P. Cantalamessa. Due testi sul Giovedì Santo

L'Eucaristia, Pasqua della Chiesa padre Raniero CantalamessaLa liturgia della parola di questa Messa è essenziale per la comprensione di tutto il mistero pasquale. Non possiamo da qui saltare direttamente alla domenica di risurrezione, senza precluderci la possibilità di capire in che consista la nostra Pasqua, cioè la Pasqua della Chiesa. Perché la Pasqua della Chiesa è essenzialmente l'Eucaristia e questa sera noi celebriamo, appunto, l'istituzione dell'Eucaristia. Paolo, nella prima lettura, ci ha trasmesso quello che lui stesso ha ricevuto dal Signore, cioè l'istituzione della Cena come nuova alleanza e come memoriale della sua morte. Giovanni, nel Vangelo, ci riporta allo stesso momento della vita di Cristo e ci parla anche lui, a modo suo, dell'Eucarístia. Là dove i sinottici e Paolo pongono il segno - l'Eucaristia -, egli ha posto il significato: l'amore fino alla fine di Cristo per i suoi; l'unità e il servizio dei fratelli. Le parole di Gesú che chiudono il brano evangelico: " Come ho fatto io fate anche voi", sono un altro modo per dire: " Fate questo in memoria di me ". Quando la famiglia ebraica si metteva a tavola per la cena pasquale, il 14 Nisan, era prescritto che il figlio piú giovane rivolgesse questa domanda al padre: " Che significa questo rito che stiamo per compiere questa notte? " (Es. 12, 26). Nel Cenacolo, fu forse Giovanni a rivolgere questa domanda e Gesú a rispondere. Dobbiamo porci anche noi questa stessa domanda: che significa il rito di questa sera e che significano i riti che ci apprestiamo a ripetere anche quest'anno, in occasione della Pasqua? " Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione " (Rom. 4, 25); ma una volta sola (semel); egli non muore piú, la morte non ha píú potere su di lui (Rom. 6, 9). Che cos'è dunque ciò che noi facciamo ogni anno a Pasqua? Forse qualcosa di fallace, una finzione collettiva per cui ci immaginiamo che egli debba ancora morire e risorgere? Quello che noi stiamo per fare è l'anamnesi, o la liturgia, della storia; è il sacramento che attualizza l'evento (Agostino, Sermo 220). Questa anamnesi non è invenzione dell'uomo, ma istituzione di Cristo: " Fate questo in memoria di me "; " annunciate la morte del Signore finché egli torni ". E' un memoriale che attraversa la storia, fin dalla notte dell'esodo rievocata nella prima lettura, e che ha raccolto, strada facendo, tutti gli interventi di Dio (i " magnalia Dei "), fino al supremo e definitivo, avvenuto all'altezza degli anni trenta della nostra era, con la morte e risurrezione di Cristo. E' una specie di asse intorno a cui ruotano non solo gli anni, ma anche le settimane e i giorni. Il memoriale della Pasqua scorre infatti nella storia verso il compimento della parusia con tre ritmi: a) un ritmo quotidiano, ed è l'Eucaristia che si celebra ogni giorno nella Chiesa: " la Pasqua quotidiana", la chiamava sant'Agostino; b) un ritmo settimanale, ed è il ricordo della risurrezione che si celebra ogni domenica: " la piccola Pasqua", come la chiamano i nostri fratelli orientali; c) un ritmo annuale, ed è la solennità di Pasqua che ci apprestiamo a vivere con tutta la Chiesa. Questa Pasqua della Chiesa ha una sua struttura, i cui elementi essenziali sono: i tempi, i riti e i misteri. Originariamente, tutto era concentrato in una veglia notturna, preceduta da qualche giorno di digiuno e seguita da un lungo periodo di gioia, la Pentecoste. La Pasqua aveva allora una straordinaria carica evocativa. Non esistevano altre feste, sicché tutta la storia della salvezza, compresa la nascita di Cristo, riviveva in essa e si díspiegava davanti alla mente dei cristiani trascinandoli all'entusiasmo. " 0 grande e santa Pasqua, io ti parlo come a un essere vivente " (san Gregorio Nazianzeno). I cristiani riconoscevano nella Pasqua la culla in cui era nata la Chiesa, una culla preparata fin dalla lontana notte dell'esodo, rievocata nella prima lettura. Piú tardi, nel quarto secolo, nel nuovo clima di libertà, i pellegrini che si recavano a Gerusalemme per la Pasqua cominciarono a distribuire gli eventi della passione e a celebrarli nei giorni e nei luoghi precisi in cui erano accaduti: la cattura nell'orto; la cena nel Cenacolo, il gíovedí santo; l'adorazione della Croce sul Golgota, il venerdí; la veglia di Pasqua nella chiesa dell'Anastasis, e cosí di seguito, fino all'ascensione celebrata, appunto sul monte da cui Gesú ascese al cielo. Ben presto, questa nuova prassi si diffuse in tutta la cristianità e diede origine alla struttura cosí ricca e articolata della Pasqua che è rimasta fino ad oggi, pur con tutte le riforme e i cambiamenti di dettaglio. Quando, però, ci si interroga quale sia, tra tanti riti, quello essenziale; quale sia il culmine della Pasqua liturgica della Chiesa, si finisce per identificarlo sempre in un momento preciso: la celebrazione dell'Eucaristia. Fin dalle origini, l'Eucaristia che si celebrava al canto del gallo, nella veglia pasquale, segnava il momento di passaggio dalla tristezza alla gioia, dal digiuno alla festa. Era il grande " scioglimento " dell'attesa (díalysis), come veniva chiamato allora. L'Eucaristia, celebrata a cavallo tra il tempo in cui Gesú era ancora nella tomba e il momento in cui ne era uscito, era davvero il memoriale vivente della sua morte e della sua risurrezione. Era la Pasqua stessa di Cristo - il suo passaggio dalla morte alla vita che dalle profondità del passato emergeva all'oggí della liturgia. Tutto, cosí appariva compreso tra un " ieri " e un " oggi ": " Ieri, l'agnello veniva ucciso...; oggi, abbiamo lasciato l'Egitto. Ieri, ero crocifisso con Cristo; oggi, sono glorificato con lui. Ieri, ero sepolto con lui; oggi, sono risuscitato con lui " (san Gregorio Naz.). Abbiamo detto che l'Eucaristia è l'attualizzazíone della Pasqua di Cristo. E' vero; ma è anche un'altra cosa importantissima: è la consacrazione della nostra Pasqua. Chi dice, nella Messa di Pasqua, " Prendete e mangiate: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi", non è píú solo il Cristo-capo, cioè il Gesú storico che le disse la prima volta nel Cenacolo; è il Cristo totale. capo e corpo; siamo anche noi. E' l'"io" della Chiesa fuso con l'"io" di Cristo che offre se stesso in sacrificio. Nell'Eucaristia, noi offriamo un pane che abbiamo ricevuto dalla bontà di Dio, ma che è anche frutto del nostro lavoro. E' quell'insieme di sforzo, di conversione, di fedeltà alla parola di Dio e di sofferenza che costituisce la pasqua dell'uomo, il suo lento e faticoso " passaggio da questo mondo al Padre" (Gv. 13, 1). Se lo vogliamo, in quelle parole c'è posto anche per il nostro " io " indeciso; solo che abbiamo il coraggio di dire, insieme con Cristo, ai fratelli che ci circondano nella vita e nel lavoro: " Prendete, mangiate, questo è il mio corpo offerto per voi ". Prendete, cioè, il mio tempo, la mia amicizia, la mia attenzione, la mia competenza, la mia gioia: metto tutto a vostra disposizione; voglio impiegarli non solo per me, ma anche per voi. "Fate questo in memoria di me" significa: fate anche voi come ho fatto io. Giovanni lo dice apertamente: "da questo abbiamo conosciuto il suo amore: egli ha dato la vita per noi. Anche noi,, perciò, dobbiamo spendere la vita per i fratelli " (1 Gv. 3, 16). E' questa l'Eucaristia che crea la comunità e fa la Chiesa, come spiga cresciuta da quel chicco di grano caduto in terra e morto e che ha portato molto frutto. E' questa la Pasqua della Chiesa, con la quale ci apprestiamo a celebrare la Pasqua di Cristo e la nostra pasqua.Fare la Pasqua padre Raniero CantalamessaGiovedì Santo (Messa in Cena Domini) Vangelo: Gv 13,1-15
E' la Pasqua del Signore! Questa l'esclamazione abbiamo sentito nella prima lettura tratta dal libro l'Esodo. Noi la possiamo ripetere con tutta verità sta nostra liturgia del Giovedì Santo: E la Pasqua del Signore! Da qui vogliamo partire per capire, con profondità che ci è possibile, questa grande, secolare. che è la Pasqua. Che significa " fare la Pasqua "? Molti cristiani a questa domanda, risponderebbero: significa confessarsi e comunicarsi o - come si è soliti dire - "prendere Pasqua". C'è un tipo di cristiano che prende addirittura il nome da qui: il pasqualino. Un rito dunque, uno che scandiscono la nostra tiepida vita di cristiani. Forse è anche per questo che continuiamo a inanellare una dopo l'altra, senza che avvenga alcun vero " esodo ritrovandoci nell'Egitto spirituale di sempre. Per andare oltre questo stadio superficiale, ci poniamo questa sera tre domande: 1) Che significò per gli ebrei, la prima volta, fare la Pasqua? 2) Che significò per Gesù Cristo fare la sua Pasqua 3) Che significa per noi oggi fare la Pasqua? Quello che significò per gli ebrei fare la Pasqua ce lo ha descritto la prima lettura: celebrare un rito, un rito atavico comune anche ad altri pastori nomadi dell'Oriente. Si uccideva un agnello e lo si consumava insieme in segno di solidarietà, invocando la protezione di Dio, prima di dividersi per raggiungere i nuovi pascoli all'arrivo della primavera. Quell'anno (si era intorno al 1250 a.C.), questo rito si caricò per i discendenti di Abramo di un significato tutto nuovo: il passaggio di Dio; Dio viene a salvare il suo popolo: In quella notte, io passerò. Pasqua, dunque, perché Dio passò (cf. Es. 12, 12.27). Ma fu solo questo a fare la Pasqua per gli ebrei? No! Fu qualcosa di più di un rito che celebrava il passaggio di Dio. Fu un " passare " essi stessi: Pasqua perché Dio ci ha fatti passare, come dirà il libro del Deuteronomio (cf. Deut. 16, 1). Il passaggio attraverso il Mar Rosso, nella concitata notte dell'esodo, era il segno del passaggio, più profondo, dalla schiavitù alla libertà. Questo popolo diventa libero per servire Dio; si scuote le catene di dosso, si ribella agli aguzzini e va verso l'orizzonte sconfinato del deserto dove il suo Dio l'aspetta. Passaggio difficile! La schiavitù ha un suo fascino: non ci sono decisioni da prendere; le pentole sono piene di carne e di cipolle (" gli schiavi addormentati", scolpiti da Michelangelo,. sono tutta inerzia e apparente riposo). E assai più difficile gestire la propria libertà; di qui, la tentazione del deserto: tornare indietro, in Egitto. " Perché ci hai fatto uscire dall'Egitto?", dicono a Mosè. Essi tuttavia proseguirono e attraverso il deserto giunsero al riposo della terra promessa. Questo fu per loro fare la Pasqua: celebrare un rito, ma soprattutto compiere un passaggio. Cosa significò per Gesù fare la sua Pasqua? Anche per lui, fare la Pasqua significò, anzitutto, celebrare un rito, prima con i suoi genitori (cf. Lc. 3, 41) e poi con i suoi discepoli. Quello stesso rito che, dalla notte dell'esodo, gli ebrei non avevano smesso di celebrare. Al tempo di Cristo, tale rito consisteva in questo: ogni famiglia, o gruppo di persone, si procurava un agnello, lo portava a tempio di Gerusalemme per farlo immolare dai sacerdoti poi, a sera, in casa, lo si consumava tra preghiere, canti e rievocando ciò che Dio aveva fatto nella liberazione dall'Egitto. Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi (Lc. 22, 15). Perché l'aveva desiderato tanto? Perché in questa Pasqua egli avrebbe trasformato la figura in realtà, portando a compimento l'attesa antica di secoli. Egli era infatti l'Agnello di Dio, di cui l'agnello pasquale era un pallide simbolo. Ciò che fece quella sera ce lo ha ricordato san Paolo nella seconda lettura: finita la cena, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Le stesso fece con il calice. Questa sarà, d'ora in poi, la nuova cena pasquale per i credenti: l'Eucaristia. In essa si consumano le carni dell'Agnello immacolato e si riceve su di sé il suo sangue. E il memoriale antico che si carica di un nuovo sconfinato contenuto: l'esodo di tutta l'umanità dalla schiavitù dei peccati e dalla vanità della vita verso il perdono e la alleanza. Ogni volta che si celebra questo rito, si ricorderà la morte del Signore, fino al giorno della sua venuta. Una cosa grandissima dunque questa cena del Signore che stiamo commemorando. Eppure, la Pasqua di Gesù non si esaurisce m essa. La Pasqua non fu, per Gesù, soltanto celebrare o istituire un rito; anche per lui, si trattò di compiere un passaggio. Quale passaggio? Giovanni, nel Vangelo di questa Messa, lo definisce il passaggio da questo mondo al Padre (Gv. 13, 1). Gesù stesso ne aveva parlato con l'immagine del chicco di grano che deve essere sepolto in terra per risorgere come spiga e portare frutto (cf. Gv. 12, 24). Ed infatti questo fu il passaggio di Gesù: un passare attraverso la morte verso la vita, un morire per risorgere. Ma c'è un'impressione da superare. Non fu un passaggio indolore, scritto in anticipo e recitato da Gesù senza scomporsi, come una specie di copione imparato a memoria. Fu, al contrariò, il passaggio attraverso un abisso insondabile di angoscia. Gesù sperimentò tutta l'amarezza del fallimento, dell'abbandono, della paura all'appressarsi della sua ora. La tradizione apostolica non poté fare a meno di registrare questa " crisi " di Gesù. Nel Getsemani, pianse e supplicò che passasse quel calice. Anche Giovanni, qualche domenica fa', ci ha riportato quel grido di Gesù: L'anima mia è turbata (Gv. 12, 27). Adesso è ora che veniamo a noi: che significa per noi fare la Pasqua? Anche per noi significa anzitutto celebrare un rito, anzi un insieme di riti: la Quaresima è stata già un rito preparatorio alla Pasqua; le funzioni di questi giorni sono riti; riti sono anche i sacramenti pasquali: la Penitenza, il Battesimo, o il suo rinnovamento, e l'Eucaristia che ripete la cena pasquale di Cristo. Noi non saremo davvero così' sciocchi o presuntuosi da credere di poter fare a meno di questi riti cui Cristo ha legato la sua grazia e il frutto della sua Pasqua. Dobbiamo però metterci in testa una cosa: noi possiamo fare tutto ciò, senza tralasciare un solo rito e una sola funzione, e, nondimeno, non fare la Pasqua. E probabile, anzi, che molti di noi non abbiamo mai fatto la Pasqua in vita loro. Cosa si richiede per fare in verità la Pasqua? Quello stesso che si richiese per gli ebrei e per Gesù Cristo: compiere un passaggio. Un passaggio nuovo e diverso. San Paolo lo definisce il passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo, dal lievito di malizia agli azimi di purità (cf. i Cor. 5, 8). Non dunque passaggio da un posto all'altro, ma da un modo di vivere a un altro, dal vivere per il mondo e secondo il mondo, al vivere per il Padre. Il Vangelo ha una parola per esprimere tutto ciò, ed è quella con cui abbiamo iniziato la nostra Quaresima: conversione. " Pasqua che, tradotto, significa, passaggio", dicevano i primi cristiani; Pasqua che, tradotto, significa conversione, diremo noi con altrettanta verità. Un passaggio tra sponde ravvicinate, ma quanto profonde! C'è un abisso di mezzo; dall'"io " a Dio, dal " me " agli " altri ". Di questo passaggio che è conversione, la Pasqua mette in evidenza un aspetto nuovo. Non è solo fatica, rinuncia, dolore. Si, è anche questo; non si dà infatti discepolo al di sopra del maestro. Ma è anche passaggio verso la libertà e verso la gioia. E uno scrollarsi di dosso le mille catene che ci tengono schiavi e metterci in cammino verso la " patria dell'identità", là dove saremo davvero noi stessi, liberi per obbedire a Dio. Noi infatti siamo tuttora schiavi, come gli ebrei in Egitto, anche se di una diversa schiavitù. Siamo schiavi delle cose, dei comodi ai quali non sappiamo rinunciare; schiavi dei pregiudizi e delle mode; schiavi soprattutto dei peccati, perché chiunque commette il peccato è schiavo del peccato (Gv. 8, 34). Dio, a Pasqua, ci chiama a uscire, a ribellarci a tutto ciò, a destarci dal sonno terribile in cui siamo immersi, ad alzarci e a metterci in cammino. Per questo la Pasqua si doveva mangiare con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano e in fretta (Es. 12, 11); essa infatti è il segno di un cammino da intraprendere e spinge a mettersi in viaggio; è la festa della " grande emigrazione " (Filone Aless.). Aprirci a Dio, incamminarci verso di lui, forse è questo il senso più profondo del messaggio pasquale. Non è un invito astratto; la nostra vita è ancora chiusa a lui; egli vi entra solo di sfuggita e obliquamente, come il sole da una piccola feritoia in un castello tutto buio. Bisogna spalancargli le finestre, in questa Pasqua; farci illuminare dalla sua luce; esporre la nostra vita al suo giudizio e al suo perdono, permettergli di riaprire il discorso su di noi che abbiamo forse voluto considerare chiuso, sulla base di un certo compromesso. Ecco, se entreremo in questa prospettiva coraggiosa, mettendoci in stato di decisione e di conversione davanti a Dio, noi quest'anno faremo davvero la Pasqua con Cristo. I riti non saranno più solo riti, ma diventeranno realtà viventi, segni e fonti di grazia e ci verrà da esclamare, per la prima volta in modo nuovo: E la Pasqua del Signore!

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