle forti connotazioni semitiche nelle coordinate linguistiche, ideali e sociali dell’Impero romano e della civiltà ellenistica; non ha temuto di inoltrarsi sui sentieri d’altura della teologia senza cadere nelle panie dell’ideologia asfittica; è stato un edificatore di cattedrali spirituali ma anche di comunità locali, così intimamente insediate nel tessuto urbano da correre il rischio talora di impolverarsi mani, piedi e coscienza (si leggano le Lettere ai Corinzi!). Equivocava, perciò, il nostro Gramsci quando liquidava San Paolo come «il Lenin del Cristianesimo», così come sbandava Nietzsche quando lo opponeva agli 'evangelisti', cioè ai primi annunziatori della 'buona novella' di Cristo, bollandolo come 'disangelista', cioè araldo di una 'cattiva novella', confermando laicamente uno stereotipo, diffuso anche tra molti credenti, secondo il quale l’Apostolo è un gelido teorico, «la causa dei principali difetti della teologia cristiana», come lo accusava Renan.
Certo, Paolo è convinto che fede e pensiero si richiamino reciprocamente e quindi esige nel suo lettore rigore religioso e intellettuale. Ne era già consapevole la stessa Seconda Lettera di San Pietro quando osservava che «nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo vi sono alcune cose difficili da comprendere gli ignoranti e gli incerti le travisano a loro rovina» (3,16). È, dunque, necessaria una lettura sorvegliata e accurata del patrimonio letterario e teologico paolino che comprende ben 2003 versetti sui 5621 che compongono l’intero Nuovo Testamento. Egli induce al ritorno verso una fede che accoglie e approfondisce le ragioni che la sostengono. Questo anno paolino, anche se ancorato a una data di nascita più simbolica che reale, potrebbe allora essere il tempo per riproporre una meditazione personale e comunitaria dell’epistolario paolino.
Sarà, certo, un vigoroso esercizio mentale ma anche l’occasione per ritrovare una spiritualità pura, spoglia da fronzoli secondari, da ridondanze devozionali, da derive evanescenti, una fede che abbia il suo cuore profondo e vitale in quel Gesù Cristo che è nominato almeno quattrocento volte negli scritti dell’Apostolo. Il motto emblematico paolino, è, infatti, tutto in quella frase incastonata nella Lettera indirizzata agli amati cristiani della città macedone di Filippi: «Per me il vivere è Cristo» (1,21). Ma la sua riflessione riesce a raggiungere anche le vette dei temi religiosi ultimi, come la grazia, la fede, la giustificazione, la legge, la libertà, la salvezza, l’agape, senza però evitare gli abissi oscuri del peccato, della carne, del male e della nostra fragilità creaturale. Per questo il poeta Mario Luzi definiva 'smisurata' la figura di Paolo, capace cioè di varcare le frontiere per discendere nei segreti tenebrosi dell’umanità e ascendere verso il cielo del divino e della redenzione piena. E il suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, sta lì, davanti a noi ancor oggi a sfidarci per imboccare la via di un cristianesimo radicale e autentico.
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