Tra le solennità dell'anno ecclesiastico nessuna forse è così lontana dalla coscienza moderna come la festa dell'ascensione di Cristo; essa sembra essere troppo legata ad una visione mitica del mondo, che da tempo non riusciamo più a condividere. Così, oggi, anche per molti cattolici si impone la domanda formulata 25 anni fa da Bultmann, nel suo saggio divenuto celebre Nuovo Testamento e mitologia: «Che senso possono avere oggi professioni di fede come queste: `discese agli inferi' o `asceso al cielo', se chi le emette non condivide la mitica visione d'un mondo articolato in tre piani, visione che sta alla base di quelle formulazioni»? Siamo convinti che il celebre esegeta semplifichi un po' le cose quando, poco più avanti, continua dicendo: «Nessun uomo adulto si rappresenta Dio come una entità esistente lassù in cielo; per noi non c'è più un `cielo' nel senso che s'intendeva un tempo. E altrettanto si dica dell'inferno, il mitico averno sito al di sotto del suolo su cui poggiamo i piedi. Con ciò sono liquidati i racconti dell'ascensione e della discesa di Cristo negli inferi...». Ma dove sta qui propriamente la semplificazione? E qual è il contenuto stabile della nostra professione di fede nell'ascensione al cielo del Signore, in un'epoca nella quale è per sempre scomparsa l'immagine di un cielo locale, al di sopra delle nubi? Se vogliamo una risposta che sia più di un arbitrio razionale, possiamo trovarla soltanto nel profondo ascolto della Scrittura. Essendo essa il «documento» (Ur-kunde) della nostra fede, va esaminata per sapere a che cosa realmente si vuole alludere con quell'avvenimento che il linguaggio della liturgia chiama «ascesa del Signore», «elevazione del Signore», e che noi abitualmente diciamo «ascensione di Cristo al cielo». Ora, un primo dato di fatto appare già da quanto abbiamo appena ora affermato: la liturgia e la Bibbia usano solo marginalmente il termine «ascensione al cielo», termine nel quale il linguaggio del popolo ha voluto esprimere un dato che, fin dall'inizio, era ritenuto di una complessità e di una profondità maggiori di quelle che questo termine da solo riusciva a puntualizzare. Con i suoi termini «ascesa» ed «elevazione», la liturgia si ricollega soprat-tutto al linguaggio del vangelo di Giovanni, il quale ha descritto l'evento della festa odierna con questo concetto e lo ha interpretato nella maniera più profonda. A questo dovremo ritornare ripetutamente. Per intanto, dev'essere per noi importante il rilevare che il senso dell'«ascensione al cielo» non va dedotto da un unico testo, neppure da un unico libro del Nuovo Testamento, ma può esser trovato unicamente nell'attento ascolto di tutta la Bibbia. Siccome si tratta di un dato veramente poco intuitivo per la nostra rappre-sentazione, non può essere espresso in un'unica formula, ma può essere affrontato solo partendo da angolature diverse e venir così dischiuso alla nostra comprensione. Dobbiamo risalire addirittura oltre il Nuovo Testamento. Ci accorgeremo allora che il termine «elevare» è di origine veterotestamentaria e viene riferito all'insediamento nella regalità. Ci troviamo così immediatamente già di fronte ad una prima risposta alla nostra domanda sul senso della «ascensione al cielo»: come festa dell'elevazione di Cristo, essa significa l'insediamento dell'uomo crocifisso Gesù nella regalità di Dio sul mondo. Negli Atti degli apostoli, dai quali è tolta la lettura della messa odierna, tutto sembra essere spiegato in maniera trasparente ed evidentissima. Ma se si osserva più attentamente, appare chiaro che anche qui le cose possiedono una profondità molto maggiore di quella che rivela un primo sguardo. Il processo dell'«ascensione al cielo» è presentato in forma passiva: egli fu «elevato in alto» si dice prima (v. 9), «fu assunto» si afferma un po' più sotto. L'evento è descritto quindi come un'azione della potenza di Dio, che fa entrare Gesù nello spazio della prossimità divina, non come un viaggio verso l'alto. L'immagine della nuvola, che sembra avallare quest'interpretazione, è in verità un'antichissima immagine della teo-logia culturale veterotestamentaria: segno della segretezza di Dio, il quale proprio nella sua segretezza è il vicino ed il potente che è sempre sopra di noi e, ciononostante, è costantemente in mezzo a noi, che si sottrae ad ogni nostra volontà di coglierlo e di disporre di lui, ma proprio in questo modo dispone di tutti noi. Mediante questa immagine della nube, il racconto dell'ascensione viene inserito in tutta la storia di Dio con Israele, cominciando dalla nube del Sinai e sopra la tenda dell'alleanza del deserto, fino alla nube luminosa che sul monte della trasfigurazione annunciò la vicinanza di Dio. Il Signore avvolto nella nube: quest'immagine, che sta al centro della lettura odierna, rimanda in definitiva alla medesima realtà che è affermata dal simbolismo del «sedere alla destra di Dio». Il grande dottore della chiesa d'Occidente, Giovanni Damasceno, osserva in proposito che la destra del Padre non è un luogo, ma immagine della sua potenza e gloria. Il sedere alla destra significa, in ultima analisi, che Cristo è entrato nella potenza onnicomprensiva di Dio anche secondo la sua umanità (De fide orth. 4,2 ). Che significato ha quindi l'ascensione al cielo di Cristo? Significa credere che in Cristo l'uomo, l'essere uomo al quale noi tutti abbiamo parte, è entrato, in modo inaudito e nuovo, nell'intimità di Dio. Significa che l'uomo trova per sempre spazio in Dio. Il cielo non è un luogo sopra le stelle, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è il trovar posto dell'uomo in Dio e questo ha il suo fondamento nella compenetrazione di umanità e divinità nell'uomo Gesù crocifisso ed elevato. Cristo, l'uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo «cielo», poiché il cielo non è uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in lui. Pertanto, l'«ascensione al cielo» può divenire un processo che si verifica nella nostra vita di tutti i giorni. Solo in questa prospettiva si può comprendere ciò che Luca riferisce al termine del suo vangelo : dopo l'ascensione i discepoli tornarono a Gerusalemme «pieni di gioia» (24,52). Ciò che era accaduto non fu visto come un distacco; in questo caso non avrebbero potuto essere «pieni di gioia». Per essi l'ascensione e la resurrezione erano un medesimo evento: essi avevano la certezza che il Crocifisso viveva, che era vinta la morte che separa l'uomo da Dio, dalla vita, e che le porte della vita eterna erano state per sempre aperte. Per essi, quindi, l'ascensione non possedeva quel significato errato che noi abitualmente le assegnamo: la temporanea assenza di Cristo dal mondo. Significava piuttosto la nuova, definitiva ed insopprimibile forma della sua presenza, in virtù della sua partecipazione alla potenza regale di Dio. In tal senso, la teologia giovannea poté praticamente presentare come tra loro intrecciati la resurrezione ed il ritorno di Cristo (ad es. 14,18 ss. ): nella resurrezione di Gesù, grazie alla quale egli è ora per sempre in mezzo ai suoi, è già iniziato il suo ritorno. Dalla lettura di oggi si può rilevare che san Luca non ha certo compreso le cose in modo essenzialmente diverso. Cristo si rifiuta di rispondere alla domanda dei discepoli, a proposito del ripristino del regno di Dio, e ricorda loro invece che riceveranno lo Spirito Santo e saranno suoi testimoni fino ai confini del mondo. Essi non dovrebbero fissarsi sul futuro, non dovrebbero almanaccare nell'attesa del momento del suo ritorno. No, dovrebbero sapere che egli non ha mai cessato di essere presente; anzi, per mezzo di essi vorrebbe divenire sempre più presente: il dono dello Spirito ed il dovere della testimonianza, della predicazione, della missione, sono il modo in cui Cristo è già adesso presente. Nel periodo che corre tra la resurrezione ed il ritorno del Signore, la predicazione che raggiunge il mondo intero - è questa la dimensione che d'ora in poi possiamo affermare - è la forma d'espressione della regalità universale di Gesù Cristo, il quale esercita la sua signoria nell'umile figura della parola. Cristo esercita la sua potenza mediante l'impotenza della parola per mezzo della quale chiama gli uomini alla fede: questo fatto ri-corda ancora una volta l'immagine della nube, dove la segretezza e la vicinanza del Signore si compenetrano singolarmente. L'evangelista Giovanni ha rappresentato in maniera ancora più radicale que-sta mutua compenetrazione, grazie al senso nuovo da lui dato al termine veterotestamentario «elevazione»: questa parola, che fin qui esprimeva soltanto il pensiero dell'insediamento nella regalità, in lui indica contemporaneamente lo svolgimento della crocifissione, quando Cristo fu «elevato» da terra. In Giovanni, quindi il mistero del venerdì santo, della pasqua e dell'ascensione di Cristo esercita la sua signoria ed attira a sé tutta l'umanità, dentro le sue braccia spalancate (cfr. Gv. 3,14; 8,28; 12,32 s.). La croce è il trono regale di Cristo, la sua elevazione è ciò che agli estranei appare come vergogna ed umiliazione estreme. In quest'ultima interpretazione neotesta-mentaria dell'evento dell'«ascensione», si scoprono tutta la pretesa della fede negli uomini e la sua promessa. Infatti, quel Cristo, che nel dono totale di sé, nel darsi radicale sulla croce, diviene il re del mondo, egli che col suo abbraccio riesce a stringere tutti a sé, questo Cristo è la controfigura del primo Adamo, di noi tutti cioè, di quel primo Adamo che volle con arbitraria presunzione elevarsi, diviniz-zarsi e così distrusse e rovinò se stesso. Pertanto, in questo periodo del mondo, l'elevazione di Cristo si presenta solo sotto il segno della croce, espressione della legge del chicco di frumento: Se il chicco di frumento non cade in terra e non vi muore, resta solo; se, invece, muore, porta molto frutto (Gv. 12,24). La festa dell'elevazione di Cristo, che oggi commemoriamo, è quindi una grande solennità e la sua nota caratteristica è la speranza, la gioia. Dio ha spazio per l'uomo: a quest'annuncio non ci dovrebbe succedere come ai discepoli che dal monte degli Ulivi tornarono alle loro case «pieni di gioia»? Troppi, oggi, cercano di persuaderci che è assurdo pensare che Dio, il quale abbraccia il mondo intero, possa preoccuparsi dell'uomo, darsi cura di lui. Ben piccola dev'essere la loro idea di Dio, se lo raffigurano a nostra immagine, simile a noi che siamo necessitati a scegliere, perché non possiamo guardare a tutto contemporaneamente. Quanto più ha capito Dio quell'ignoto al quale dobbiamo la magnifica espressione che Hòlderlin ha posto come motto al suo I perione: «Non esser costretto da ciò che è più grande, contenere ciò che è più piccolo, questo è il divino». In Dio c'è spazio per noi: la parola ottimista, con la quale un padre della chiesa, l'africano Tertulliano, più di 500 anni fa ha riassunto il senso dell'ascensione di Cristo al cielo, è oggi attuale come allora: «Consolatevi, carne e sangue: in Cristo avete preso possesso del cielo e del regno di Dio!» (De car. Chr. z7).
Da Joseph Ratzinger, Dogma e predicazione, Brescia 1973
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