don Franco Cagnasso: “Avrete forza dallo Spirito Santo”

Riproponiamo on-line la trascrizione delle meditazioni proposte da don Franco Cagnasso ai preti della diocesi di Roma negli esercizi spirituali del 13-17 novembre 2000. Ogni settimana sarà messa a disposizione sul nostro sito una meditazione perché possa accompagnare la preghiera personale. La trascrizione dei testi è stata curata dal Servizio diocesano di formazione permanente del clero, guidato da mons.Luciano Pascucci. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.

Il Centro culturale Gli scritti (1/7/2007)


Il breve passo che propongo alla vostra riflessione è uno di quelli che presentano il “mandato missionario” di Gesù. E’ At1,6-11 e poi 2,1-13. Il primo ha i suoi paralleli in Mt28,16-20 e Mc16,14-20. Ci sono ambientazioni diverse e anche sottolineature diverse. Scelgo Atti perché forse è il meno ricordato, anche se - a mio parere - è quello che più facilmente incontra la mentalità ecclesiale di oggi, quello di più immediata comprensione, ed è direttamente collegato con il racconto della Pentecoste (At2,1ss).

Si parte dalla domanda formulata dagli apostoli: “E’ questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Nella risposta si rimanda al Padre la questione dei “tempi e momenti” di questa ricostituzione. In questo gli Apostoli non hanno nulla da dire né da fare, il discorso è chiuso. C’è però ben altro che li aspetta, e su questo ci soffermiamo.

Gesù li manda, e che questo invio sia una cosa seria è evidente poco più avanti, quando “due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” (At 1,10-11). Gesù tornerà, ma il tempo fra oggi e questo ritorno è tempo di missione, non di attesa passiva.

La missione non è intesa, finalizzata a restaurare il Regno, ma ad altro. Gesù lo spiega brevemente unendo alla spiegazione una promessa: lo Spirito Santo scenderà e darà forza, e allora voi sarete testimoni “fino ai confini estremi della terra”. Il fulcro che propongo sta nella promessa: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi”, e lo Spirito Santo sta in strettissima relazione sia con l’essere testimoni sia con i confini del mondo.

Lo Spirito Santo - dice la Redemptoris Missio - “è il protagonista della missione”. Più volte in questi giorni siamo tornati sulla sua missione di “spiegare” parole ed eventi di Gesù per condurre alla verità tutta intera e per consolare. Qui è visto come una “forza”, forza che entra nel Cenacolo, trasforma il gruppo che è lì in preghiera, li fa uscire a parlare con franchezza, rendendo testimonianza.

“Fa uscire”. La missione che Gesù affida ai suoi è una forza dinamica. Attrae (cfr. At 2,48), e mette in movimento, non lascia fermi a guardare il cielo. Gesù non si ferma mai troppo in un villaggio perché altri attendono, così Paolo nelle sue comunità. Ci offre l’immagine del pastore che “va in cerca” dando attenzione a chi è smarrito, anche se uno solo. Mangia con i peccatori, anche scandalizzando i benpensanti, perché è venuto per salvare loro, e quindi li cerca. Manda i suoi ad annunciare e guarire, perché si moltiplichi attraverso di loro il suo annuncio e la sua opera.

E’ però un andare guidato dallo Spirito, non da strategie umane. Gli Atti sono percorsi da questa fiducia viva nella guida dello Spirito che chiude certe porte per aprirne altre, che trasforma le persecuzioni in occasioni per spargere la semente in altri posti, che illumina la comunità di Antiochia a mandare Paolo e Barnaba, che prepara Pietro a entrare nelle case dei pagani e prepara Cornelio a invitare Pietro e poi a ricevere il Battesimo...

Una cosa è certa in Atti: lo Spirito opera dentro i missionari, ma anche prima di loro. E’ prorompente, va oltre i loro progetti. Lo stesso Paolo, apostolo delle genti, capisce che questa è la sua missione, grazie alle sue difficoltà con le sinagoghe: lo Spirito lo orienta altrove. Nella Pentecoste lo Spirito Santo opera allo stesso tempo in chi parla e in chi ascolta. Sono certo che questo avviene anche oggi. Ad esempio: l’indebolirsi della chiesa in occidente ci costringe a percorrere nuove vie, nuove occasioni...

Abbiamo bisogno di una fede che abbia questa freschezza, che creda nella fantasia dello Spirito. Esso opera efficacemente nei sacramenti, ma essi non lo racchiudono e non lo esauriscono. Anzi, la loro azione deve essere come il momento forte di un’opera che noi sappiamo diffusa, costante e anche imprevedibile.

La missione come è presentata qui in Atti, consiste nell’essere testimoni. Anche questo è opera dello Spirito Santo. Troppo spesso noi confondiamo la testimonianza con il buon esempio e pretendiamo di calcolarne l’efficacia in base a criteri di efficacia umana. Sbagliamo! Chi ha un buon carattere e non s’arrabbia, non dà alcuna testimonianza, semplicemente ha un punto in più per farsi accettare come uomo e per tenere buoni rapporti.

La testimonianza si dà quando emerge che ciò che si dice, si fa e si è, lo si dice, fa ed è nel nome del Signore e con la forza dello Spirito. Gli apostoli credono grazie allo Spirito Santo e parlano con franchezza - loro che sono ignoranti - con la stessa forza, per questo le loro parole non sono un’opinione, ma un atto di fede che testimonia. Pietro e Giovanni dicono allo storpio: “Nel nome di Gesù, cammina”, per questo testimoniano attraverso quella guarigione. Stefano parla e poi perdona nel nome di Gesù e con la forza dello Spirito Santo, per questo la sua morte è testimonianza come la morte in croce di Gesù.

Paradossalmente, là dove ci sono più difficoltà e più fragilità - e quindi una minore efficacia o una totale inefficacia umana - la testimonianza è più forte e limpida, perché emerge con chiarezza che lì opera lo Spirito, che ciò che si fa è solo nel nome di Gesù. Pensate alla riscoperta dei martiri nel nostro tempo.

Dunque, credere nello Spirito che guida e precede, testimoniare senza preoccuparsi dei risultati, ma piuttosto della “qualità evangelica”, del nostro essere, parlare, operare. I risultati della testimonianza non si calcolano e non si prevedono. I martiri sono sì “seme di cristiani”, ma quando, dove e come spesso non si può dire né prevedere. Gesù in Atti cap. 1 sembra dire: non preoccuparti di questo, tu sii testimone.

Preòccupati piuttosto di giungere “ai confini della terra”. Nei primi anni era chiaro che si trattava di dare segni, testimonianza fino ai confini, non di conquistare tutti. I confini poi hanno un significato ampio: l’orlo estremo del grande disco che è la terra, ma anche il luogo dell’esilio (salmo 61,3: dai confini della terra io t’invoco), i luoghi della diaspora ebraica e pure Roma, capitale dell’impero e quindi del paganesimo, dove Paolo giunge proprio offrendo un segno di quella diffusione della Parola.

Io credo poi che questa espressione vada ulteriormente approfondita ed estesa, specie oggi, quando si fa il giro del mondo in poche ore. “Confine dell’umano” si potrebbe dire, là dove il nostro essere uomini perde le sue connotazioni fondamentali, non può esprimersi né crescere, pone interrogativi radicali, là dove non giunge alcun segno di salvezza intesa nel suo significato più ampio, e dove Dio sembra del tutto assente, muto, distorto, sostituito dal demonio muto, dagli idoli, dal vuoto, dal divisore che genera odio, dal menzognero che lo scimmiotta, dandogli un volto demoniaco oppressivo: luoghi di sofferenza di alienazione, di totale insofferenza, di schiavitù a forme religiose oppressive e idolatre... Sono confini esterni ma anche interiori: le profondità insondabili della follia, della solitudine, della disperazione.

Lì dobbiamo essere testimoni, e lo stesso andare lì nel nome del Signore è testimonianza. Andare come seminatori, proponendo a tutti, sapendo che ovunque c’è qualcuno che il Signore ha chiamato. “Paolo è apostolo per chiamare alla fede gli eletti” (così inizia la lettera a Tito) e Atti 2,39 dice: “Per voi è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro”. Quanti sono? Dove sono? Tanti, ovunque, ma lo sapremo dopo: ora è tempo di andare, cercare, seminare, testimoniando l’annuncio.

Tutto ciò dovrebbe essere l’orizzonte della nostra missione. I confini del mondo, e quindi “le genti” sono il contesto in cui immergerci, se vogliamo dare alla nostra fede e al nostro ministero l’ampiezza di respiro che devono avere, e tutta la prospettiva di mistero e gratuità che merita. Se vogliamo operare nello Spirito; spesso invece ho l’impressione che siamo troppo presi dai nostri programmi e dalle nostre preoccupazioni (anche giuste) per accorgerci di ciò che lo Spirito opera.

Avere per orizzonti i confini del mondo ci fa meglio percepire che la chiesa è immersa in una realtà più ampia. Non c’è la chiesa e poi, là fuori, il mondo. C’è il mondo in cui, fra tante altre comunità e religioni, vive e opera la chiesa. Questo orizzonte conferisce alla nostra fede la giusta percezione della sua originalità, il senso di una missione come popolo fra i popoli, lo stupore di sapersi scelti e privilegiati senza merito e per servire.

Aprendo le finestre si vedono errori, ingiustizie, idolatrie, ma si scoprono anche Giobbe, Naaman, la Cananea, il Centurione. Ci si accorge che Dio si preoccupa di quella Ninive che a me è antipatica, che vorrei distruggere. Perché lo stesso Spirito che opera in me, è all’opera ovunque. Non è un altro, non ha altri piani. Opera mandato da Cristo e per ricondurre tutto a Cristo in tempi e modi che non sta a noi conoscere. Noi possiamo e dobbiamo cercare, scoprire, obbedire (Pietro battezza Cornelio quasi controvoglia!), lodare Dio.

La chiesa è missione e fa molto per obbedire al mandato di Gesù, ma si pensa ancora poco come missione ampia, totale. Verso i confini del mondo siamo ancora poco attenti, li consideriamo poco più di un’appendice, un luogo dove lo Spirito opera e ci chiama.

Tuttavia non è nei termini di ripartizioni matematiche o di affannoso senso del dovere che dobbiamo impostare il discorso, bensì in quelli di una più gioiosa e serena fiducia nell’opera di Dio.

La nostra responsabilità non è quella di convertire tutti, è quella di liberare il messaggio, di riproporlo continuamente come giudizio e insieme come misericordia che risana e dà vita; è quella di non soffocare lo Spirito effuso dopo l’avvenimento della Pasqua, di seminare a piene mani perché i frutti possano venire da tutti i terreni, anche quelli finora mai coltivati.

E, seminando, accorgerci che Dio era già là, contemplarlo in ciò che ha già compiuto, scoprirlo sempre oltre, sempre più grande, sempre più imprevedibile delle nostre attese e dei nostri schemi.
Le genti, se sappiamo vederle, ci interpellano in tanti modi:

  • con le loro domande sulla vitalità della nostra fede, sul significato dei nostri riti e delle nostre parole, sull'autenticità della nostra carità;
  • con il loro stesso esistere come miriadi di esseri umani a cui Cristo non è stato annunciato - perché? - con la loro muta domanda sul mistero della chiamata divina all’incontro con Cristo;
  • con le loro fedi spesso autentiche, impegnate, profonde, che ci fanno arrossire della superficialità con cui ci poniamo di fronte al mistero di Dio e dell’uomo; e che possono, se vogliamo, farci scoprire sempre meglio quella Verità che in Cristo già ci è data come vita;
  • con le molte deformazioni della religiosità: fanatismi, magie, orgoglio di salvarsi, strumentalizzazioni di Dio e della religione. Deformazioni che chiedono liberazione e allo stesso tempo ci invitano a vedere in noi stessi e nelle nostre chiese i rischi (e non solo i rischi) di essere allo stesso modo, riducendo Cristo Salvatore ad un idolo.

Concepire così la missione vuol dire anche riscoprire in termini più intensi, più ampi, più vibranti il senso di coloro che celebrano l’Eucaristia. L’offerta del sacrificio che è unico e non ha confini di nazioni, razze, lingue deve essere per il presbitero il punto di forza della sua missionarietà in mezzo alle genti.

Offrire il sacrificio con la comunità è il compito che può e deve compiere a nome di tutti, in una chiesa sontuosa e con una liturgia ben curata, come in un carcere della Cina o in un villaggio polveroso del Sahel. E’ di lì che parte la missione ed è lì che essa arriva, sempre: non può esserci una “messa missionaria”, distinta da una messa che resti una faccenda fra noi e per noi credenti.

L’Eucaristia deve essere ciò che nutre e ciò che raccoglie la nostra spiritualità di preti per il mondo. Un segno di vita, di riconciliazione, di speranza posto consapevolmente e gioiosamente in mezzo ai mille segni contraddittori della storia; un’offerta di ogni cosa buona, perché certo viene da Dio, anche se non è nostra; un flusso di misericordia che scende sul nostro piccolo gregge sì, ma per inondare il mondo.

Anche il sacramento della riconciliazione è missionario, è per il mondo. Questo perdono che scende su di me quando io mi confesso è un perdono che deve ridondare sugli altri. Dio non perdona me perché sono più bello, ma come segno della sua misericordia su tutti e io devo viverlo come qualcosa che accolgo perché sugli altri scenda la sua misericordia, perché anche gli altri la capiscano.

Credo che questi confini del mondo che sono i confini dell’umanità debbano farci credere che la missione è molto stare accanto al mistero della sofferenza. La RM dice che la missione conduce ai piedi della croce. Noi celebriamo il nostro Profeta scomunicato e ucciso fuori delle mura della città, nudo, impotente e solo davanti agli uomini e davanti a Dio.

E’ il mistero dei confini dell’umanità, Gesù ha raggiunto i confini dell’umano. Che confine di disumanizzazione è la sua morte da scomunicato sulla croce! E questa è la più radicale, concreta proposta di comunione che Dio potesse fare agli uomini. Sulla croce Gesù non ha più nessuna divisa ed è rifiutato dal suo sistema politico, dalla sua cultura, dal suo sistema religioso. Resta muto nella sofferenza e così ci mostra che Dio si mette a disposizione di ogni uomo, senza chiedergli nessun passaporto per lasciarsi incontrare. Incontrare l’uomo nella sofferenza significa incontrarlo nella sua maggiore verità, nella sua nudità.

Cristo crocifisso è “spettacolo” per le genti, che se ne stupiscono, si scandalizzano, lo rifiutano - così come anche noi, quando lo incontriamo nella concretezza della nostra esperienza umana, continuamente siamo tentati di stupirci, scandalizzarci e rifiutarlo. Noi che lo celebriamo ogni giorno non possiamo ignorare che egli è oggi in milioni di crocifissi, non possiamo rivestirlo e renderlo immaginetta devota di una religione fra le altre. Dobbiamo avere alta e insieme profonda in noi, direi scolpita a fuoco nella nostra fede la persuasione che egli spalanca le braccia per tutti, non è di nessuno perché deve attirare tutti a sé, che davanti a lui dobbiamo batterci il petto e proclamare - come il centurione - “Veramente quest’uomo è figlio di Dio!” ( Mc 15,39).

Noi accogliamo la croce, non la possediamo. Cristo sul Calvario, fuori della città, è là per dire a tutti che è per tutti e noi siamo quelli che seguono la croce, quelli che ci credono. Ma siamo anche quelli che dobbiamo dire: la croce è anche per te; non è soltanto per me che ci credo!

Il crocifisso è il segno del nostro essere cristiani, ma guai se diventasse discriminazione, demarcazione preconcetta; al contrario, è accoglienza fino all’ultimo respiro, è occasione di salvezza aperta a tutti, al centurione che guida il manipolo dei crocifissori come al ladro crocifisso, che sperimenta l’amarezza del dolore e della morte per le sue colpe.

Le genti hanno diritto di incontrare dei presbiteri che siano là sul Golgota, ai piedi della Croce, con Maria e Giovanni - non chiusi nelle stanze del tempio; hanno diritto a incontrarci fuori del Cenacolo, non radunati per paura fra le sue mura.

Chiedo al Signore di farci così ogni giorno, e sempre di più. E’ veramente il dono più grande che sempre possiamo avere noi, è il dono di una profonda libertà interiore che Dio ci fa, di una profonda fiducia, di una profonda serenità. E, nello stesso tempo, è il dono più grande che possiamo fare agli altri di noi stessi e della vocazione che abbiamo.

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