La Trinità. Lettura del dipinto di Masaccio




Come ormai siamo soliti fare, ci accostiamo a questo grande mistero della fede cristiana passando per la porta delle arti figurative, in specifico attraverso l'opera di Masaccio.
Nato nel 1401 a San Giovanni Valdarno, muore prima di compiere i ventisette anni a Roma, nell'autunno del 1428.
Lavora per un periodo di circa dieci anni "compiendo, - come afferma Carlo Argan -, nella storia della pittura una rivoluzione che non ha precedenti se non in Giotto".
Secondo la tradizione è discepolo di Masolino, col quale a più riprese collabora ("Madonna con S. Anna", Cappella Brancacci, ecc.), ma alla sua formazione contribuiscono in maniera determinante Donatello e il Brunelleschi.
L'influenza di quest'ultimo è evidente proprio nell'opera che ci accingiamo a considerare, cioè la "Trinità" di S. Maria Novella. Guardando questo capolavoro infatti una cosa che balza immediatamente agli occhi è il fatto che i personaggi sono tutti inseriti in un complesso architettonico assai pronunciato, di chiara matrice brunelleschiana. Alcuni critici sostengono vi sia stato l'intervento diretto dell'architetto nel misurare, trascrivere, segnare, incidere sull'intonaco fresco le linee che compongono il saggio strutturale; non è possibile affermare con certezza che sia stato proprio così, tuttavia il rifarsi di Masaccio al criterio architettonico del Brunelleschi è innegabile. Questo poi per precisa scelta, per una sorta di coerenza al significato concettuale dell'affresco. La composizione infatti è rigorosamente inscritta in un triangolo che parte dal Padre, passa da un lato per Maria Addolorata e per S. Giovanni Evangelista dall'altra, e va a terminare sui due personaggi più esterni, da molti ritenuti i commissionanti dell'opera. La Trinità è notoriamente simboleggiata dalla figura geometrica del triangolo. Restare nel campo del simbolo, cosa quanto mai cara ai pittori trecenteschi, a Masaccio non è però sufficiente. Per questo artista infatti la Trinità è un dogma, ma non esiste dogma senza rivelazione; ancora, non c'è rivelazione senza storia e non c'è storia senza forma. Dunque il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono figure reali, storiche, che proprio per la loro concretezza di necessità debbono occupare uno spazio; tale spazio non può non essere anch'esso vero, concreto, in un certo qual modo "storico", esattamente come il dogma: per Masaccio nulla realizza in maniera migliore questa idea dell'architettura brunelleschiana con il suo straordinario spazio prospettico.
Quale il volto della Trinità?

All'interno di questo spazio sono collocate le tre persone divine, rappresentate anch'esse con realismo, con estrema concretezza storica. A essere resa in maniera plastica infatti non è un'"idea", ma un fatto, un accadimento molto preciso che della Trinità ha rivelato l'essenza, il vero volto: la crocifissione di Gesù di Nazaret, vero uomo e vero Dio, seconda persona della SS. Trinità.
Afferma il teologo J. Moltmann che se vogliamo sapere chi è Dio dobbiamo inginocchiarci ai piedi della Croce.
La Croce infatti è il criterio e la prova suprema, il luogo dove apprendiamo la verità di Dio immersa nel silenzio: "Dio è amore", dice S. Giovanni (1Gv 4,8), è donare la vita: "Non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13) afferma sempre l'Apostolo.
Ebbene, il messaggio che Masaccio ha voluto trasmetterci rappresentando la Trinità mediante l'immagine del legno della Croce dal quale pende, abbandonato nell'infinito dolore e nell'infinita solitudine del silenzio della morte, il Figlio, tenuto fra le braccia dal Padre, mentre la colomba dello Spirito unisce e separa l'Abbandonante e l'Abbandonato, è quello della storia dell'amore che Dio ha scritto per noi nella Croce del Figlio. Il Crocifisso che muore abbandonato non è l'ennesimo povero che rantola nell'agonia del dolore umano: egli è uno che muore fra le braccia di Dio. La sua è una vera "morte in Dio" ("Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito", dice Gesù in croce).
La Trinità divina qui è profondamente coinvolta nel suo mistero di Padre, di Figlio e di Spirito.
Sulla Croce infatti si offre innanzitutto il Figlio: la Croce è la "follia" dell'amore del Figlio che si compromette con noi, con la nostra storia, fin nelle pieghe più intime, vivendo, partecipando, condividendo, assumendo tutti i dolori, finanche al più radicale, quello della morte. La Croce è la storia del Figlio che, soffrendo, ci ha rivelato il suo infinito amore, come bene dice S. Paolo: "Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me" (Gal 2,20).
Il Figlio però viene consegnato alla morte da Dio, suo Padre. E' il Padre infatti che tiene fra le braccia il legno della vergogna, l'albero dell'abbandono. Dice S. Paolo: "Dio non ha risparmiato suo Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi" (Rm 8,32). Gli fa eco S. Giovanni: "Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il suo Figlio unigenito" (1Gv 3,16). Il Padre non è impassibile: soffre anch'egli per amore nostro. Come afferma il S. Padre nella sua Enciclica "Dominum et vivificantem", il Padre è capace di infinito amore proprio perché è capace di infinito dolore. D'altro canto già S. Giovanni scriveva: "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati". (1Gv 4,9-10).
Infine anche lo Spirito è presente nell'ora della Croce: dice S. Giovanni di Gesù in croce: "Chinato il capo, consegnò lo Spirito" (Gv 19,30). Meglio si comprende questo passo se lo si legge tenendo come sfondo l'Antico testamento. Quando Israele va in esilio, Dio ritira il suo Spirito dal popolo eletto; esilio dunque equivale ad assenza dello Spirito. Quando Israele torna nella terra della promessa di Dio, che è la sua patria, Dio effonde il suo spirito su ogni carne e tutti profetizzano. Le profezie di Ezechiele 36, di Geremia 31 e di Gioele 3 si realizzano nel giorno di Pentecoste. Se l'esilio perciò è la dolorosa assenza dello Spirito, la patria è l'effusione di Lui che entra nel nostro cuore, nella nostra vita. Sulla Croce, consegnando lo Spirito, Gesù entra perciò nell'esilio dei "senza Dio", dei "maledetti da Dio", ma per noi, come afferma S. Paolo: "Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2Cor 5,21) e "Cristo è diventato maledizione per noi" (Gal 3,13). Ciò significa che ormai non c'è più situazione umana di dolore, di miseria, di morte in cui la creatura umana può sentirsi abbandonata da Dio. Se il Padre infatti ha tenuto tra le braccia l'Abbandonato, terrà tra le braccia ogni uomo, qualunque sia la storia di peccato, di dolore e di morte dalla quale proviene, come dice il salmista: "Ti ho preso fra le mie braccia" (Ps 131,2).
Lo Spirito consegnato da Gesù il Venerdì Santo raggiunge l'uomo il giorno di Pasqua: è in virtù di questo dono che noi possiamo entrare nel cuore di Dio e il mondo intero è chiamato a diventare "Patria di Dio", fino a quando il Figlio consegnerà ogni cosa al Padre e Dio, come dice S. Paolo, sarà "tutto in tutti" (1Cor 15,28).

Ma cosa dice a noi questa sia pur breve contemplazione dell'amore trinitario, fatta ai piedi della Croce nella luce pasquale?
Certamente dice che l'amore nasce sempre dall'alto, da Dio, perché è Lui che per primo ci ha amati, come afferma S. Giovanni. Noi perciò impariamo ad amare soltanto lasciandoci amare, facendo spazio, nel silenzio, alla vita, ascoltando in profondo il dono di Dio, vivendo la lode di Dio, che è l'accoglienza del Suo Amore, in rendimento di grazie.
La dimensione contemplativa ed eucaristica della vita è la prima vera scuola dell'amore, il fondamento di ogni vero incontro con la Trinità d'amore.
L'amore viene da Dio e, come dice S. Giovanni, solo chi ama è nato da Dio e conosce Dio; ma chi incontra Dio Amore e fa esperienza di Lui non può non cominciare ad amare a sua volta, nell'umile concretezza dei piccoli gesti quotidiani. Nei silenziosi gesti dell'amore perciò si riflette l'eterna storia dell'amore divino e si anticipa la parola senza parole della gioia della Patria, come scrive S. Agostino nel "De Trinitate": "Quando dunque arriveremo alla tua presenza, cesseranno queste molte parole, che diciamo senza giungere a te; tu resterai, solo, tutto in tutti, e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un unico slancio, divenuti anche noi una sola cosa in te".

Per concludere… in preghiera…

C'è chi della contemplazione del mistero della Trinità e dell'esperienza dell'inabitazione di essa nella propria anima ha fatto il fulcro di tutta la sua esistenza. Una di esse è la Beata Elisabetta della Trinità, Carmelitana Scalza nel monastero di Digione, in Francia, nata nel 1880 e morta nel 1906.
Dopo un momento di intensa preghiera, il 21 novembre 1904, scrive di getto una preghiera, nota come "Elevazione", sintesi di tutta la sua spiritualità. E' il dono-augurio che ci scambiamo in questa festa così bella, ma forse, almeno in Occidente, ancora così trascurata.

"O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente, per dimorare in Te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell'eternità! Che niente possa turbare la mia pace o farmi uscire da Te, mio Immutabile, ma che ogni istante mi conduca più addentro nella profondità del Tuo mistero.
Pacifica la mia anima, fa' di lei il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo riposo; che io non Ti lasci lì solo, mai, ma che sia là tutta intera, completamente risvegliata nella mia fede, tutta adorante, tutta abbandonata alla tua azione creatrice.
O Cristo mio amato, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo Cuore; vorrei coprirti di gloria; vorrei amarti... fino a morirne! Ma sento la mia impotenza e ti chiedo di rivestirmi di Te stesso, di identificare la mia anima a tutti i movimenti della Tua Anima, di sommergermi, di invadermi, di sostituire Te a me, affinché la mia vita non sia più che una irradiazione della Tua Vita. Vieni in me come Adoratore, come Redentore, come Salvatore.
O Verbo eterno. Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarTi; voglio farmi del tutto docile per imparare tutto da Te; poi, attraverso tutte le notti e ogni forma di vuoto o di impotenza, voglio fissare sempre Te e dimorare sotto la tua grande luce. O mio Astro amato, incantami, così che io non possa più uscire dal tuo vivo splendore.
O Fuoco che "consumi", Spirito d'amore, vieni sopra di me affinché si realizzi in me come una incarnazione del Verbo; che io Gli sia una umanità aggiunta, nella quale Egli possa rinnovare tutto il suo Mistero.
E tu, o Padre, chinati sulla tua povera piccola creatura, coprila con la tua ombra e non vedere in lei che il Figlio amato nel quale hai posto tutta la tua compiacenza.
O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Infinita solitudine, Immensità in cui mi perdo, io m'abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me, affinché io mi seppellisca in Voi, nell'attesa di poter contemplare, nella vostra stessa luce l'abissale vostra grandezza".

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