STANISLAO LYONNET. IL DONO DELLO SPIRITO SANTO RICEVUTO PER MEZZO DELLA FEDE

(Efesini 1,13-14)

Secondo il disegno misterioso del suo amore, oggetto della contemplazione e dell'azione di grazie di San Paolo, Dio non ha voluto soltanto che la nostra umanità, presa come in blocco e nel suo insieme, partecipasse all'atto supremo di amore e di obbedienza per cui Cristo «ritornò al Padre suo» compiendo la sua «Pasqua» (Giov. 13,1), oppure - per usare i termini paolini - «divenne Spirito vivificante» (1 Cor. 15,45 ). Dio vuole che ciascuno di noi partecipi a questo atto supremo di amore e passi così, al seguito di Cristo, dalla condizione «carnale» a quella «spirituale». A questo scopo comunica a ogni cristiano il dono per eccellenza, il quale altro non è che lo Spirito del Padre e del Figlio.
Perciò dopo le prime due strofe dedicate alla persona del Padre (v. 4-6) e all'opera del Figlio (v. 7-12), la terza è incentrata tutta sull'azione dello Spirito Santo (v. 13-14), mentre ciascuna delle tre «strofe» è contrassegnata dalla ripetizione quasi alla lettera di una stessa formula: «alla lode della sua gloria» (v. 6,12 e 14).

Nel Cristo anche voi, dopo aver inteso le parole di verità, la buona novella della vostra salvezza, in lui, dopo aver creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito della promessa, quello Spirito Santo che costituisce la caparra della nostra eredità, per il raggiungimento della redenzione piena con la quale Dio ci farà definitivamente suoi, in lode della sua gloria (Ef. 1,13-14).

S. Paolo aveva evocato discretamente fin dalle prime parole «le benedizioni spirituali» con cui il Padre «ci aveva benedetti nel Cristo» (v. 3); ma ora con tutta chiarezza precisa quali erano le «benedizioni spirituali» di cui intendeva parlare.
Nel Cristo: poiché il Cristo rimane sempre il mediatore, colui che col Padre «manda lo Spirito», che noi riceviamo divenendo membri del suo Corpo mediante la fede e il battesimo.
Anche voi, cioè i cristiani «pagani di nascita», ai quali si rivolge l'Apostolo, «che una volta erano senza Cristo, senza diritto di cittadinanza in Israele, estranei alle disposizioni della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef. 2,11-12).
Nel Cristo ormai tutte le divisioni che separavano gli uomini si trovano superate, soppresse, sorpassate: divisioni religiose, sociali e perfino quelle che lo stesso Creatore ha inserito nella natura dell'uomo: «non c'è più né Giudeo, né Greco, non c'è più né schiavo né libero, non c'è più né uomo né donna, non siete tutti che un solo vivente nel Cristo Gesù» (Gal. 2,28), «eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rom. 8,17).
Il contrasto con la condizione di un tempo non
sottolinea solo la magnificenza del dono, ma ne manifesta l'assoluta gratuità. Nessuno più di Paolo ha tenuto a rivendicarlo contro ogni concezione in cui la salvezza poteva apparire come una conquista dell'uomo, mentre non può essere che un dono di Dio. Bisogna però che l'uomo accolga questo dono.
Per questo, quando l'opera redentrice è vista nell'uomo e non più in Dio o nella persona di Cristo, l'Apostolo si premura di ricordare esplicitamente un'attività dell'uomo: Dopo aver ascoltato la parola di verità, la buona novella della vostra salvezza, dopo aver creduto... Certamente tutto viene da Dio lui solo può operare in noi questa trasformazione radicale che di un essere carnale farà un essere spirituale, tale che in lui lo Spirito è divenuto il principio delle nostre azioni. Ma, siccome si tratta di una trasformazione che deve compiersi nell'intimo della nostra libertà, è necessario che questa vi intervenga. L'appello di Dio sarà sicuramente e sempre il primo; l'uomo non può che rispondere, ed è ancora Dio che suscita in lui questa risposta. Ma se l'uomo fosse dispensato dal rispondere sarebbe trattato come una «cosa» e non sarebbe più come un essere libero. Ora, non è un puro caso che per San Paolo, come del resto per San Giovanni, questa risposta consista essenzialmente nell'atto di fede: dopo aver creduto, atto di fede che presuppone la predicazione: dopo aver udito la parola di verità. Infatti «come credere in qualcuno, se non se ne è inteso parlare?» (Rom. 10,14).
L'atto di fede, col quale io affermo sulla autorità di un altro e non in virtù di un'evidenza, è uno degli atti più liberi -
e perciò uno dei più umani, dei più «miei» - e nello stesso tempo un atto in cui affermo la mia radicale insufficienza, poiché percepisco la verità della mia affermazione in una luce che alla mia coscienza appare come proveniente da un altro; un atto nel quale indubbiamente io vedo, ma quasi servendomi degli occhi di quell'altro. È impossibile escogitare un modo più sicuro per escludere, quasi per definizione, la «sufficienza» dell'uomo (Rom. 3,27). Ogni atto di fede è una «sottomissione», un' «obbedienza», come S. Paolo ripete a tre riprese nella lettera ai Romani (1), e San Tommaso non ha torto di ravvisarvi il consenso che diamo all'opera che Dio svolge in noi: «credendo a Dio che giustifica, l'uomo si sottomette a questa attività giustificante e così ne riceve l'effetto» (2).
In ciò del resto il nuovo Testamento si ispirava direttamente al senso che il verbo «credere» già aveva nell'Antico. Tale verbo deriva da una ben nota radice ebraica, che ha fornito l'amen alla nostra liturgia ed esprime fondamentalmente l'idea di solidità, di fermezza, di costanza. Applicata a Dio, lo designa come la roccia incrollabile su cui si può con tutta sicurezza appoggiarsi, senza temere che ceda, come colui la cui parola non può ingannare, nel quale, secondo la parola di Paolo, non c'è il «sì» o il «no» (2 Cor. 1,18); colui che, essendo coerente con se stesso, non può dire di sì un giorno e no il giorno dopo, né tanto meno dire «sì»
? e «no» insieme. Egli è dunque l'opposto dell'uomo, questo essere essenzialmente incostante, infedele e ingannatore (3). In questa accezione il verbo ebraico è impiegato nella forma chiamata «causativa», nel senso di render solido, fermo, costante». Quando dico «credo», affermo quindi simultaneamente due cose: «da me stesso non sono solido, fermo, costante», e inoltre «mi rendo tale»; in altri termini acquisto questa proprietà, che prima non avevo. L'oggetto della fede, che è sempre la persona stessa di Dio o una delle sue parole, designa propriamente il punto d'appoggio, esterno e comunque sempre distinto da me, dal quale traggo questa solidità, questa fermezza e questa costanza. Quindi per la fede io partecipo della solidità stessa di Dio e della sua parola, scambio per così dire la mia debolezza naturale e congenita con la forza divina, pur riconoscendo e attestando che questa forza non viene da me, non è mia: proclamo la mia radicale impotenza e partecipo della potenza di Dio. Si comprende che tale atto è quanto mai adatto a costituire la parte necessaria di una collaborazione umana a quella attività completamente divina che Paolo identificherà subito con ciò che si potrebbe chiamare la presenza operante in noi nel punto focale della nostra libertà, della terza Persona della SS. Trinità.

Voi avete ricevuto il sigillo dello Spirito della promessa} così chiamato perché nel dono dello Spirito erano comprese tutte le promesse divine. Per la fede e il battesimo, chiaramente usato dal termine «sigillo» (sphraghis), che del resto per San Paolo non va mai disgiunto dalla fede - perciò la tradizione cattolica lo chiamerà il sacramento della fede - viene comunicato a ogni cristiano fin da quaggiù lo Spirito proprio del Padre e del Figlio. Per questo fatto e finché si lascerà «muovere dallo Spirito» (cfr. Rom. 8,14), egli non è più «nella carne» ma «nello Spirito» (Rom. 8,9); in lui la carne e quelle passioni egoiste, che deve «mortificare senza tregua (Rom. 8,13), han cessato di essere il principio dell' agire per far posto alla persona dello Spirito Santo. Spirito del Figlio che ne forma in noi l'immagine, è lui, secondo San Paolo, quello che fa di noi altrettanti figli; lui solo può mettere sulle nostre labbra e nel nostro cuore la preghiera propria del Figlio unico: abbà, quella stessa che il Figlio pronunciava «nello Spirito». Essendo Spirito di amore, opera in noi ciò che operava in Cristo: l'amore. L'amore sarà dunque l'unica legge del cristiano, come fu l'unica legge di Cristo. L'antico oracolo di Geremia, precisato qualche anno dopo da Ezechiele, si è realizzato con una pienezza insospettata:
«Metterò la mia legge al fondo del loro essere) la scriverò sul loro cuore» (Ger. 31,33); «vi darò uno spirito nuovo, metterò il mio spirito nel fondo del vostro essere) e farò sì che camminiate secondo le mie leggi» (Ez.36,27).

Quello Spirito Santo che costituisce la caparra della nostra eredità. Sembra che l'Apostolo abbia preferito a bello studio il termine caparra a quello di «pegno»: il possesso dello Spirito Santo non è solo una garanzia, un «pegno», di una eredità futura, ma è già una parte di questa eredità. «La grazia è la gloria iniziata», diranno i teologi. Possesso iniziale in attesa del possesso pieno con la totale spiritualizzazione del nostro essere, anima e corpo, nella parusia, quando l'opera redentrice sarà pervenuta alla sua consumazione, quando Dio attraverso il Cristo e nel Cristo ci avrà resi definitivamente suoi) o come dice Paolo in un altro passo e con un'immagine essa pure biblica, «quando il Cristo avrà riconsegnato il Regno al Padre suo, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor.15,28) in lode della sua gloria!
L'allusione che San Paolo fa al sacramento deI battesimo, quando dichiara che i fedeli sono stati segnati col sigillo dello Spirito) implica già che lo Spirito è comunicato a loro nella Chiesa. Qualche versetto più avanti lo affermerà ancor più nettamente, quando stabilirà una triplice gerarchia: Dio, Cristo e la Chiesa, e preciserà che la Chiesa è la pienezza del Cristo, anzi che è tale (secondo il senso più probabile di questo difficile versetto) come il Cristo stesso è la pienezza di Dio
(4); audace parallelismo ricchissimo di insegnamenti, poiché ne segue che non solo noi partecipiamo alla pienezza di Dio solo in Cristo e per mezzo di lui (cosa che il N.T. suppone ad ogni passo), ma anche che noi partecipiamo alla pienezza del Cristo solo nella Chiesa e per mezzo di essa.

[1]. Rom. 1,5; 10,16; 16,26.
[2]. Commento a Rom. 4,5.
[3]. Cfr. Rom. 3,4 che cita la parola del Sal. 116,11.
[4].
Ef. 1,23; cfr. Col. 2,9.

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