ESSERE FINITO ED ETERNO: L'UOMO COME IMMAGINE DELLA TRINITA', NELLA CONCEZIONE DI EDITH STEIN

di Hanna Barbara Gerl-Falkovitz

SIMPOSIO INTERNAZIONALE
Edith Stein
Testimone per oggi,
Profeta per domani

Teresianum - Roma
ottobre 1998

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Conferenza
della Prof. Dr.

Hanna Barbara
GERL-FALKOVITZ

ESSERE FINITO ED ETERNO:
L'UOMO COME IMMAGINE
DELLA TRINITÀ

1. La rinascita tomistica del XX secolo e la ricerca del senso dell'essere

Quando Edith Stein a metà degli anni '20 iniziò ad occuparsi di San Tommaso d'Aquino, essa si affacciava ad una rinascita tomistica che ebbe le proprie radici in una nuova attenzione dedicata all'ontologia medievale. Anche Husserl aveva nuovamente collegato il concetto di fenomeno per la prima volta all'apparire di una cosa conducendo la conoscenza, attraverso varie fasi intermedie, fino all'essenza stessa delle cose. La fenomenologia aveva così riportato nella filosofia una forma variata di indagine ontologica ripromettendosi di inaugurare un nuovo indirizzo fondamentale del pensiero, che andasse oltre il neokantismo.

In questo modo si era stabilito un contatto sorprendente tra la corrente particolare del pensiero cattolico e la filosofia di ispirazione husserliana. Quindi, nella prima metà del XX secolo, sull'Aquinate non si ebbero soltanto ricerche di carattere confessionale (Mandonnet, Sertillanges, Maréchal, Maritain, Gilson, Grabmann, Przywara, Pieper, Siewerth). D'altra parte, il ritorno della filosofia al problema dell'essere risultò straordinariamente fertile; infatti, riguardava nomi di primo ordine, quali Heidegger, ma anche Conrad-Martius e Przywara. Questa dinamica di avvicinamento tra scolastica e fenomenologia, e anche tra il patrimonio particolare del pensiero cattolico e il pensiero filosofico generale, divenne una sfida anche per Edith Stein, tanto da indurla a un'assidua esplorazione teorica di San Tommaso.

L'ultimo dei quattro passi compiuti in direzione di San Tommaso e della neoscolastica è costituito dall'opera Essere finito ed eterno del 1935/36 che reca il sottotitolo provocatorio: Tentativo di ascesa al senso dell'essere. Vi è intenzionalmente implicito un avvicinamento all'opera di Heidegger Essere e tempo. Essere finito ed eterno si presenta come un'opera dai propositi sintetistici, cioè come sintesi delle grandi problematiche tradizionali incentrate sull'essere. Comunque, Edith Stein intraprese l'arduo tentativo di reperire per la filosofia medievale e quella "neonata del XX secolo" un linguaggio "in cui potessero comunicare tra di loro".(1)

Per fare ciò, Edith Stein basò il proprio metodo sull'impostazione del pensiero tomistico, ma nel corso dell'ulteriore elaborazione si avvicinò sempre più a Sant'Agostino, il cui pensiero esistenziale dovette rivelarsi a lei più fruttuoso di quanto avesse potuto originariamente intendere. "Sebbene [l'opera] procedesse da San Tommaso, è diventata fortemente agostiniana"(2). Infatti, sul piano concreto, Edith Stein orienterà l'ontologia tomistica verso la scienza della persona. Tuttavia, la persona non può essere costruita unicamente a partire dall'essere e nemmeno esclusivamente a partire dalla conoscenza, ma piuttosto essenzialmente in base alla relazione. Lo svolgimento di questo pensiero porta a una fenomenologia della persona che supera sia l'ontologia sia la gnoseologia. Andando oltre il pensiero tomistico sull'essere e oltre il pensiero husserliano sull'io, la teoria si apre al pensiero di Sant'Agostino, basato sulla relazione: cioè alla dedizione e all'accettazione. Dal comprendere passa all'essere commosso, al cambiare, all'essere aperto. Il senso dell'essere diventa essere persona.

2. La relazione tra essere finito ed essere eterno

Il finito è definito come "ciò che non possiede il proprio essere, ma necessita del tempo per giungere all'essere": inoltre è qualcosa di "oggettivamente limitato", il cui senso è: "essere qualcosa e non tutto". L'eterno, cioè il concetto opposto, significa inversamente: essere "padrone dell'essere", "padrone del tempo", "essere tutto"(3). Tuttavia, il finito e il temporale non sono concetti semplicemente sovrapponibili. Per chiarire il rapporto particolare tra temporalità e finitezza, Edith Stein distingue tra entità ed essere temporale. Viene così a trovarsi nella necessità - evidente già da Platone in poi - di dover postulare col pensiero delle entità (idee) senza rappresentarle come reali. Infatti, è possibile provare gioia propria, vera soltanto per il fatto che la gioia esiste in senso assoluto quale entità. Questo lavoro di precisione è importante perché consente di dimostrare che l'essere temporale possiede la tendenza di procedere dalla realtà al compimento a livello di essenza e non rimane semplicemente e uniformemente limitato in senso temporale nonché imperfetto. Esso conosce una specie di "vertice" al quale la sua realtà "prorompe" nella piena efficacia, come quando una corda muta inizia a suonare: l'essere "fuoriesce da se stesso e ciò è contemporaneamente la sua 'rivelazione'"(4). Così la cosa si unisce con la propria essenza piena, oltre il mondo del divenire e dello svanire ad essa consono, e in esso riproduce un'entità originaria. Quest'ultima può a sua volta essere pensata unicamente in funzione di un essere portante. Nell'ascesa dall'essere temporale-reale a quello essenziale, con l'ultimo passo si giunge a un essere stesso fondato in sé, creativo, atemporale.

Tuttavia le distinzioni fatte finiscono stranamente nel silenzio. La conoscenza e il linguaggio, nell'ottica dell'essere stesso, si rivelano come provvisori: l'essere ricercato non può essere addotto filosoficamente in modo coercitivo. Si tratta di sopportare una certa tensione: da un lato, l'anelito interno verso il senso compiuto dell'essere e, dall'altro, l'impossibilità effettiva di svelarlo davanti al tempo. La vita si svolge in una tensione che non è possibile allentare: "ciò che cogliamo del 'senso delle cose', ciò che entra 'nella nostra mente', sta all'insieme di quel senso come i singoli suoni perduti, portati dal vento, provenienti da una sinfonia che risuona a grande distanza"(5).

3. La svolta da San Tommaso a Sant'Agostino, dall'ontologia alla teologia

Nel sesto capitolo, Edith Stein torna direttamente al senso dell'essere, cioè alla questione iniziale, che essa condivise con Heidegger. "L'essere è uno e tutto ciò che è ne fa parte. Il suo senso pieno corrisponde alla pienezza di tutto l'essente. Parlando dell'essere intendiamo tutta questa pienezza"(6). Ma come possono esistere molti essenti e simultaneamente un essere unitario?

Edith Stein tenta di dare una nuova articolazione al problema. Il tutto viene compreso inizialmente in tutta la sua dimensione: ne fanno parte la natura, il mondo spirituale, gli archetipi (entità) di tutto il creato e infine quell'unico archetipo che è l'essere stesso(7). Tuttavia, una simile enumerazione soffre di un'impostazione sbagliata poiché vi appaiono ordinate e assemblate una accanto all'altra cose che, a una considerazione più approfondita appaiono come intrinsecamente appartenentesi e tuttavia non identiche. In quest'uno ultimo e da ultimo fondato è racchiusa tutta la pienezza dell'essere (...) Qualsiasi elemento intermedio finito alla fine deve portare a questa causa primordiale senza principio e senza fine: il primo essere"(8).

Risulta che il tutto non può essere disgregato in "parti". Ma non ne deriva una serie che possa essere sommata, quanto piuttosto un'enigmatica asimmetria. Il tutto determina le proprie parti, ma non si compone delle proprie parti.

Perciò lo sforzo del pensiero dovrà commutarsi metodicamente sulla "corrispondenza", sull'analogia. Ora, come è possibile ascendere analogicamente dall'essere finito all'essere eterno? Innanzitutto, Edith Stein riferisce della concezione tomistica di una doppia possibilità di analogia. La prima analogia è intesa come una relazione semplice tra due elementi. 2 è il doppio di 1. La seconda analogia si riferisce a una relazione traslata: 2:1=6:3=100:50. Nel discorso sull'essere è ammesso soltanto questo secondo tipo di analogia. Essa esclude la distanza finita e il confronto diretto tra essere ed essente, mentre ammette tuttavia un rapporto trasponibile.

Con questa acuta distinzione si ottiene un duplice risultato filosofico. In primo luogo, l'essere finito non consente di passare all'essere eterno per mezzo di una semplice estrapolazione. In secondo luogo, è amesso - anzi non è possibile fare altrimenti - applicare il concetto comune dell'essere a grandezze di natura diversa.

Il problema fin qui elaborato può essere ora trasposto dalla differenza ontologica alla differenza teologica tra creatore e creatura. In questa sede non è possibile illustrare esattamente i singoli passi che vi portano, sullo sfondo della questione "esiste una filosofia cristiana?"(9). In questo contesto dovrebbe essere sufficiente far derivare la giustificazione logica di cogliere questa causa più profondamente, a livello teologico, dal fatto che la filosofia tocca un'ultima causa che sostiene se stessa. Teologicamente parlando, nella tradizione Dio è stato posto uguale all'essere e alle sue definizioni. E' proprio su questo punto che Edith Stein decise di introdurre un'importante deviazione da San Tommaso(10). Egli concluse, troppo rapidamente per lei, e quindi distinguendo in modo insufficiente, che in Dio soltanto coincidono l'essenza e l'essere. Occorre considerare, infatti, che nel discorso su Dio questi ed altri concetti non possono essere adoperati nel senso usuale, cioè finito. La differenza esistente tra lui e le creature non consente una simile trasposizione. Perciò Edith Stein ammonisce in modo conseguenziale: "San Tommaso usa locuzioni quali: 'Dio è la sua bontà, la sua vita', ecc., e inoltre: 'Dio è il suo essere'. Si tratta di altrettanti tentativi di enunciare in forma di giudizio ciò che in realtà non è possibile esprimere in forma di giudizio. Infatti, per qualsiasi giudizio è necessario procedere a una scomposizione, senonché ciò che è perfettamente semplice non ammette alcuna scomposizione. Tutt'al più è possibile ancora enunciare: 'Dio è - Dio' quale espressione dell'impossibilità di una definizione della sua essenza per mezzo di qualcosa di diverso da lui stesso"(11).

Ecco la svolta importante: Edith Stein passa da San Tommaso a Sant'Agostino. Cioè, non cerca più di giungere a giudizi su Dio, ma piuttosto alle sue proprie autoenunciazioni nella Scrittura, che infrangono i limiti della comprensione analitica. Così il capoverso sul "nome di Dio" ha l'effetto di una rottura con una certa evoluzione. Il capoverso inizia con l'interpretazione di un passo dell'Esodo: "Io sono colui che sono" (Es 3,14). Seguendo Sant'Agostino, Edith Stein ritiene che in questo nome l'essere sia ormai enunciato in modo del tutto personale. Che cosa è la persona? In linea di principio essa è definita dalla ragione e dalla libertà(12), ambedue visibili in Dio, nella ragionevolezza del suo mondo, che rimanda a lui stesso, e nella libertà intrinseca nella prima causa che a sua volta non può dipendere da una causa anteriore.

Articolando ulteriormente la question, Edith Stein distingue il dire dell'io umano dall'io divino. Io significa il proprio essere insito e simultaneamente l'essere diverso da qualsiasi altro. In breve, si tratta dell'unità dell'essere se stesso e dell'alterità; in termini più figurali si tratta dell'io chiuso in se stesso che esiste per se stesso, e dell'io emergente che si delimita verso l'esterno(13).

Tuttavia l'io finito è altrettanto bisognoso e nullo fino al suo fondamento. Le sue definizioni sono: è vuoto di per se stesso poiché necessita del contenuto di mondi esterni e interni; la sua vita proviene dall'oscurità, va verso l'oscurità, è lacunosa alla memoria e si mantiene solo di attimo in attimo(14). Quindi la sua distanza rispetto all'io divino è infinito. Il nome di Dio "io sono" significa infatti "presenza eternamente viva, senza principio né fine, senza lacune e senza oscurità". Questa vita dell'io possiede tutta la pienezza in sé e per se stessa []. Questo 'io sono' significa: 'io vivo, io so, io voglio, io amo' [] L'io divino non è un io vuoto, ma l'io che racchiude, comprende e domina in se stesso tutta la pienezza"(15). Qui l'essere è formato personalmente, è persona, quindi non neutro e oggetto, ma io e autoconsapevolezza. A questo proposito Edith Stein ha scelto la bella espressione: "esso si comprende spiritualmente o è trasparente per se stesso"(16). Accanto e oltre alle altre definizioni valide per questo io in modo insolito e insieme straordinario, vi sono anche la personalità e l'autopossesso, che comprendono insieme la mancanza di opposti, forma e pienezza, quale profilo del personale ancora accessibile al pensiero.

Vi è un'ulteriore accesso a questo inaudito campo di tensione: la vita di Dio è un procedere dal proprio interno, "eterno movimento in se stesso, un eterno attingere se stesso dalla profondità del proprio essere infinito quale dedizione donante dell'io eterno a un tu eterno e un corrispondente eterno riceversi e ridonarsi"(17).

4. La triade nello spirito e nella persona

La scienza dell'essere sfocia decisamente in una scienza della persona - un tema per il quale Edith Stein abbandona in modo originale sia la filosofia contemporanea sia San Tommaso.

L'immagine dell'eterna origine una e trina nella creazione finita necessita di una descrizione accurata. Quale base si ricorre al De Trinitate di Sant'Agostino. Inizialmente Edith Stein elabora la seguente importante distinzione: la relazione esistente tra le tre persone divine non è identica a una relazione tra cose finite. Perciò non bisogna indagare gli oggetti di questo mondo in modo schematico e coercitivo per ravvisarvi una forma triadica - altrimenti si abbandonerebbe l'infinita distanza tra archetipo e immagine, oscurando sostanzialmente l'archetipo. "Tuttavia, il fatto che il senso dell'immagine sia determinato dall'archetipo, non viene alterato dalla distanza di cui si è detto né dall'incomprensibilità dell'archetipo stesso"(18).

La ricerca di un'immagine possibilmente fedele non ha un senso prioritariamente per le cose percettibili, ma piuttosto per lo spirito e la persona. Che cosa significa spirito? In base a una sua triplice caratterizzazione, esso è privo di spazio e di sostanza e procede da se stesso, ma rimane in sé. Se ne è già parlato spiegando la contemporaneità dell'autopossesso e dell'autodedizione di Dio, cioè dello spirituale per eccellenza. Quindi, almeno per accenni, risulta evidente che Dio non tiene soltanto la propria essenza presso se stesso, ma che se ne priva completamente, anzi che l'ha letteralmente "partorita" mostrando quindi un "vero corpo, naturalmente un corpo spirituale, "poiché possiede tutta la pienezza della sua essenza in una figura effettuata, manifesta, luminosa e tuttavia abbracciata con se stessa malgrado la sua infinitezza, perché egli ha completamente in mano se stesso"(19).

Fa parte della persona l'essere da se stesso, come è il caso dell'anima - anch'essa rimanda all'archetipo Dio. "Eppure anche lo psichico in quanto 'creatività', in quanto 'sorgente di vita' ha il proprio archetipo in Dio poiché la vita divina attinge eternamente di nuovo da se stessa e affiora dalla propria profondità"(20). Poi vengono date progressivamente tre definizioni: la persona è spirito, corpo, anima, tutti prefigurati in Dio nella loro forma primordiale. Al padre, che è da se stesso, è possibile attribuire l'archetipo dell'anima, al figlio il corporeo, allo spirito l'emanazione libera e disinteressata che simultaneamente rimane con se stessa.

Come si appartengono lo spirito e la persona in modo più fondato? Di norma, lo spirito viene scambiato con la coscienza o anche con la ragione. In realtà, lo spirito deve essere inteso, in senso più ampio, a partire dalla persona. Anche persona e io non sono la stessa cosa, piuttosto la persona sopraordinata comprende l'io. Quest'ultimo non deve essere necessariamente consapevole di se stesso, ma vi è insito il fatto che la sua vita sgorga da lui e che esso è cosciente della propria vita. Tuttavia è anche proprio della persona il fatto che essa sia in grado di intendere la propria vita ed abbia la possibilità di determinarla liberamente da sé(21). Quindi la definizione di persona comprende la mente e la libertà(22). In altri termini, la persona e lo spirito si appartengono per mezzo dell'autodistinzione e dell'autopossesso.

5. La triade come corpo, anima, spirito

La personalità e spiritualità compiute di Dio dovrà essere in seguito confrontata con l'essere persona umana, non perché l'uomo costituisca la massima spiritualità creata, ma poiché egli sintetizza l'intero creato grazie alla sorprendente unione di spirito e materia(23). Solo nell'uomo si trova l'essere corporeo-psichico-spirituale. Per questi vari piani dell'essere, intrecciati in modo inaudito l'uno nell'altro, Edith Stein conia delle immagini efficaci: "Ma lo spirito umano è determinato dall'alto e dal basso: è immerso nella struttura materica che esso anima formandola a propria figura corporea. La persona umana porta e comprende il 'proprio' corpo e la'propria' anima, ma simultaneamente ne è portata e abbracciata. La sua vita spirituale si solleva da un fondo oscuro, essa si solleva come la fiamma di una candela che riluce, ma viene alimentata da una sostanza non rilucente. Ed essa riluce, senza essere luce da una parte all'altra: lo spirito umano è visibile per se stesso, ma non del tutto trasparente; è capace di illuminare altro da sé, ma non di penetrarlo completamente"(24). Questo dissidio lascia l'uomo in una strana oscurità, e anche se rimangono lacune nella visione della propria vita, per lui è possibile e sensato di continuare a procedere. Anche "l'immediata vita certa nel presente è il fugace compimento di un attimo, che immediatamente si ripiega su se stesso e presto scivola via del tutto. L'intera vita conscia non è uguale al 'mio essere' - ma assomiglia alla superficie illuminata sopra una profondità oscura, che si manifesta attraverso questa superficie. Se vogliamo comprendere l'umano essere persona, occorre tentare di penetrare in questa profondità oscura"(25).

La persona non conosce né sa esplorare il proprio mondo interno e tanto meno il mondo "dell'aldilà". Esiste innegabilmente una vita conscia dell'autopossesso, che tuttavia misteriosamente risale da quanto non è conscio(26). Edith Stein si appoggia al lavoro precedente di Husserl per portare alla luce almeno certi strati del proprio interiore. La forma più originaria dell'autopercezione si percepisce come oggetto: mi presenta il proprio corpo che altrimenti viene percepito solo in modo difettoso, come nessun altro corpo, senza tuttavia che io riesca a staccarmene. E' vero comunque che lo percepisco, a differenza degli altri corpi, dall'esterno e dall'interno. "Perciò è corpo vivente e non soltanto corpo e il 'mio' corpo, come nulla di esteriore è 'mio', perché io vi abito come nel mio alloggio 'congenito'"(27). Eppure il corpo non è unitario: esso si fa avvertire, da un lato, impersonalmente nella sensazione puramente sensoriale e, dall'altro, personalmente, quando obbedisce liberamente e sensatamente alla persona in quanto strumento. Certamente non esiste il corpo quale puro strumento. "Dove c'è un corpo c'è anche un'anima. E inversamente: dove c'è un'anima, c'è anche un corpo"(28). La tradizione classica aveva considerato l'anima come il vivo, come automovimento interno, come forma essenziale. Questo vivo nell'uomo è legato alla materia, attraverso la materia al divenire, attraverso il divenire all'essenza non ancora dispiegata. Ne risulta la differenza tra l'esistenza umana e quella divina: l'uomo giunge a se stesso soltanto nel corso del tempo, nel movimento vivo e legato al corpo; invece la vita divina immateriale procede da sé con un movimento del tutto diverso, senza perciò abbandonarsi: dedizione senza perdita(29). La pienezza di vita dell'essere divino comprende ambedue i movimenti a livello archetipico, il divenire e l'autodedizione. Con ciò si chiarisce il fatto che l'analogia della vita del corpo e dello spirito prima del vivo primordiale non è sufficiente, in esso è di più e qualcosa di diverso. Se si guarda agli animali, si comprende il peculiare "miscuglio" umano di anima e corpo. Anche l'animale riesce a entrare in relazione con il mondo circostante con un tutto, rispondendo dall'interno alle impressioni esterne(30). Ma quando l'uomo fa questo gioco liberamente e consapevolmente, e non per istinto, egli si "erge personalmente" sopra di esso. Edith Stein chiama questo ergersi l'anima propriamente umana. "Qui la vita interiore è essere conscio, l'io è un io vigile il cui occhio spirituale aperto guarda all'esterno e all'interno: è in grado di accettare comprendendo ciò che gli si para innanzi e di rispondervi nella libertà personale in un modo o nell'altro"(31). Tuttavia questo nesso non si realizza in modo completo perché l'uomo è oltre tutto un'essenza fatta di senso e istinto. Lo spirito è altrettanto poco libero, anche se fosse indipendente dal corpo, poiché egli ha ricevuto se stesso e continua a riceversi come un dono sempre nuovo. "Tutta la libertà creaturale è una libertà condizionata". All'interno di questo limite tuttavia, vale la vita veramente personale, il libero impegno dello spirito. "Il suo conoscere, amare e servire - e la gioia beata nel conoscere, amare e servire - tutto ciò è ricevere e accettare contemporaneamente, libera dedizione di se stesso in questa vita donata"(32).

6. La struttura tensionale dell'esistenza umana

L'esistenza umana presenta molti strati già in virtù del fatto che l'anima occupa la posizione centrale tra le spirito e il corpo. Il "tra" non è da intendersi come interno spaziale, ma piuttosto come intreccio di tutti gli strati umani. "L'uomo non è né animale né angelo perché è ambedue le cose in una"(33). Non esiste uno strato a se stante: quanto più l'io riesce a sollevarsi liberamente sopra il corpo e i sensi, tanto più esso, pur in tutta la sua libertà, deve se stesso proprio a questo corpo. E inversamente, quanto più lo spirito si alimenta a partire dai sensi, tanto più riesce a dominare sui sensi sia nella conoscenza sia nell'agire sia nell'ordinare i moti sensuali. "La vita spirituale è il vero campo della libertà: qui l'io è veramente capace di generare qualcosa da sé"(34). Eppure - è possibile esprimere ciò soltanto in modo paradossale - la libertà è data, la propria vitalità è data, ogni azione libera è una risposta.

Così la persona si rivela come distinta in se stessa in modo molteplice e pur tuttavia come un intimissimo tessuto. Il "fondo scuro" della vita corporea-sensoriale è permeato dallo spirito e rimane tuttavia misteriosamente sottratto alla libera disponibilità della persona. Per l'anima, quale centro del tutto, questa strana molteplicità vale in misura ancora maggiore: essa è anima sensoriale nel corpo, anima spirituale che supera se stessa e infine anima che abita presso se stessa e in cui è di casa l'io personale(35). Questo "castello dell'anima", come Edith Stein si esprime citando Santa Teresa di Avila, costituisce il vero punto della traduzione verso l'interno e dell'operare verso l'esterno. Traduzione per il fatto che nulla scorre dentro come in un recipiente vuoto, nulla trova accesso che non sia raffigurato nell'anima. E da qui viene regolato l'operare verso l'esterno, dove l'anima trabocca in uno scambio infinito.

La relazione tra io e anima viene definita da Edith Stein come relazione tra la vita conscia (vita dell'io) e la profondità dell'anima "che per lo più è celata e si apre solo poche volte"(36). Al di sotto della vita vigile dell'io giace la vita occulta dell'anima. L'anima non è identica all'io, è il fondamento dell'io. Per converso, l'io comprende il corpo e l'anima spiritualmente come sua proprietà(37). Ciò avviene quando l'io cosciente e libero è persona nel senso descritto. La persona "vive della pienezza essenziale che riluce nella vita vigile, senza mai poter essere completamente penetrata dalla luce o dominata. Essa porta questa pienezza ed è contemporaneamente da essa portata come dal proprio fondo scuro"(38). Persona significa quindi il "sostegno eretto dietro e sopra il tutto corpo-anima oppure [] la forma comprensiva della pienezza"(39). Edith Stein conclude le proprie riflessioni con una frase ardita: "Tutto il materiale è costruito dallo spirito"(40). Ciò illumina non solo la creazione del mondo materiale da parte dello spirito divino in tutto ma vede anche ogni singola struttura materiale riempita di spirito.

Che cosa significa spirito? La definizione più breve è: "Lo spirito è senso e vita - nella piena realtà: vita riempita di senso"(41). Questa abbreviazione esclude il semplice essere presso se stesso dello spirito che rimarrebbe sollevato dall'oscurità del materiale in una beata idealità. Lo spirito è piuttosto espressamente traboccante, irradiante; la sua essenza è comunicazione alle figure personali e impersonali. Non esiste una materia completamente priva di spirito: essa avrà sempre una qualche relazione con le persone spirituali che le comunicano la loro vita. Anche la materia morta è una figura di senso, creata dal logos, per cui nella creazione è dotata di struttura e quindi di senso.

7. L'antropologia trinitaria

L'immagine di Dio appare in modo più chiaro nell'uomo. In esso la rappresentazione raggiunge una notevole finezza distintiva, tanto da costituire un capolavoro fenomenologico. In precedenza, l'anima era stata definita come elemento intermedio tra - e come un poco di - spirito e corpo. La formazione viva è dovuta alla strana molteplicità degli elementi costruttivi. L'anima ne viene formata sia in modo involontario, abitudinario (nell'educazione), sia per via della dominazione volontaristica-libera degli elementi. Fino alla fine della vita procedono parallelamente la non libera formazione subita e la libera formazione attiva. La strutturazione dell'anima è inoltre collegata con la formazione del corpo e con le decisioni dello spirito. "L'anima deve 'giungere a se stess'a in un duplice senso: conoscere se stessa e diventare ciò che deve essere. La sua libertà partecipa di entrambe le cose"(42).

In seguito Edith Stein distingue vari gradini dell'autoconoscenza: la semplice consapevolezza accompagna l'io, ma non se ne separa ancora. Soltanto nel secondo atto conscio dell'autoosservazione l'io puro si solleva dalla vita indivisa dell'io che ne è il fondo oscuro: esso si osserva a distanza. Nel terzo passo si ravvisa quello spazio dell'anima che non può essere completamente sollevato alla luce poiché è insieme inconscio e conscio. E' in questo spazio che "alberga" l'io personale, il vero io libero. Esso si appropria del mondo in senso razionale e da lì volge lo sguardo su se stesso quale veicolo dell'esperienza di vita, per la percezione interna. Infine, l'io personale forma la propria essenza: esso sviluppa il carattere personale(43).

Per rappresentare in modo concreto i vari strati dell'anima, come una serie di camere che si scaglionano verso l'interno, pur nella loro unità, Edith Stein si serve di immagini spaziali. Queste servono anche per portare alla visione i passaggi dalle molteplici attività esterne dell'anima a quelle interne: ad esempio quando l'anima si volge dalla conoscenza delle cose verso se stessa quale ente conoscente. Certo è che questa conoscenza di se stessa avviene in modo consapevole solo in un secondo tempo: molti non pervengono mai all'autoconoscenza, al centro dell'anima. Ciò vale ancora di più per la vera formazione dell'essenza che deve improntare il carattere peculiare della persona. Il vero compito consisterebbe nel procedere dall'autoconoscenza all'autoformazione, nel senso di abitare "l'interno" in modo tale che da lì si formi "l'esterno". Se lo spazio interno è veramente occupato, l'autoosservazione coincide con l'autoformazione, con la vita propria vissuta in modo vitale. Ora la rappresentazione spaziale acquista un'importanza preminente poiché l'operato dell'anima dalla profondità verso la "superficie" del corpo presenta un'unica dinamica organica. Inoltre, non è nemmeno possibile osservare se stessi in modo completo: troppo profondamente radicate sono le forze motrici.

L'essenza dell'anima può essere così riassunta: essa forma la vita e in ciò è essa stessa definita da senso e forza. "Il senso è la forma mirata verso la quale l'anima tende in virtù della propria determinatezza essenziale; la forza o la potenza dell'essere è data ad essa perché diventi ciò che deve essere"(44). In altri termini, l'anima è tratta dal senso e nutrita dalla forza. Vi agisce una strana dialettica: "la sua vita stessa è un incessante consumo di forza, ma essa porta ad aprirle fonti di forza"(45). Tali fonti derivano dal corpo o dal mondo situato al di là dell'io.

L'interno dell'anima conosce strati del tutto diversi, di cui il primo è la memoria, il secondo la mente che non si limita a recepire messaggi esterni, ma li elabora nella sua profondità. Vi si aggiunge un terzo strato ignoto: "nell'interno vi è l'essenza dell'anima aperta verso l'interno"(46). La verità di questa osservazione viene esperita come senso che sale dall'intimo aperto e come forza raccolta, prima che si disperda in singole forze psichiche. Qui dominano la tranquillità e la pace in in modo poco comunicabile. Tuttavia questo ambito intimo, aperto verso una profondità ignota, non è del tutto schermato verso l'esterno. Ciò che si presenta attraverso i sensi o la ragione è da intendersi come appello a questo centro, come chiamata per la definizione del senso, come chiamata per la libertà del fare. Nel centro non si svolge alcun avvenimento naturale, come ad esempio un puro processo istintuale, ma piuttosto una risposta all'appello(47). L'io personale è a casa propria nell'intimo dell'anima. Quando vive qui, dispone della forza raccolta dell'anima e può impiegarla liberamente. Allora si trova nella massima vicinanza anche del senso di tutto ciò che accade ed è aperto alle richieste che gli arrivano, e nella migliore condizione per comprendere il loro significato e la loro portata. [] A colui che solo occasionalmente ritorna alle profondità dell'anima per poi permanere nuovamente in superficie, la profondità rimane non formata e non è in grado di dispiegare la propria forza formante per gli strati situati più all'esterno. E possono esservi uomini che non giungono mai fino alla loro ultima profondità"(48).

L'accesso all'intimo non è certamente semplice, esso richiede di norma una forza che l'attragga. Nel doloro può succedere, come anche nella felicità, che "riluca" la profondità della propria vita. Quando un uomo vive nell'intimo, appare "tanto più forte [] è questa irradiazione che emana da lui e attrae altri nella sua orbita. Ma tanto più fortemente tutto il libero comportamento spirituale presenta l'impronta della peculiarità personale, che alberga nell'intimo dell'animo. Tanto più forte ne è inoltre improntato il corpo che appunto perciò risulta 'spiritualizzato'"(49). Chi porta su di sé l'emanazione, per ciò stesso non è in grado di disporre della sua origine. "Ciò che essa è e come essa è, l'anima lo sente nel proprio interno, in quel modo oscuro e indicibile che le mostra il segreto del proprio essere come segreto, senza rivelarlo"(50).

Contrasto con l'esterno, raccoglimento verso l'interno, permanenza presso se stessa e infine fuoriuscita da se stessa: queste sono le tappe che l'anima percorre. La prima e l'ultima sono più semplici per lei: il rivolgersi verso l'interno è più faticoso. Edith Stein annota l'osservazione che l'io naturalmente al momento del raccoglimento in se stesso non incontra molte cose: esso vi può percepire soltanto mezzi formali, cioè forze e capacità di dialogo con il mondo. Se si prova ad andare più in profondità, si incontra un "vuoto e un silenzio inusuali"(51). Questo "ascoltare il battito del proprio cuore" tuttavia risulta insoddisfacente. L'anima ha bisogno di contenuto. Questo si offre come l'intero mondo, ma talora anche in un processo terribile quale "irruzione di una nuova vita più potente, superiore della vita sopranaturale, divina"(52). Perciò non è possibile cercare la "vuota solitudine" dell'interiore, la sola pace a lungo per amor della stessa. Nel vuoto è importante solo l'attesa della comparsa della pienezza. Così l'anima, proprio nel suo comportarsi da contenitore aperto, indica qualcosa che possa riempirla. Tuttavia il mondo e Dio si rapportano a questa attesa in modo del tutto diverso.

L'anima libera non è capace, oltre la propria natura, di qualche cosa che la oltrepassi. Tuttavia è già sufficiente un dovere mediocre per aprire la forza dell'anima oltre se stessa. Perché essa è infine capace di superare la propria natura e il proprio limite sia nel piccolo che nel grande? Per questo deve entrare qualcosa a cui l'anima si apra in virtù della propria libertà. Dietro alla parola dovere sta il nesso oggettuale del senso. Il fare sensato può liberare per compiere azioni che si situano al di là di ciò che può essere atteso. E' nel senso che in ultima istanza appare il logos che l'anima percepisce come un "parlare dentro". In questo caso la natura, la libertà e la grazia collaborano in modo inaudito. "Perciò l'anima, che in virtù della propria libertà si appoggia allo spirito di Dio o alla vita di grazia, è capace di un rinnovamento e di un cambiamento totale"(53). La voce interna, intensificata al massimo, diventa un richiamo d'amore. La liberazione attraverso l'amore "rende possibile ciò che naturalmente non sarebbe possibile"(54). La verità di ciò è confermata dalla conoscenza propria, e precisamente nella dialettica già indicata: "infatti, facendo con la più intima dedizione ciò che Dio chiede da lui, la vita divina diventa la sua vita interiore: egli ritrova Dio in se stesso quando si raccoglie in sé"(55).

8. L'apertura del limite umano all'uno-trino

Finora è rimasta aperta la questione dell'analogia dell'uomo con Dio. Le creature inferiori corrispondono al proprio archetipo soprattutto nella forma; tuttavia per accenni appare anche in essi la triplice partecipazione all'uno-trino: l'insieme di forma e sostanza è autonoma, è riempita di senso e forza operante(56). A un livello più profondo, questa triplice definizione vale anche per l'uomo. L'anima è autonomia, senso, forza. Secondo Sant'Agostino, che informa l'argomentazione in modo sempre più pregnante, nell'anima spirituale si mostra addirittura una triade plurima. In primo luogo, nella figura dell'amore stesso: già quando lo spirito ama se stesso, in esso l'amante, l'amato e la dinamica dell'amore sono una sola cosa. Inoltre, vale quanto segue: spirito, amore, conoscenza sono fondamentalmente tre riguardi per una sola cosa. "La parola generata dallo spirito attraverso l'amore è la conoscenza amata. Quando lo spirito ama e conosce se stesso, attraverso l'amore gli viene aggiunta la parola. L'amore è nella parola, la parola è nell'amore e ambedue sono nell'amante e nel parlante"(57). Una terza possibilità evidente consiste nel fatto che l'anima spirituale si articoli in memoria, mente e volontà, e precisamente che essa si indirizzi verso se stessa con tutte e tre le capacità. Anche prima della considerazione teologica, in ciò appare la triade dello spirito divisibile pur nella sua unitarietà.

In una blanda osservazione critica a Theodor Haeckers, Edith Stein associa l'amore non con il sentire, ma - alla stregua di Sant'Agostino - con il pensiero(58). Amore e spirito le sembrano sostanzialmente collegati: amore e volontà invece sarebbero imparentati, ma subordinatamente alla superiore unione tra amore e conoscenza. L'immagine finita scinde certamente la loro unità, quale si iscrive nell'archetipo divino. Nel fenomeno dell'amore tuttavia è possibile intuire anche nell'uomo l'originaria unione delle forze(59). In linea di massima, la trinità dell'umano si forma nel modo più chiaro quando lo spirito si rivolge all'eterno, volendolo "cogliere nella fede, mantenere nella memoria e comprendere amandolo con la volontà"(60). Con ciò non solo l'amore di sé e l'autopossesso ritrovano il loro luogo opportuno, ma anche la dedizione e l'accettazione si svolgono in reciproca beatitudine. La persona si ritrova nell'altra persona - Dio. Mentre non è possibile altrimenti, qui l'autopossesso si è trasformato nel supremo compimento dell'essere, cioè in autodedizione, mentre ha ritrovare se stesso. "(L'amore) è totalmente rivolto a Dio, ma nell'unione con l'amore divino lo spirito creato abbraccia se stesso anche nella conoscenza, nella beata e libera approvazione. La dedizione a Dio è contemporaneamente dedizione al proprio sé amato da Dio e a tutto il creato"(61).

Comunque, questa grandiosa possibilità comprende anche una tentazione: quella di sopravvalutare le proprie capacità. La conoscenza di Dio, anche nell'amore, non apre affatto l'essenza occulta di Dio. La creatura continua a intendere il creatore, malgrado tutte le corrispondenze esistenti, "sempre soltanto come il completamente diverso"(62). Perciò occorre tenere presente l'ammonimento che Dio solo trascina l'anima nella sua vita. Certamente in questo trascinare dentro avvengono cose inimmaginabili, difficilmente accessibili al pensiero - fino al punto che l'uomo cessa di essere immagine e diventa figlio di Dio. Perciò l'espressione usuale dell'anima come contenitore in questo caso non è corretta, poiché non si tratta più di un essere l'uno nell'altro in senso spaziale, che unisce meccanicamente le due grandezze. Dio e l'anima non vengono uniti come due parti. Bisogna ricorrere a immagini più intime, a una specie di concrescere perfetto: "Dio e l'anima tuttavia sono spirito e si compenetrano come solo lo spirito e lo spirito possono compenetrarsi: in virtù della reciproca libera dedizione personale, che presuppone la divisione dell'essere, ma - malgrado l'infinita distanza esistente tra il non creato e il creato - una comunità essenziale che rende possibile un vero entrare l'uno nell'altro"(63).

Questa cosa incomprensibile avviene sullo sfondo del fatto che lo spirito dell'uomo naturalmente è soggetto a misura e limitazione. Tuttavia esso dispone della misteriosa capacità di "sollevarsi oltre se stesso nella propria libertà personale e di accogliere in sé una vita superiore"(64). In questa capacità penetra lo spirito divino. Esso rompe lo spirito finito non nell'infinito, e non si lega affatto "alla dimensione di colui cui egli si dona"(65). Così non è l'uomo che diventa egli stesso divino, scomparendo nella grandezza incommensurabile, ma egli rimane se stesso, anche se in una forma inauditamente ampliata. E' addirittura possibile dire che nell'uomo, in virtù di questa apertura verso il divino, la creazione viene mediata verso l'alto. Strutture corporee, vegetali e animali, nell'uomo si uniscono nell'unità di un'essenza e contemporaneamente oscillano verso l'apertura alla vita divina(66).

Ciò che pone l'uomo al di sopra del corpo, delle piante e degli animali, è la personalità che ha a che fare con il suo carattere spirituale. Laddove il creato inferiore presenta soltanto somiglianza (San Tommaso parla addirittura soltanto di traccia), laddove esso può essere al massimo un'immagine del supremo, l'uomo diventa immagine identica. La sua personalità significa fertilità spirituale, autonomo promanare di nuove realtà dallo spirito, in massima somiglianza alla vita creativa di Dio stesso. Contemporaneamente lo spirito ama la propria figura che gli appartiene come un frutto(67). Questa generazione spirituale avviene nel modo più profondo nell'amore. La generazione di norma viene intesa in senso corporeo; invece in senso corporeo è piuttosto un'indicazione: quella dell'unione d'amore tra uomini quali persone spiritualmente determinate che si intendano non istintuali, ma libere. A differenza di quello divino, l'amore umano certamente ha bisogno di rivolgersi a un'altra persona, mentre in Dio l'altra persona e la propria sono sia divise sia unite(68).

Così l'uomo è un ritratto vivente in fragile sospensione, con la distanza che deve essere sempre tenuta presente, che non può essere panteisticamente cancellata. In una simile prossimità e a una simile distanza da Dio sono posti gli angeli. Al confronto con essi l'uomo conserva tuttavia il proprio mistero(69).

9. Il senso dell'essere dell'uomo

Senso e fondatezza dell'essere del singolo risultano ora trasparenti. Infatti ogni uomo è unico e singolo e perciò non comprensibile(70). E' possibile sentire la sua essenza, essa comunica anche verso l'esterno, attrae e respinge - come una cosa unica. "Ciò è dovuto alla costruzione formale della persona, all'unicità dell'io autoconsapevole in quanto tale, che comprende la sua indole come la sua cosa "più propria" e attribuisce a qualsiasi altro io la stessa unicità e peculiarità"(71). Quindi, quanto più la vita umana va chiarita nel suo doppio senso - materialmente formata da un lato e spirituale-personale dall'altro - tanto più l'intimo dell'anima è proprio solo di essa stessa. Ora si possono far valere le distinzioni poste. Lo spirito è proprio chiuso in se stesso e tuttavia aperto oltre se stesso, comprende un mondo e si rinnova a partire dalle sue fonti, e infine è liberamente determinato dall'io(72). Tuttavia, queste caratteristiche, di cui è stata mostrata la ricchezza, per il singolo costituiscono soltanto una chiave insufficiente. Quale vera determinazione rimane la peculiarità singolare. In termini teologici, l'anima riproduce l'immagine di Dio in un "modo del tutto personale" - ogni nome è un nome proprio, solo Dio lo rivela al ricevente(73). Nessuno conosce l'altro, e tanto meno se stesso nell'intimo e in quanto ha di più proprio. Paradossalmente la conoscenza di se stessi è l'essere conosciuti da Dio. In poche frasi tormentate Edith Stein cercò di rappresentare l'entrata di Dio nell'anima non come l'entrare di uno soltanto altro da sé in qualcosa di estraneo. Piuttosto l'anima non conosce il proprio interno perché non ritrova se stessa. Se lo facesse, vi percepirebbe la presenza di Dio insieme alla sua propria presenza. "Perciò non si può dire che Dio giunga in un luogo in cui non vi fosse stato prima. Il fatto che l'anima accolga Dio significa piuttosto che essa gli si apre e gli si dà liberamente"(74).

Questa faccia molteplicemente ricca e tuttavia una è la firma dell'uomo. La firma contiene il senso che era stato cercato: "è il senso dell'essere umano che in lui cielo e terra, Dio e creato debbano unirsi"(75).

Prof. Dr. Hanna Barbara Gerl-Falkovitz

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1. Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins. (1950) Edith Steins Werke II, a cura di L. Gelber e R. Leuven, Friburgo 1986 (da qui innanzi indicato con la sigla "EeS", 7.
2. Lettera a P. Henri Boclaars del 21.5.1941; citata da W. Herbstrith (a cura di), Edith Stein, Aus der Tiefe leben. Ausgewählte Texte zu Fragen der Zeit, Monaco 1988, 95.
3. EeS 60
4. EeS 89
5. EeS 110
6. EeS 308 seg.
7. EeS 310 seg.
8. EeS 311
9. Cfr. Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht. Edith Stein: Philosophie, Mystik, Leben, Magonza 1998, in particolare cap. IX.
10. EeS 315 segg.
11. EeS 317
12. EeS 317
13. EeS 318
14. EeS 319
15. EeS 319
16. EeS 320
17. EeS 325
18. EeS 332
19. EeS 333 seg.
20. EeS 334
21. EeS 335
22. EeS 335
23. EeS 336
24. EeS 336
25. EeS 337
26. EeS 339
27. EeS 339
28. EeS 339
29. EeS 341
30. EeS 342
31. EeS 342
32. EeS 342
33. EeS 343
34. EeS 343
35. EeS 344
36. EeS 346
37. EeS 347
38. EeS 348
39. EeS 348
40. EeS 349
41. EeS 350
42. EeS 395
43. EeS 397
44. EeS 399
45. EeS 400
46. EeS 402
47. EeS 403
48. EeS 404
49. EeS 405
50. EeS 406
51. EeS 407
52. EeS 407
53. EeS 409
54. EeS 410
55. EeS 410 seg.
56. EeS 411
57. EeS 412 seg.
58. EeS 414
59. EeS 417
60. EeS 419
61. EeS 420
62. EeS 421
63. EeS 422
64. EeS 423
65. EeS 425
66. EeS 426
67. EeS 427
68. EeS 428 seg.
69. EeS 450
70. EeS 459
71. EeS 469
72. EeS 458
73. EeS 461
74. EeS 462
75. EeS 474

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