P. Cantalamessa: “Cristo Imparò l’obbedienza dalle cose che patì”

1. Sacrificio o obbedienza?

Non si può abbracciare l’oceano, ma si può fare qualcosa di meglio e cioè lasciarsi da esso abbracciare, immergendosi in un punto qualsiasi della sua estensione. Così è della Passione di Cristo. Non la si può abbracciare tutta quanta con la mente, né vederne il fondo; possiamo però immergerci in essa partendo da uno qualsiasi dei suoi momenti. In questa meditazione vorremmo entrare in essa per la porta dell’obbedienza.


L’obbedienza di Cristo è l’aspetto della Passione messo maggiormente in evidenza nella catechesi apostolica. “Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2, 8); “Per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5, 19); “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì e reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 8-9). L’obbedienza appare come la chiave di lettura dell’intera storia della Passione, quello da cui questa prende senso e valore.

A chi si scandalizzava come il Padre potesse trovare compiacimento nella morte di croce del suo figlio Gesù, san Bernardo rispondeva giustamente: “Non fu la morte che gli piacque, ma la volontà di colui che spontaneamente moriva”: “Non mors placuit sed voluntas sponte morientis”[1]. Non è dunque tanto la morte di Cristo per se stessa che ci ha salvato, quanto la sua obbedienza fino alla morte.

Dio vuole l'obbedienza, non il sacrificio, dice la Scrittura (ef 1 Sam 15, 22; Eb 10, 5-7). È vero che nel caso di Cristo egli volle anche il sacrificio e lo vuole anche da noi, ma, delle due cose, una è il mezzo, l'altra è il fine. L'obbedienza, Dio la vuole per se stessa, il sacrificio, lo vuole solo indirettamente, come la condizione che sola rende possibile e autentica l’obbedienza. In questo senso la Lettera agli Ebrei dice che “Cristo imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. La Passione fu la prova e la misura della sua obbedienza.

Cerchiamo di conoscere in che è consistita l’obbedienza di Cristo. Gesù, da bambino, obbedì ai genitori; poi, da grande, si sottomise alla legge mosaica, durante la Passione si sottomette alla sentenza del Sinedrio, di Pilato... Ma il Nuovo Testamento non pensa a nessuna di queste obbedienze; pensa all’obbedienza di Cristo al Padre. Sant’Ireneo interpreta l’obbedienza di Gesù, alla luce dei carmi del Servo, come una interiore, assoluta sottomissione a Dio, realizzata in una situazione di estrema difficoltà:

“Quel peccato che era sorto per opera del legno, venne abolito per opera dell’obbedienza sul legno, poiché obbedendo a Dio, il Figlio dell’uomo fu inchiodato sul legno, distruggendo la scienza del male e introducendo e facendo penetrare dentro il mondo la scienza del bene. Il male è disobbedire a Dio, come l’obbedire a Dio è il bene... Dunque, per virtù di quell’obbedienza che prestò sino alla morte, pendente dal legno, dissolse quell’antica disobbedienza avvenuta nel legno”[2].

L’obbedienza di Gesù si esercita, in modo particolare, sulle parole che sono scritte di lui e per lui “nella legge, nei profeti e nei salmi”. Quando vogliono opporsi alla sua cattura, Gesù dice: “Ma come allora si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (Mt 26, 54).

2. Può Dio obbedire?

Ma come si concilia l’obbedienza di Cristo con la fede nella sua divinità? L’obbedienza è un atto della persona, non della natura, e la persona di Cristo, secondo la fede ortodossa, è quella del Figlio stesso di Dio. Può Dio obbedire a se stesso? Tocchiamo qui il nucleo più profondo del mistero cristologico. Cerchiamo di vedere in che consiste questo mistero.

Nel Getsemani Gesú dice al Padre: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14, 36). Il problema consiste tutto nel sapere chi è quell’“io” e chi è quel “tu”; chi dice il fiat e a chi lo dice. A queste domande, nell’antichità, furono date due risposte alquanto diverse, a seconda del tipo di cristologia soggiacente.

Per la scuola alessandrina, l’“io” che parla è la persona del Verbo che, in quanto incarnato, dice il suo “sì” alla volontà divina (il “tu”) che egli stesso ha in comune con il Padre e lo Spirito Santo. Chi dice “sì” e colui al quale dice “sì” sono la stessa volontà, considerata però in due tempi o in due stati differenti: nello stato di Verbo incarnato e nello stato di Verbo eterno. Il dramma (se di dramma si può parlare) si svolge più in seno a Dio che non tra Dio e l’uomo e questo perché non viene ancora riconosciuta chiaramente l’esistenza in Cristo anche di una volontà umana e libera.

Più valida, su questo punto, è l’interpretazione della scuola antiochena. Perché possa darsi obbedienza, dicono gli autori dei questa scuola, occorre che ci sia un soggetto che obbedisce e un soggetto al quale obbedire: nessuno obbedisce a se stesso! Essendo, inoltre, l’obbedienza di Cristo l’antitesi della disobbedienza di Adamo, essa deve per forza essere l’obbedienza di un uomo, il Nuovo Adamo, capace come tale di rappresentare l’umanità. Ecco, allora, chi sono quell’“io” e quel “tu”: l’”io” è l’uomo Gesú, il “tu” è Dio a cui obbedisce! Anche questa interpretazione aveva però una lacuna grave. Se il fiat di Gesù nel Getsemani è essenzialmente il “sì” di un uomo, sia pure unito indissolubilmente al Figlio di Dio (l’homo assumptus), come può esso avere un valore universale così da poter “costituire giusti” tutti gli uomini? Gesù appare più un modello sublime di obbedienza che non una intrinseca “causa di salvezza” per tutti coloro che obbediscono a lui (cf Eb 5, 9).

Lo sviluppo della cristologia colmò questa lacuna, grazie soprattutto all’opera di san Massimo il Confessore e del concilio Costantinopolitano III. San Massimo afferma: l’”io” non è l’umanità che parla alla divinità (antiocheni); non è neppure Dio che, in quanto incarnato, parla a se stesso in quanto eterno (alessandrini). L’“io” è il Verbo incarnato che parla in nome della volontà umana libera che ha assunto; il “tu” invece è la volontà trinitaria che il Verbo ha in comune con il Padre. In Gesù, il Verbo obbedisce umanamente al Padre! E tuttavia non si annulla il concetto di obbedienza, né Dio, in questo caso, obbedisce a se stesso, perché tra il soggetto e il termine dell’obbedienza c’è tutto lo spessore di una reale umanità e di una volontà umana libera [3].

Dio ha obbedito umanamente! Si capisce allora la potenza universale di salvezza racchiusa nel fiat di Gesù: esso è l’atto umano di un Dio; è un atto divino-umano, teandrico. Quel fiat è veramente, per usare l’espressione di un salmo, “la roccia della nostra salvezza” (Sal 95, 1). È per questa obbedienza che “tutti sono stati costituiti giusti”.

3. L’obbedienza a Dio nella vita cristiana

Cerchiamo, come sempre, di tirare da ciò qualche insegnamento pratico per la nostra vita, ricordando l’ammonimento della Prima lettera di Pietro: “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme”. Riflettere sull’obbedienza può contribuire a creare il clima spirituale giusto nella Chiesa e nella Curia, ogni volta che si è davanti alla eventualità di cambiamenti di persone e di uffici.

Appena si prova a ricercare, attraverso il Nuovo Testamento, in che cosa consiste il dovere dell’obbedienza, si fa una scoperta sorprendente e cioè che l’obbedienza è vista quasi sempre come obbedienza a Dio. Si parla, certamente, anche di tutte le altre forme di obbedienza: ai genitori, ai padroni, ai superiori, alle autorità civili, “a ogni umana istituzione” (1 Pt 2, 13), ma assai meno spesso e in maniera molto meno solenne. Il sostantivo stesso “obbedienza” è usato sempre e solo per indicare l’obbedienza a Dio o, comunque, a istanze che sono dalla parte di Dio, eccetto in un solo passo della Lettera a Filemone dove esso indica l’obbedienza all’Apostolo.

San Paolo parla di obbedienza alla fede (Rm 1, 5; 16, 26), di obbedienza all’insegnamento (Rm 6, 17), di obbedienza al Vangelo (Rm 10, 16; 2 Ts 1, 8), di obbedienza alla verità (Gal 5, 7), di obbedienza a Cristo (2 Cor 10, 5). Troviamo lo stesso linguaggio anche altrove: gli Atti degli Apostoli parlano di obbedienza alla fede (At 6, 7), la Prima lettera di Pietro parla di obbedienza a Cristo (1 Pt 1, 2) e di obbedienza alla verità (1 Pt 1, 22).

Ma è possibile e ha senso parlare oggi di obbedienza a Dio, dopo che la nuova e vivente volontà di Dio, manifestatasi in Cristo, si è compiutamente espressa e oggettivata in tutta una serie di leggi e di gerarchie? È lecito pensare che esistano ancora, dopo tutto ciò, delle “libere” volontà di Dio da raccogliere e da compiere?

Solo se si crede in una “Signoria” attuale e puntuale del Risorto sulla Chiesa, solo se si è convinti nell’intimo che anche oggi – come dice il salmo – “parla il Signore, Dio degli dei, e non sta in silenzio” (Sal 50, 1), solo allora si è in grado di comprendere la necessità e l’importanza dell’obbedienza a Dio. Essa è un prestare ascolto al Dio che parla, nella Chiesa, attraverso il suo Spirito, il quale illumina le parole di Gesù e di tutta la Bibbia e conferisce a esse autorità, facendone canali della vivente e attuale volontà di Dio per noi.

Ma come nella Chiesa istituzione e mistero non sono contrapposti ma uniti, così ora dobbiamo mostrare che l’obbedienza spirituale a Dio non distoglie dall’obbedienza all’autorità visibile e istituzionale, ma, al contrario, la rinnova, la rafforza e la vivifica, al punto che l’obbedienza agli uomini diventa il criterio per giudicare se c’è o meno, e se è autentica, l’obbedienza a Dio.

L'obbedienza a Dio è come “il filo dall'alto” che regge la splendida tela del ragno appesa a una siepe. Scendendo dall’alto lungo un filo che egli stesso produce, il ragno bestiola costruisce la sua tela, perfetta e tesa a ogni angolo. Tuttavia quel filo dall'alto che è servito a costruire la tela non viene troncato una volta terminata l'opera; anzi, è esso che, dal centro, sorregge tutto l'intreccio; senza di esso tutto si affloscia. Se si stacca uno dei fili laterali, il ragno si dà da fare per riparare velocemente la sua tela, ma se viene troncato quel filo dall'alto si allontana; sa che non c’è più nulla da fare.

Avviene qualcosa di simile a proposito della trama delle autorità e delle obbedienze in una società, in un ordine religioso, nella Chiesa. L'obbedienza a Dio è il filo dall'alto: tutto si è costruito a partire da essa; ma essa non può essere dimenticata neppure dopo che è finita la costruzione. In caso contrario, tutto entra in crisi, fino a proclamare, come è avvenuto in anni non lontani: “l’obbedienza non è più una virtù”.

Ma perché è così importante obbedire a Dio? Perché Dio ci tiene tanto a essere obbedito? Non certo per il gusto di comandare e di avere dei sudditi! È importante perché obbedendo noi facciamo la volontà di Dio, vogliamo le stesse cose che vuole Dio e così realizziamo la nostra vocazione originaria che è di essere “a sua immagine e somiglianza”. Siamo nella verità, nella luce e di conseguenza nella pace, come il corpo che ha raggiunto il suo punto di quiete. Dante Alighieri ha racchiuso tutto ciò in un verso considerato da molti il più bello di tutta la Divina Commedia: “e ’n la sua volontate è nostra pace”[4].

4. Obbedienza e autorità

L’obbedienza a Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita (parlo, s’intende, di quelle di una certa serietà); ma di obbedienze a Dio ce ne sono tante. Più si obbedisce, più si moltiplicano gli ordini di Dio, perché egli sa che questo è il dono più bello che può fare, quello che fece al suo diletto Figlio Gesù.

Quando Dio trova un’anima decisa a obbedire, allora egli prende in mano la sua vita, come si prende il timone di una barca, o come si prendono in mano le redini di un carro. Egli diventa sul serio, e non solo in teoria, “Signore” cioè colui che “regge”, che “governa” determinando, si può dire, momento per momento, i gesti, le parole di quella persona, il suo modo di impiegare il tempo, tutto.

Questa “direzione spirituale” si esercita attraverso le “buone ispirazioni” e più spesso ancora attraverso le parole di Dio della Bibbia. Leggi o ascolti brani della Scrittura ed ecco che una frase una parola si illumina, diventa, per così dire, radio-attiva. Senti che ti interpella, ti indica la cosa da fare. Qui si decide se si obbedisce a Dio, o no. Il Servo di Jahvé dice di sé in Isaia: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50, 4). Anche noi ogni mattina, nella Liturgia delle ore o della Messa, dovremmo stare con l’orecchio attento. In essa c’è quasi sempre una parola che Dio rivolge personalmente a noi e lo Spirito non manca di farcela riconoscere fra tutte.

Ho detto che l’obbedienza a Dio è qualcosa che si può fare sempre. Devo aggiungere che è anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sia sudditi che superiori. Si è soliti dire che bisogna saper obbedire per poter comandare. Non è solo un’affermazione empirica; c’è una profonda ragione teologica alla base di ciò, se per obbedienza intendiamo l’obbedienza a Dio.

Quando un ordine viene dato da un superiore che si sforza di vivere nella volontà di Dio, che ha pregato prima e non ha interessi personali da difendere, ma solo il bene del fratello, allora l’autorità stessa di Dio fa da contrafforte a tale ordine o decisione. Se sorge contestazione, Dio dice al suo rappresentante ciò che disse un giorno a Geremia: “Ecco io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo [...]. Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te” (Ger 1, 18 s).

Un illustre esegeta inglese da un’interpretazione illuminante dell’episodio del centurione evangelico. “Io, dice il centurione, sono un uomo sottoposto a una autorità, e ho sotto di me dei soldati, e dico all'uno: Va' ed egli va, e a un altro: Vieni! ed egli viene, e al mio servo: Fa' questo ed egli lo fa” (Lc 7, 8). Per il fatto di essere sottoposto, cioè obbediente, ai suoi superiori e, in definitiva, all'imperatore, il centurione può emettere ordini che hanno dietro di sé l'autorità dell'imperatore in persona; egli viene obbedito dai suoi soldati, perché, a sua volta, obbedisce ed è sottoposto al suo superiore.

Così, egli pensa, avviene con Gesù, nei confronti di Dio. Dal momento che lui è in comunione con Dio e obbedisce a Dio, ha dietro di sé l'autorità stessa di Dio e perciò può comandare al suo servo di guarire ed egli guarirà, può comandare alla malattia di lasciarlo ed essa lo lascerà [5].

È la forza e la semplicità di questo argomento che strappa l'ammirazione di Gesù e gli fa dire di non avere mai trovato tanta fede in Israele. Egli ha capito che l'autorità di Gesù e i suoi miracoli derivano dalla sua perfetta obbedienza al Padre, come Gesù stesso, del resto, spiega nel vangelo di Giovanni: “Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”(Gv 8, 29).

L’obbedienza a Dio aggiunge all’autorità l’autorevolezza, cioè un potere reale ed efficace, non soltanto nominale o d’ufficio, un potere, per così dire, ontologico, non solo giuridico. Sant’Ignazio d’Antiochia dava questo meraviglioso consiglio a un suo collega di episcopato:
“Nulla si faccia senza il tuo consenso, ma tu non fare nulla senza il consenso di Dio”[6].

Questo non significa attenuare l'importanza dell'istituzione e della carica, o far dipendere l'obbedienza del suddito solo dal grado di autorità spirituale e di autorevolezza del superiore, ciò che sarebbe, manifestamente, la fine di ogni obbedienza. Significa solo che chi esercita l'autorità, lui, deve fondarsi il meno possibile, o solo in ultima istanza, sul titolo o sulla carica che ricopre e il più possibile sull'unione della sua volontà con quella di Dio, cioè sulla sua obbedienza; il suddito invece non deve giudicare o pretendere di sapere se la decisione del superiore sia o no conforme alla volontà di Dio. Egli deve presumere che lo sia, a meno che non si tratti di un ordine manifestamente contro coscienza, come avviene talvolta nell’ambito politico, sotto regimi totalitari.

Avviene come per il comandamento dell’amore. Il primo comandamento resta il “primo” comandamento, perché la sorgente e il movente di tutto è l'amore di Dio; ma il criterio per giudicare è il secondo comandamento: “Chi non ama il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non vede?» (1 Gv 4, 20). Lo stesso si deve dire dell’obbedienza: se non obbedisci ai rappresentanti visibili di Dio sulla terra, come puoi dire di obbedire a Dio che è nel cielo?

5. Presentare le questioni a Dio

Questa via dell’obbedienza a Dio non ha nulla, per sé, di mistico e di straordinario, ma è aperta a tutti i battezzati. Essa consiste nel “presentare le questioni a Dio”, secondo il consiglio che il suocero Ietro diede un giorno a Mosè (cf Es 18, 19). Io posso decidere da solo di prendere una iniziativa, di fare o non fare un viaggio, un lavoro, una visita, una spesa e poi, una volta deciso, pregare Dio per la buona riuscita della cosa. Ma se nasce in me l’amore dell’obbedienza a Dio, allora farò diversamente: chiederò prima a Dio, con il mezzo semplicissimo che è la preghiera, se è sua volontà che io faccia quel viaggio, quel lavoro, quella visita, quella spesa, e poi farò, o non farò, la cosa, ma essa sarà ormai, in ogni caso, un atto di obbedienza a Dio, e non più una mia libera iniziativa.

Normalmente, è chiaro che non udrò, nella mia breve preghiera, nessuna voce e non avrò nessuna risposta esplicita sul da farsi, o almeno non è necessario che l’abbia perché ciò che faccio sia obbedienza. Così facendo, infatti, ho sottoposto la questione a Dio, mi sono spogliato della mia volontà, ho rinunciato a decidere da solo e ho dato a Dio una possibilità per intervenire, se vuole, nella mia vita. Qualunque cosa ora deciderò di fare, regolandomi con i criteri ordinari di discernimento, sarà obbedienza a Dio.

Come il servitore fedele non prende mai un’iniziativa o un ordine da estranei, senza dire: “Devo sentire prima il mio padrone”, così il vero servo di Dio non intraprende nulla, senza dire a se stesso: “Devo pregare un po’ per sapere cosa il mio Signore vuole che io faccia!”. Così si cedono le redini della propria vita a Dio! La volontà di Dio penetra, in questo modo, sempre più capillarmente nel tessuto di una esistenza, impreziosendola e facendo di essa un “sacrificio vivente, santo e a Dio gradito” (Rm 12, 1). Tutta la vita diventa un’obbedienza a Dio e ne proclama silenziosamente la sovranità sulla Chiesa e sul mondo.

Dio - diceva san Gregorio Magno - “a volte ci ammonisce con le parole, a volte, invece, con i fatti”, cioè con gli avvenimenti e le situazioni [7]. C'è un'obbedienza a Dio e spesso tra le più esigenti - che consiste semplicemente nell'obbedire alle situazioni. Quando si è visto che, nonostante tutti gli sforzi e le preghiere, ci sono, nella nostra vita, situazioni difficili, talvolta addirittura assurde e - a nostro parere - spiritualmente controproducenti, che non cambiano, bisogna smettere di “recalcitrare contro il pungolo” e cominciare a vedere in esse delle silenziose, ma risolute volontà di Dio su di noi. L'esperienza dimostra che, soltanto dopo aver detto un “sì” totale e dal profondo del cuore alla volontà di Dio, tali situazioni di sofferenza perdono il potere angosciante che hanno su di noi. Le viviamo con più pace.

Un caso di difficile obbedienza alle situazioni è quello che si impone a tutti con l’età e cioè il ritiro dall’attività, la cessazione dell’ufficio, il dover passare le consegne ad altri, lasciando forse incompiuti e sospesi progetti e iniziative in atto. Qualcuno, scherzando, ha detto che l’ufficio di superiore è una croce, ma che a volte la cosa più difficile da accettare non è il salire su di essa, ma scenderne, l’essere deposti dalla croce!

Non è il caso, certo, di fare dell’ironia su una situazione delicata, davanti alla quale nessuno sa come lui stesso reagirà finché non ci è passato. Questa è una delle obbedienze che più si avvicinano a quella di Cristo nella sua Passione. Gesù sospese il suo insegnamento, troncò ogni attività, non si lasciò trattenere dal pensiero di cosa sarebbe successo ai suoi apostoli; non si preoccupò di che cosa ne sarebbe stato della sua parola, affidata, com'era, unicamente alla povera memoria di alcuni pescatori. Non si lasciò trattenere neppure dal pensiero della Madre che lasciava sola. Nessun lamento, nessun tentativo di far cambiare la decisione al Padre: “Perché il mondo sappia, che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato, alzatevi, disse, andiamo” (cfr. Gv 14, 31).

6. Maria, l’obbediente

Prima di terminare le nostre considerazioni sull'obbedienza, contempliamo un istante l'icona vivente dell'obbedienza, colei che non solo ha imitato l'obbedienza del Servo, ma l'ha vissuta con lui. Sant'Ireneo scrive: “Parallelamente (s'intende, a Cristo nuovo Adamo), si trova che anche la vergine Maria è obbediente, quando dice: “Ecco la tua serva, avvenga di me quello che tu hai detto” (Lc 1, 38). Come Eva, disobbedendo, divenne causa di morte per sé e per tutto il genere umano, così Maria, obbedendo, divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano” [8]. Maria si affaccia alla riflessione teologica della Chiesa (siamo, infatti, in presenza del primo abbozzo di Mariologia), attraverso il titolo di obbediente.

Anche Maria obbedì sicuramente ai genitori, alla legge, a Giuseppe. Non è, però, a queste obbedienze che pensa sant'Ireneo, ma alla sua obbedienza alla parola di Dio. La sua obbedienza è l'esatta antitesi della disobbedienza di Eva. Ma - ancora una volta - a chi disobbedì Eva per essere chiamata la disobbediente? Non certo ai genitori, che non aveva, e neppure al marito o a qualche legge scritta. Disobbedì alla parola di Dio! Come il “Fiat” di Maria si affianca, nel Vangelo di Luca, al “Fiat” di Gesù nel Getsemani (cf Lc 22, 42 ), così, per sant'Ireneo, l'obbedienza della nuova Eva si affianca all'obbedienza del nuovo Adamo.

Maria avrà certamente recitato o ascoltato, durante la sua vita terrena, il versetto del Salmo in cui si dice a Dio: “Insegnami a compiere il tuo volere» (Sal 142, 10). Noi rivolgiamo a lei la stessa preghiera: “Insegnaci, Maria, a compiere il volere di Dio come l’hai compiuto tu!”.

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[1] S. Bernardo di Chiaravalle, De errore Abelardi, 8, 21 (PL 182, 1070).
[2] S. Ireneo, Dimostrazione della predicazione apostolica, 34.
[3] San Massimo Confessore, In Matth., 26, 39 (PG 91, 68).
[4] Dante Alighieri, Paradiso, 3,85.
[5] Cfr. C.H. Dodd, Il fondatore del cristianesimo, Leumann 1975, p. 59 s.
[6] S. Ignazio di Antiochia, Lettera a Policarpo, 4,1.
[7] S. Gregorio Magno, Omelie sui vangeli, 17,1 (PL 76, 1139).
[8] S. Ireneo, Adv. Haer. III, 22,4.

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