Il mistero pasquale è al centro dell’annuncio e della fede cristiana. Come nell’incarnazione, quando nasce Gesù, Maria è presente anche sotto la croce quando Gesù muore e partecipa alla nuova nascita quando egli risorge.
Per noi, come per le prime comunità cristiane, la morte di Cristo rimane uno scandalo. I cristiani conoscevano il duplice processo religioso e civile intentato a Gesù e concluso con la doppia condanna come "bestemmiatore" e come "sobillatore".
Ma questa fine ignominiosa di Gesù cozzava con la presenza di Dio nella sua vita di esorcista, taumaturgo, maestro di sapienza, instauratore del regno dei cieli. Come spiegare che il Messia Figlio di Dio abbia dovuto patire e morire?
Una duplice interpretazione della croce
La prima interpretazione consiste nel comprendere Cristo crocifisso dal versante retrospettivo, cioè alla luce del suo vivere e operare, che lo condussero alla crocifissione.
I cristiani compiono una lettura orante della Bibbia veterotestamentaria e vi scoprono un paradigma interpretativo fondamentale della passione di Cristo in conseguenza del suo agire: il modello del giusto sofferente, che rappresenta «la forma primitiva del racconto della passione». Il riferimento al "giusto" come spiegazione della passione di Gesù ricorre nel kerygma (annuncio) degli Atti: «Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto» (At 3,14; cf 7,52; 1Pt 3,18: «giusto per gli ingiusti»).
Crocifisso di Cimabue, Arezzo, chiesa di San Domenico.
Progressivamente le comunità cristiane scoprono il significato soteriologico della passione di Gesù sulla base dei carmi del servo di YHWH del Deutero-Isaia (Is 50,4-9; 52,13-53,12): il giusto si addossa i peccati della moltitudine e li espia con le proprie sofferenze e la propria morte. La vicenda di Gesù in connessione con l’incarnazione è interpretata come una "proesistenza" salvifica ed è espressa dalla preposizione "per" già nell’antico kerygma riferito da Paolo: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto: cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3; cf Gal 1,4; Rm 4,25).
La seconda interpretazione delle comunità cristiane si pone dal versante prospettico, cioè da quello della sua risurrezione dai morti (interpretazione pasquale). La luce della Pasqua illumina l’evento della croce di Cristo, che assume un significato salvifico di offerta gradita al Padre.
La passione di Gesù diviene più comprensibile ricorrendo allo schema dell’abbassamento-esaltazione, come fanno l’inno cristologico della lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11) e il vangelo di Giovanni (Gv 12,20-33; 13,2-17). Gesù è il servo di YHWH umiliato nella sofferenza, ma poi «innalzato, [...] esaltato grandemente» (Is 52,13).
La risurrezione è la risposta sovrana di Dio all’agire malvagio degli uomini culminato nella crocifissione di Gesù. Salvando il Figlio dalla morte ingiustamente inflitta, il Padre pone un limite definitivo alle potenze del male. Rimane vero che la risurrezione proietta luce sulla vita e morte di Gesù. La fede della Chiesa antica si può riassumere con le parole attribuite ad Agostino: «Togli la risurrezione, e di colpo distruggi il cristianesimo».
La croce con gli occhi di Maria
Maria partecipa alla sorte di Gesù, "giusto sofferente" e segno contraddetto, poiché su di lei piomberà il dolore come una spada di grande dimensione (rompháia: Lc 2,35). Soprattutto ai piedi della croce si realizza la profezia della spada. Il dolore di Maria è la conseguenza della sua vita di fede come serva del Signore.
Anche lo schema della bassezza-esaltazione si applica alla vicenda di Maria in base al Magnificat, che distingue in essa il momento kenotico e quello operativo-salvifico includente l’atteggiamento laudativo delle generazioni umane (cf Lc 1,48-49). In particolare, la Madre di Gesù è presente sul Calvario per ricevere la missione di madre del discepolo amato (Gv 19,25-27) in una «scena di rivelazione» (de Goed) di grande rilevanza storico-salvifica.
Maria partecipa alla risurrezione di Cristo, già preannunciata nel ritrovamento del Figlio nel tempio quando all’angoscia subentra la gioia. Risorta e assunta in cielo, può intercedere per noi, comunicarci i doni della salvezza ed esercitare per noi quella maternità nell’ordine della grazia proclamata da Cristo crocifisso.
Particolare dell’affresco dell’Assunzione del Correggio, Duomo di Parma.
Il discorso sull’incarnazione e sulla croce esige l’accoglienza del Verbo incarnato, la fede viva e matura in lui, l’inserimento di tutti i cristiani alla convergenza dei bracci verticale e orizzontale della croce, l’unificazione degli esseri umani nell’unica famiglia dei figli di Dio, il parteggiare con Gesù e non con la violenza e astuzia dei suoi crocifissori. Tutte interpellanze da non disperdere.
Oltre che il terribile supplizio, inventato sembra in Persia per punire gli schiavi, la croce diviene così simbolo di redenzione, di salvezza e di unificazione cosmica: «Dio ha aperto le sue mani sulla croce per abbracciare i limiti dell’Ecumene e per questo il monte Golgota è il polo del mondo» (Cirillo di Gerusalemme). La croce è l’albero della vita piantato da Cristo nel cuore del mondo, l’antidoto all’albero della tentazione e del cedimento al male.
Accogliere la Madre nella propria vita
Dalle parole di Gesù crocifisso scaturisce per ogni cristiano la gioia di fare spazio a Maria nella propria vita spirituale, cioè di accogliere Maria come madre, sull’esempio del discepolo amato da Gesù: «Da quell’ora il discepolo l’accolse tra i suoi beni» (Gv 19,27).
Leggendo l’intero passo giovanneo che parla di Maria presso la croce (Gv 19,25-27), il cristiano si accorge di trovarsi di fronte a una rivelazione che necessita la massima attenzione. Il carattere non domestico-individuale dell’offerta è suggerito dal carattere squisitamente rivelativo della scena, sia dall’uso del termine "donna", che nel linguaggio biblico-giudaico indica tanto Gerusalemme quanto il popolo eletto.
La rivelazione compiuta da Cristo crocifisso nel momento supremo della sua "ora" riguarda la vera identità teologica di Maria e del discepolo amato. La Madre di Gesù è considerata dai più la povera madre del condannato, ma Cristo rivela che ella è invece la "madre", colei che partorisce in un solo giorno il nuovo popolo di Dio e passa dalla sofferenza alla gioia (cf Is 66,7-8; Gv 16,21-22).
E il discepolo amato, caratterizzato dall’amore intimo e fedele per il Maestro, è ormai il "figlio" di Maria. Egli ha ricevuto già alcuni doni da Gesù: la grazia, la parola, l’eucaristia, lo Spirito... (Gv 1,16; 12,48; 6,32-58; 7,39).
Tra di essi accoglie Maria quale dono materno di Cristo. Vedendosi rappresentato dalla figura tipologica del discepolo amato, il cristiano apre il suo cuore a Maria e la considera come sua vera madre nell’ordine della grazia. Ormai la sua vita si svolge in dialogo d’amore con lei, ma anche nella docilità al compito materno che Maria svolge in dipendenza dallo Spirito per la formazione in Cristo dei figli di Dio.
Giovanni Paolo II, richiamandosi alla propria esperienza, descrive l’accoglienza e affidamento a Maria come una reciproca abitazione e interpersonale ospitalità. Affidandosi filialmente a Maria, il cristiano, come l’apostolo Giovanni, accoglie «fra le sue cose proprie» la Madre di Cristo e la introduce in tutto lo spazio della propria vita interiore, cioè nel suo "io" umano e cristiano: "La prese con sé". Così egli cerca di entrare nel raggio d’azione di quella "materna carità", con la quale la Madre del Redentore «si prende cura dei fratelli del Figlio suo», «alla cui rigenerazione e formazione ella coopera» (Redemptoris Mater, 45).
Giuseppe Daminelli
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