v. 1
Chi non entra nel recinto passando per la porta, questi è un ladro e un bandito. Il recinto delle pecore allude al popolo di Dio, secondo la simbologia utilizzata dal profeta Ezechiele (cfr. cap. 34). Precedentemente c'era stato già un riferimento al popolo come gregge di Dio, e precisamente al capitolo 5, nella piscina di Betesdà, presso la porta delle pecore, dove il popolo oppresso giaceva ai bordi della piscina. Cristo vi si reca nel suo secondo pellegrinaggio a Gerusalemme. Lì Egli si cala tacitamente nel suo ruolo di Pastore che guarisce le pecore malate del suo gregge. La sua autorivelazione come buon Pastore si ha però ufficialmente solo successivamente alla guarigione del cieco nato. I destinatari sono gli stessi dirigenti giudei che sono stati suoi interlocutori per la questione del cieco guarito, ma più in generale è la folla che ascolta le dichiarazioni pubbliche del Maestro. L'accusa di essere ladri e briganti è però diretta alla classe dirigente, che non comprende chiaramente l'allusione di Gesù (cfr. v. 6), tuttavia reagisce in maniera scomposta alle sue dichiarazioni, dividendosi in diverse fazioni (cfr. vv. 19-21). L'allegoria prende le mosse da un'affermazione di principio: se uno non entra dalla porta del recinto, ma scavalca da un'altra parte, non può essere che un ladro. Il ladro si avvicina alle pecore solo per conseguire un beneficio personale. Questa è infatti l'accusa soggiacente all'allegoria: i pastori di Israele si sono sostituiti al Pastore e hanno posto il gregge al proprio servizio, invece di porsi essi stessi al suo servizio, secondo la volontà di Dio già rivelata loro mediante i profeti. Essi sono definiti indirettamente, mediante l'allegoria, "ladri" e "briganti"; si tratta di due termini utilizzati rispettivamente per Giuda e per Barabba. Il peccato della classe dirigente si specifica perciò come un peccato di rapina e di violenza. Infatti, la loro rapina consiste nell'avere usurpato la gloria di Dio ed essersi appropriati dei suoi diritti, che il Figlio viene appunto a reclamare. La loro violenza si manifesterà più tardi, quando decideranno di eliminare Cristo, condannandolo a morte.
vv. 2-3
L'unico che entra per la porta è il pastore legittimo, che pone se stesso al servizio del gregge e ne garantisce l'incolumità mettendo a repentaglio anche la propria vita. L'allegoria del pastore, con la quale Cristo definisce se stesso, è ricca di diversi spunti che toccano degli aspetti particolari del discepolato. La prima caratteristica notevole è costituita da un duplice riconoscimento, quello del guardiano e quello della voce: "Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce". Il riconoscimento del guardiano è un termine di contrasto con il rifiuto dei giudei, guardiani del recinto, cioè del Tempio, i quali si arrogano il diritto di sbarrare la strada a Cristo, l'unico che può entrarvi senza chiedere nulla, in piena legittimità, essendo il padrone di casa. La figura del guardiano, che riconosce il vero Pastore, richiama, perciò, anche i custodi di quello che sarà il nuovo Tempio, cioè la Chiesa: gli Apostoli e i loro successori. Il nuovo recinto delle pecore avrà anch'esso necessariamente i suoi custodi, che apriranno l'accesso del Pastore verso il gregge. Il ruolo dei pastori della Chiesa è infatti cruciale: come è accaduto alla classe dirigente giudaica, potrebbe accadere anche alla classe sacerdotale; Cristo può essere estromesso dal suo gregge, proprio da coloro che tengono il posto di vicari suoi. Più precisamente: il ministro di Dio che non vive bene la propria missione, allontana il gregge da Cristo, e in questo senso gli ostruisce la via, invece di aprirgliela. Cristo, buon Pastore, vuole guardiani del recinto che gli aprano la via, preparando le coscienze alla sua venuta. Il secondo riconoscimento è quello della "voce" del Pastore. Questo significa che il gregge non può riconoscere Cristo, suo Pastore, sulla base delle sue fattezze. Del resto, anche il vangelo di Luca, nell'episodio dei discepoli di Emmaus (cfr. cap. 24,13-35), descrive un riconoscimento del Risorto non in base alle sue fattezze; anzi, le fattezze sono quelle di uno sconosciuto. Il Vangelo di Marco, più sinteticamente dice: "Dopo ciò apparve a due di loro sotto altro aspetto" (Mc 16,12). La caratteristica del Cristo che vive nella Chiesa è appunto quella di presentarsi al suo popolo sotto altro aspetto. I segni sacramentali sono infatti l'altro aspetto, a cui precisamente l'evangelista Marco si riferisce. Se non è possibile riconoscere il Cristo risorto, presente nella Chiesa mediante il suo Spirito, in forza delle sue fattezze visibili, rimane solo la possibilità di riconoscerlo al suono della sua voce. Vale a dire: la predicazione apostolica, che risuona nella Chiesa, è la voce del Pastore che nutre le pecore e le guida sui sentieri del Regno. I veri discepoli di Gesù, sentono nella voce della Chiesa, la voce del loro Pastore, e lo riconoscono presente in essa. La Parola di Dio, per i discepoli di Gesù, non è la comunicazione informativa del pensiero di Dio; è invece la presenza personale del loro Signore, che in essa effonde l'efficacia del suo Spirito sui credenti. La figura della vera discepola sarà rappresentata da Maria Maddalena dinanzi al sepolcro vuoto: essa riconoscerà il Maestro ritornato dai morti, quando Egli pronuncerà il suo nome; lo riconoscerà, cioè, al suono della sua voce, che come un pastore chiama le sue pecore per nome. Dire che il Cristo Pastore chiama le sue pecore per nome, equivale ad affermare un rapporto personale di intimità e di conoscenza che unisce il discepolo al Maestro, come in un amore sponsale. Quelli che ascoltano la sua voce, sono suoi, appartengono alla verità: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce" (19,37).Va notato che, dopo averle chiamate per nome, Egli le conduce fuori. Il "condurre fuori" allude chiaramente alla destinazione escatologica dell'esodo da Lui proposto. Coloro che, dopo essere stati chiamati da Cristo, aderiscono a Lui nella fede, sono condotti fuori dal recinto del Tempio. Il suo gregge non è destinato a rimanere nelle strutture religiose di questo mondo: né il Tempio di Gerusalemme, né i confini visibili della Chiesa. La Chiesa terrestre, infatti, non è il Regno di Dio, non è la meta del pellegrinaggio dei battezzati; essa è il punto di partenza per un pellegrinaggio che ha come meta la Chiesa celeste, dimora dei santi.
vv. 4-6
Il Cristo Pastore realizza il nuovo esodo, compiendo due particolari gesti verso il gregge: "Quando ha condotto fuori... cammina innanzi" (v. 4). Prima lo spinge, poi gli cammina davanti. Questa simbologia descrive le due forze propulsive del cammino di santità, quella che si aggiunge alle risorse come una energia divina di movimento e quella che l'uomo ci mette di suo, in una libera opzione del modello umano di Gesù. Queste due forze sono chiaramente operanti nel processo di guarigione del cieco nato, e questa allegoria di Gesù non fa che chiarire ulteriormente che cosa è effettivamente accaduto a quell'uomo. Mettendo del fango sui suoi occhi, il Messia gli ha dato un impulso divino, richiamando il gesto creatore dell'origine; ha aggiunto cioè una energia di guarigione che il cieco nato non aveva in se stesso. In questo senso il Pastore sospinge il gregge fuori dal recinto. Del resto, la piscina di Siloe si trova appunto "fuori" delle mura di Gerusalemme. Però, nel momento in cui il gregge è liberato dal recinto, cioè è affrancato da tutte le forze di schiavitù che operano nell'aldiqua, Cristo chiede a ciascuno un'adesione libera ed esplicita al suo modello umano. Egli infatti cammina davanti al gregge; vale a dire: indica la via percorrendola Lui stesso. O ancora più chiaramente: Cristo indica la via da percorrere personificandola visibilmente nella propria umanità. Da qui uno dei titoli cristologici giovannei: "Io sono la via" (14,6). Il cieco nato decide liberamente di percorrere questa via, quando ubbidisce alla Parola di Cristo, accettando come valido il suo modello umano. La verità del modello umano di Gesù, egli difenderà dinanzi ai farisei che lo interrogano, e pagherà di persona la sua fedeltà a quella verità che la sua coscienza ha scoperto e che la classe dirigente vorrebbe soffocare nella menzogna. E in questo senso il Pastore cammina avanti. Non costringe nessuno a seguirlo; ma chi lo segue lo fa liberamente, perché ha gustato la meraviglia delle opere di Dio. L'uscita dal recinto è significata anche dall'espulsione dalla sinagoga dell'uomo guarito. Lasciandosi dietro le spalle le istituzini giudaiche, ormai in procinto di crollare su se stesse, egli si avvia verso Cristo, nuovo Tempio, per offrire al Padre un culto nuovo. L'esodo del discepolato cristiano è già rappresentato, nelle sue linee essenziali, nella vicenda del cieco nato. Cristo ne riprende poi il concetto nell'allegoria del buon Pastore.
vv. 7-9
Il v. 7 compie una variazione sulla simbologia della porta. Precedentemente la porta era l'ingresso del Pastore nel recinto delle pecore; adesso diventa un titolo cristologico: "Io sono la porta". Cristo è la porta permanente della custodia del gregge, dopo che la porta, da cui il gregge è uscito verso l'esodo cristiano, è rimasta dietro le loro spalle, nel lontano passato. Il nuovo ovile ha anch'esso una porta, costituita appunto dalla persona di Gesù. Attraverso questa porta, unico accesso legittimo al gregge, dovranno passare non solo le pecore liberate dal potere delle tenebre, ma anche i custodi del nuovo ovile, cioè gli Apostoli e i loro successori. Da questo momento in poi, entrare nell'ovile senza passare attraverso il modello umano di Gesù, sarà lo stesso che un ladrocinio. Fuori di metafora: Il ministero sacerdotale, qualora fosse assunto per altri scopi, che non siano quelli ispirati dalla carità pastorale, entrerebbe nell'ovile, ma non per la porta rappresentata da Cristo stesso. Sarebbe perciò un ingresso illegittimo. In maniera analoga, la stessa metafora conserva lo stesso valore e lo stesso significato anche per le singole pecore del gregge. Non si può entrare a far parte del gregge di Cristo, se non si è disposti a portare la sua immagine nello stile della vita quotidiana. Assumere come valido per sé il modello di Cristo, equivale in sostanza a entrare nel gregge passando attraverso di Lui come per una porta. Senza questo presupposto, l'ingresso nel gregge di Cristo è illegittimo e la permanenza in esso, una stonatura.L'ingresso legittimo nel gregge del nuovo ovile, passando attraverso la porta che è Cristo produce degli effetti così definiti allegoricamente con tre passaggi: "sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo" (v. 9). Il primo passaggio, "sarà salvo", allude al fatto che Cristo è la porta aperta sulla vita definitiva e rappresenta perciò il suo unico accesso per coloro i quali desiderano entrare nella vita. Assumere il suo modello equivale a vincere la morte (cfr. 8,51). Il secondo passaggio è "entrerà e uscirà". Due verbi che definiscono in modo efficace, sebbene lapidariamente, la manifestazione della libertà cristiana. Entrerà e uscirà è un'espressione polare che si riferisce, mediante l'idea della totale libertà di movimento, alla nuova dignità della persona riscattata dal Sangue di Cristo e perciò dotata di una libertà sovrana, che è propria dei figli di Dio. Anche il cieco nato, toccato dall'unzione messianica e inserito nel gregge del nuovo ovile mediante la professione di fede, una volta recuperata la vista - una duplice vista, come si è già osservato - va e viene liberamente, senza che alcuno lo guidi, entra ed esce come un uomo libero da qualsiasi genere di oppressione. Perfino la menzogna e l'abuso del potere non possono diminuire né intaccare la sua libertà. Le pecore che Cristo guida verso il nuovo esodo, godono di una sovranità che rende libere di muoversi, perché i poteri che le opprimevano, prima di uscire dal vecchio recinto, sono caduti in frantumi ai piedi della croce. Infine il terzo passaggio: "troverà pascolo"; si tratta di un'espressione che allude alla definitiva sazietà prodotta dal cibo offerto dal Cristo Pastore. Già con la moltiplicazione dei pani e col discorso nella sinagoga di Cafarnao questo concetto era già stato affermato: sul mondo tutti mangiano a sazietà e ne avanza, segno della sovrabbondanza del dono messianico; dopo, a Cafarnao, il Maestro afferma esplicitamente: "chi viene a Me non avrà più fame e chi crede in Me non avrà più sete" (6,35). Anche alla samaritana, Cristo aveva fatto una promessa simile (cfr. 4,13-14). Il gregge sarà insomma nutrito con cibi ottimi e sani, cibi perfettamente proporzionati ai bisogni del gregge, senza alcuna paura che possano mai diminuire o esaurirsi. L'evangelista utilizza qui anche un gioco di parole: il termine "pascolo" in greco è nomè, che suona simile alla parola nomos, cioè legge, nella fattispecie la legge mosaica. Il pascolo è stato insomma sostituito: non è più la legge di Mosè la sorgente della conoscenza della volontà di Dio, ma è il Cristo Pastore, che guida il suo gregge non verso la Legge (nomos) ma verso i pascoli della verità (nomè). Lì il vero Pastore comunica la vita definitiva: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (v. 10).
vv. 11-13
Ancora un altro titolo cristologico: "Io sono il buon pastore". L'espressione greca utilizzata dall'evangelista (egò eimi o poimen o kalos) si potrebbe tradurre anche: "Io sono il modello del pastore". L'aggettivo "o kalos", insieme ai due articoli determinativi (o poimen o kalos; lett.: il pastore il buono), suggerisce un'idea di esclusività: Cristo non è "un" pastore che si aggiunge alla serie precedente; Egli è invece "il" pastore per eccellenza, il vero pastore, in contrasto con tutti gli altri venuti prima di Lui, i quali, se non corrispondono al suo modello, sono ladri e briganti. La caratteristica che distingue il modello del vero pastore è la disponibilità a dare la vita per il gregge, a differenza dei mercenari che perseguono i loro interessi e scappano per mettersi al sicuro quando arriva il lupo. Nella promessa di Cristo, la vita che Egli dà in abbondanza coincide con il dono di se stesso. Dopo avere detto: "Sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (v. 10), il Maestro aggiunge: "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (v. 11). Sembra che ci sia un diretto parallelismo tra la vita che Cristo offre, consegnandosi alla morte di croce, e la vita che il gregge deve ricevere da Lui. La vita che Lui offre è la stessa che il gregge riceve. La vita, che solleva i credenti a dignità di figli liberi, è la stessa vita del Figlio, comunicata a noi per i meriti della Passione. Lo stesso concetto sarà riaffermato in 12,24 con la metafora del chicco di grano: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore, porta molto frutto".
vv. 14-16
Ritorna qui il titolo cristologico precedente: Cristo, modello del vero pastore; questa figura è presentata qui sotto l'aspetto specifico della qualità della relazione che lo unisce ai suoi discepoli. Tale relazione è modellata sul mistero trinitario: "conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono Me, come il Padre conosce Me e Io conosco il Padre" (vv. 14-15). Questa definizione della relazione diretta e personale che unisce i discepoli a Cristo, non menziona in modo esplicito lo Spirito Santo. Nondimeno è una definizione squisitamente trinitaria. Si tratta di una omissione solo apparente. La presenza dello Spirito è infatti il presupposto necessario di ogni relazione tra il Padre e il Figlio. La reciproca conoscenza del Padre e del Figlio non avviene se non nello Spirito. Cristo aggiunge che la reciproca conoscenza tra Lui e il suo gregge, corrisponde allo stesso schematismo, indicato secondo un rapporto di analogia: "come (in maniera analoga) il Padre conosce Me". Di conseguenza, il divino dinamismo della reciproca conoscenza del Padre e del Figlio, diventa il modello delle relazioni che nascono sulla radice del discepolato. L'incontro del credente col Cristo risorto e l'unione personale con Lui nell'amore, traggono origine dall'azione dello Spirito Santo. La medesima azione dello Spirito crea la comunione fraterna nella comunità di Gesù e unisce i fratelli non con un legame estrinseco, ma con l'intesa profonda che nasce dalla condivisione di una sola fede. La comunità di Gesù non si ferma però ai confini di Israele. Vi sono anche altre pecore, che pur appartenendo a un altro ovile, devono essere condotte dal vero Pastore verso il nuovo ovile, che unificherà l'umanità in un solo gregge sotto un solo Pastore. Il privilegio del popolo eletto era quindi soltanto un'ombra delle cose future: la vera elezione è quella che si realizza in Gesù. Tutta l'umanità è chiamata da Dio a compiere il suo esodo di liberazione verso la luce, ma solo quelli che ascolteranno la voce del Pastore potranno realizzare in sé il carattere dell'elezione, prefigurato in Israele, ma offerto, nella sua verità escatologica, a tutti gli uomini.
vv. 17-21
L'enunciato del v. 17 ha delle profonde risonanze per la vita cristiana: "Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo". Il Padre ama proprio per questo il Gesù storico: "Per questo il Padre mi ama". Va infatti distinto l'amore che il Padre ha verso il suo Verbo nell'eternità da quello che il Padre ha verso il Verbo fatto uomo, cioè verso il Gesù storico. Nell'eternità essi sono uniti da un amore ineffabile, fuori dalla nostra portata di comprensione, che si personifica nello Spirito Santo. Il Cristo storico è invece oggetto di quell'amore che il Padre avrebbe avuto verso l'uomo, se il peccato non ne avesse deformato l'immagine e la somiglianza. Questo è il senso dell'enunciato riportato dai sinottici sia nel battesimo che nella trasfigurazione: "Questo è il mio Figlio prediletto". Cristo è il Figlio infinitamente amato, in quanto reca in sé l'immagine fedele dell'uomo uscito dalle mani di Dio nel sesto giorno della creazione; anzi, la migliora rispetto alla perfezione di Adamo, essendo Figlio di Dio, oltre che Figlio dell'uomo. Il Padre guarda perciò al Cristo storico come al prototipo dell'uomo, icona fedele dell'immagine divina, capace di incarnare con perfezione le esigenze dell'amore. Nella concretezza della vita, e del suo ministero pubblico, Cristo incarna le esigenze dell'amore fino al vertice del dono di Sé. Per questo il Padre pone le sue compiacenze sull'Uomo che corrisponde perfettamente al progetto divino: "Per questo il Padre mi ama". Da questo momento in poi, anche i suoi discepoli si caleranno nello stesso modello umano, per entrare nella compiacenza del Padre, amando fino al vertice del dono di sé. Nel modello di Gesù, l'esperienza della pienezza della vita non si ha nell'accumulo di ciò che si desidera, bensì nella consegna della propria vita. La traduzione italiana riporta la seguente espressione: "Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo" (v. 17). Si potrebbe anche tradurre: "Io offro la mia vita e così la riprendo di nuovo", esprimendo con maggiore chiarezza il collegamento tra l'offerta e il recupero: la propria vita si ritrova in pienezza proprio per il fatto di averla offerta. Questo principio rappresenta un modello di riferimento per ogni cristiano: perdere la vita per amore di Cristo equivale a ritrovarla in senso pieno e definitivo. Anzi, la realizzazione della propria identità di figli di Dio consiste in una vita vissuta nell'amore oblativo. Questo atto di autodonazione della propria vita è libero: "Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, perché il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo" (v. 18). La verità della Passione di Cristo non consiste nella prevalenza delle forze del male, ma nella libera autodonazione del Figlio che ubbidisce al Padre: "Questo comando ho ricevuto dal Padre mio" (v. 18). I discepoli ricevono da Cristo la stessa energia di risposta al Padre e la stessa sovranità, per la quale, ogni cristiano che muore sa che nessuno gli sta togliendo la vita, ma è lui che liberamente la sta offrendo, in un atto di ubbidienza al Padre che glielo chiede, nelle circostanze specifiche, e diverse per ciascuno, che determinano la cessazione della vita biologica. Questo modo di morire è perfezione d'amore. La descrizione del Cristo risorto, nel vangelo di Giovanni, ha un particolare degno di nota: nel Corpo glorioso del Risorto sono ancora visibili le piaghe aperte della sua Passione. La visibilità delle piaghe in contraddizione col Corpo glorificato, stabilisce uno stretto collegamento tra la morte e la risurrezione, dove la seconda è effetto diretto della prima. Quel Gesù che appare ai discepoli rivestito di maestà è lo stesso che è stato umiliato. La continuità del mistero pasquale, cioè il nesso indissolubile tra la morte e la risurrezione, è sottolineato da quelle piaghe ben visibili sul Corpo del Cristo risorto. Questa vita piena e gloriosa, che ora risplende in Lui, è la diretta conseguenza della libera autodonazione con la quale ha offerto Se stesso, manifestando quale sia l'amore più alto che si possa immaginare, quello del sacrificio non di qualcosa di personale, ma di se stesso. Nell'ultima cena questo amore perfetto sarà visualizzato dal Maestro, sotto gli occhi attoniti dei discepoli, nel gesto della lavanda dei piedi. In quel contesto sarà svelato il comandamento nuovo, che contraddistinguerà d'ora in poi la comunità di Gesù: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli" (13,35). Il comandamento d'amore che Egli riceve dal Padre, lo trasmette a sua volta ai suoi discepoli.Dinanzi all'insegnamento di Gesù, e alle sue dichiarazioni aperte, continua l'ostilità dei farisei e della classe dirigente in generale, sebbene le opinioni tendano a diversificarsi nei confronti del Maestro: le accuse contro di Lui vanno dalla pazzia al satanismo, anche se in molti rimane il dubbio che Satana sia effettivamente in grado di compere dei prodigi che portano chiaramente il marchio della mano del Creatore, come la guarigione del cieco nato.
don Enzo Cuffaro
http://www.cristomaestro.it
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