L’evangelista nel c. 20 ha descritto le apparizioni del Risorto ai primi discepoli nel giorno di Pasqua, dividendole in due grandi unità letterarie. Nella prima unità, il Risorto si fa vedere a Maria di Magdala nei pressi del sepolcro vuoto (20,1-18); nella seconda, si mostra ai discepoli e a Tommaso in un luogo chiuso (20,19-29). L’epilogo del redattore termina il capitolo con i vv. 30-31. La nostra riflessione si concentrerà sulle apparizioni ufficiali al gruppo apostolico.
Il racconto giovanneo insiste ripetutamente sul tema del «vedere» il Signore vivo (20,20.25.27.29): Giovanni in queste manifestazioni svela come i discepoli accedano lentamente e gradualmente alla pienezza della fede pasquale arrivando, attraverso un approfondimento progressivo del loro «sguardo» su Gesù, a un’intelligenza penetrante del suo mistero.
La prima apparizione senza Tommaso (20,19-25)
L’incontro tra il Risorto e il gruppo dei discepoli avviene «la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato» (v. 19). Questa annotazione cronologica è densa di significato. «Quello stesso giorno» richiama gli episodi precedentemente raccontati nel c. 20, accaduti presso il sepolcro vuoto, ma anche evoca «il giorno» annunciato discretamente dal Maestro con queste parole:
In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi (14,20).
Si sta realizzando questa promessa che inaugura un tempo nuovo, già annunciato dai profeti (cf. Is 52,6).
I discepoli stanno riuniti nel Cenacolo, radunati e convocati dall’annuncio pasquale di Maria di Magdala; eppure, pur avendo avuto dei segni, non riescono ancora a cogliere il senso di questo giorno nuovo. Le «porte sprangate (kekleisménon) per timore dei giudei» sottolineano il loro timore e la loro tristezza. La comunità è impaurita, nascosta, non trova il coraggio di pronunciarsi pubblicamente a favore del suo Maestro ingiustamente condannato e crocifisso.
Gesù è per loro definitivamente assente! Non basta sapere che Gesù è risuscitato: solo la sua presenza può dare sicurezza in mezzo all’ostilità del mondo. Coloro che hanno iniziato il loro «esodo» seguendo Gesù, sono intimoriti dinanzi al potere nemico come l’antico Israele poco prima della Pasqua (Es 14,10). È «sera»: c’è oscurità nei loro cuori. Ma questa è la notte in cui il Signore li riscatterà dall’oppressione (Es 12,42)!
«Venne Gesù»
Ecco l’avvenimento sorprendente! Giovanni racconta l’iniziativa di Gesù che si manifesta al gruppo:
Venne (élthen) Gesù e stette (éste) in mezzo a loro (v. 19).
Il primo verbo («venne»), ripreso anche al v. 24, appartiene al vocabolario propriamente giovanneo delle apparizioni pasquali (cf. 21,13; Ap 1,8). Si realizza l’annuncio promesso nel primo discorso di Addio:
Non vi lascerò orfani, verrò a voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete (14,18-19; cf. 14,28).
Il secondo verbo («stette», da hístemi), da cui deriva anche il verbo «risorgere» (anístemi), evoca la posizione eretta propria di colui che è «vivo». Gesù appare Risorto «in mezzo» alla sua comunità, di nuovo presente come punto di riferimento, come fattore di unità (cf. 15,5).
La prospettiva ecclesiale è fortemente sottolineata dall’evangelista. Gesù non appare più in un giardino, luogo aperto e familiare, al punto da essere scambiato da Maria per un giardiniere, ma «viene» ai discepoli attraverso le «porte sprangate» del luogo in cui si trovavano. Egli appartiene ormai al mondo «di lassù» (8,23), è già salito al Padre (20,17), è entrato nella «glorificazione» celeste; ora niente può impedire la relazione con i suoi amici: ogni ostacolo è vinto! Il Risuscitato si introduce nel mondo della loro paura, come si è introdotto nella ricerca in pianto di Maria di Magdala, come si è inserito nello scoraggiamento dei discepoli sul cammino di Emmaus (cf. Lc 24). La risurrezione pone Gesù e la sua corporeità in una nuova dimensione, di piena libertà e di compiuta relazione.
«Mostrò loro le mani e il costato»
«Pace a voi!». Con questo saluto il Vivente dona «ai suoi» la pace promessa:
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi (14,27);
Abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo (16,33).
Segue poi un gesto: Gesù «mostrò»(deiknumi)lorole sue mani trapassate dai chiodi e il costato trafitto, dal quale era sgorgato sangue e acqua (19,34). Egli pone sotto lo sguardo dei suoi discepoli i segni della sua passione e morte per far comprendere che la pace proviene dalla sua vita donata. Giovanni coglie qui il legame che unisce il Risuscitato di oggi al Crocifisso di ieri: l’apparizione non è però finalizzata semplicemente al riconoscimento (cf. Lc 24,38-39), ma alla rivelazione piena del mistero del Crocifisso risorto.
Il verbo «mostrare» è un verbo di rivelazione (5,20; 14,9). Gesù introduce i discepoli a cogliere il mistero profondo dei segni del suo amore e della sua vittoria. Le sue mani piagate, nelle quali il Padre ha messo tutto (3,35; 13,3), e dalle quali nessuna pecora sarà mai strappata (10,28), daranno sicurezza ai suoi discepoli e li difenderanno nelle prove. Il suo costato trafitto dal quale uscì sangue e acqua, simbolo della sua vita offerta fino all’amore estremo (19,31-34), è la sorgente da cui lo Spirito divino, come fonte che zampilla, scaturisce e si diffonde comunicando ovunque pienezza di vita e pace (cf. Ez 47,9-12).
Da questo incontro personale con il Crocifisso risorto, dalla profonda intuizione spirituale del suo mistero di amore per il mondo, scaturisce nei discepoli, una gioia intensa e profonda: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (20,20). Si assiste a un passaggio dalla paura alla gioia, proprio come Gesù stesso aveva promesso:
La vostra afflizione si cambierà in gioia (16,20);
Ora siete nella tristezza... ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia (16,22-23).
Si intuisce già il senso profondo di questo «vedere» il Signore, che non è un semplice vedere fisico: i discepoli, nella luce dall’alto, colgono improvvisamente che Gesù è «il Kyrios» risuscitato e glorificato. Essi comprendono il significato salvifico della sua vita offerta; la relazione con lui non potrà più essere interrotta. La fede pasquale è un luce abbagliante che illumina e unisce i due aspetti dell’unico mistero: morte e risurrezione.
«Alitò su di loro lo Spirito Santo»
Gesù, rinnovando il saluto di pace, fa di questo gruppo di discepoli i suoi inviati: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi!» (20,21). Giovanni intuisce il rapporto stretto che esiste tra la missione di Gesù ricevuta dal Padre e la missione dei discepoli ricevuta da Gesù (17,18). Come il Figlio non può che rivelare ciò che ha visto e udito presso il Padre (8,26.38; 15,15) e fa solo ciò che il Padre gli ha insegnato (8,28), perché egli è Figlio di Dio in modo unico e privilegiato, così il discepolo è chiamato a vivere in una comunione profonda con il Crocifisso risorto per continuare nel mondo la sua «missione» (cf. 15,16).
Gesù «alita» poi sui suoi discepoli lo Spirito Santo (20,20) ripetendo il gesto di Dio creatore, come è narrato nel libro della Genesi:
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Gn 2,7).
Ai discepoli è donato il respiro stesso di Gesù, lo Spirito che li fa accedere alla pienezza della fede pasquale e li introduce nel mistero dell’amore trinitario (14,20). I discepoli divengono «la dimora» del Figlio e del Padre; Gesù dimora in loro e loro in lui (15,4-6; cf. 6,56).
Durante il suo ministero terreno Gesù aveva rivelato pienamente il Padre; si era manifestato come «l’inviato», «il Figlio», «il Salvatore», eppure era ancora per i suoi discepoli uno sconosciuto (14,9). Solo ora i loro occhi vedono e comprendono! Il prologo del Vangelo riporta così la loro esperienza:
Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (1,14).
Questo Spirito che sgorga dal Crocifisso morente («Consegnò lo spirito», parédoken to pneuma,19,30), dal costato ferito del Figlio (19,33), è donato come «Paraclito» che rimarrà presso i discepoli per sempre (14,16); d’ora in poi insegnerà loro ogni cosa e farà loro ricordare tutto quanto Gesù ha detto (15,26), introducendoli alla «verità tutta intera» (16,13) e svelerà loro la gloria del Figlio (16,13), nella quale il Padre si è rivelato (1,18).
Grazie allo Spirito, il mistero del Figlio e del Padre, cuore della rivelazione, apparirà loro nella sua profondità ultima[1]. Lo Spirito donato dal Crocifisso risorto è il principio della vita nuova, è la nuova generazione dall’alto (cf. 3,5ss.) che dona la pienezza della fede pasquale. I discepoli sono ora capaci di rendere testimonianza e di donare al mondo il perdono scaturito per tutti dalla croce. Gesù dice loro: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi...» (20,23).
«Abbiamo visto il Signore!»
Come Maria di Magdala nella scena precedente annuncia ai discepoli l’incontro con il Risorto, dicendo loro: «Ho vistoil Signore (eóraka ton Kyrion)» (20,18), così il gruppo dei discepoli testimonia al fratello assente l’esperienza trasformante e gioiosa dell’incontro con il Risorto: «Abbiamo visto il Signore (eorákamen ton Kyrion)» (20,25). Per Giovanni un tale «vedere»[2] è «credere»; questi due verbi sono ora inscindibili, quasi sinonimi. Nel passaggio di questa confessione di fede, dal singolare al plurale, il narratore mostra come la fede pasquale, pur essendo personale, ha anche una irrinunciabile dimensione comunitaria.
In questo contesto il narratore introduce il personaggio di Tommaso e comunica al lettore la sua identità: è «uno dei Dodici», fa parte di coloro che sono stati testimoni privilegiati della vicenda storica di Gesù (cf. 11,16; 14,5; 21,2), egli gode dunque di una posizione privilegiata ed eminente. Inoltre Giovanni aggiunge la traduzione in greco del nome aramaico e spiega che significa «Didymos» cioè «gemello», «doppio»: così forse allude a una certa ambiguità del personaggio. Quali sono i motivi della sua precedente assenza dal gruppo? Ha forse rifiutato la testimonianza di Maria?
La replica pretenziosa dell’apostolo evidenzia chiaramente la sua tensione col gruppo e il suo dubbio:
Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò.
Il suo rifiuto è categorico, non accetta la testimonianza degli amici, si mostra non totalmente disponibile a credere, richiede di vedere personalmente il Risorto, anzi pretende di toccarlo nella sua realtà fisica, nella maniera che lui stesso decide. Esige una prova personale e tangibile[3].
Giovanni sottolinea così – ancora una volta – l’impreparazione dei discepoli a cogliere il mistero della risurrezione. Come bisogna valutare il suo atteggiamento e la sua pretesa? Tommaso va in una direzione sbagliata oppure la sua richiesta è legittima? In quanto membro del ristretto collegio apostolico non può vantare il diritto della «visione» del Risorto, secondo la promessa fatta da Gesù a tutti loro: «...Voi mi vedrete» (14,19)?
La seconda apparizione con Tommaso (20,26-29)
Otto giorni dopo, cioè la domenica seguente, i discepoli si riuniscono. Il narratore sottolinea la presenza di Tommaso nella comunità, condizione indispensabile per incontrare il Risorto. Il discepolo reticente si mostra ora più disponibile al confronto fraterno.
Gesù «viene» nuovamente, a «porte chiuse»,sorprendendo tutti con un’altra visita! Egli si mostra ai suoi discepoli, ma la sua attenzione è tutta per Tommaso. Dopo il saluto della pace si rivolge al discepolo che ha dubitato, negli stessi termini da lui usati, rivelando di avere una profonda conoscenza di quanto ha nel cuore. Il testo greco suona letteralmente così:
Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; cessa di mostrarti non credente (ápistos) e diventa credente (pistós)! (20,27)
È un tratto caratteristico del Gesù giovanneo questo suo conoscere i cuori[4] (cf. 1,48). Gesù si manifesta nella sua identità di crocifisso risorto, ma invita Tommaso a un cambiamento radicale: passare dalla «visione sensibile» alla «visione di fede» in lui. Gli riconosce il diritto di «vederlo» e accondiscende perfino alla sua pretesa di «toccarlo», perché appartiene al gruppo dei «Dodici», ma disapprova il suo rifiuto a credere alla Parola dei testimoni legittimi. Il gruppo apostolico è pienamente accreditato in ordine alla testimonianza del Risorto perché lui stesso aveva previsto la forma di trasmissione dell’annuncio nei termini di una «testimonianza» dei discepoli (cf. 15,26-27; 17,20-21).
Perché dunque Tommaso non ha ricordato la sua Parola? L’errore di Tommaso sta nell’esaltare il vedere fisicamente e il toccare a scapito della credibilità attraverso l’annuncio della Parola dei suoi compagni! Avrebbe invece potuto e dovuto incominciare a «credere» al kerygma pasquale, «senza vedere», così come «il discepolo che Gesù amava», «cominciò a credere» davanti al sepolcro vuoto, senza vedere (20,8).
«Mio Signore e mio Dio»
Tommaso, vedendo davanti a sé Gesù vivo, che mostra i segni della sua passione e morte, ma soprattutto sentendosi intimamente interpellato e conosciuto dalla sua Parola, prorompe improvvisamente nella confessione di fede più bella e più esplicita di tutto il Nuovo Testamento: «Mio Signore e mio Dio» (20,28).
La parola del Risorto, e non solo la visione, abbatte in un solo momento tutte le resistenze dell’apostolo. La sua fede è ora tutta rapita nella contemplazione del Signore Gesù. Il narratore, riportando con arte la reazione immediata di Tommaso, sembra indicare al lettore che l’apostolo non abbia fatto i gesti del toccare da lui stesso invocati. La sua confessione di fede è quella di un uomo trasformato dalla presenza e dalla Parola consolante del Signore Risorto; così era avvenuto anche per Maria di Magdala e per gli altri suoi compagni.
Egli riconosce Gesù come il «suo Signore» e il «suo Dio», lo proclama come colui al quale appartiene la pienezza della gloria, il solo, che rende vicino e accessibile l’unico e invisibile Dio (cf. 14,9). La professione di fede dell’apostolo che ha dubitato, diventa vertice insuperabile di tutte le professioni di fede sparse nel quarto Vangelo. Il narratore ha voluto inoltre stabilire, alla fine della sua opera, un rapporto stretto, ma anche una progressione, tra il solenne annuncio che apriva il Prologo: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (1,1) e questa proclamazione di fede di Tommaso.
Il Verbo incarnato, che è il Crocifisso risorto, è ora pienamente accolto e riconosciuto dall’apostolo nel suo mistero, attraverso un’esperienza di fede profondamente spirituale e intimamente personale («mio» Signore e «mio» Dio: cf. Sal 63,2), ma nello stesso tempo comunitaria ed ecclesiale. Questa è la fede pasquale che è richiesta ai lettori del Vangelo e a tutti i credenti nel Signore Gesù!
«Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!»
La beatitudine finale pronunciata dal Risorto all’apostolo, che proclama beati coloro che crederanno in lui senza vederlo fisicamente, orienta verso il futuro della Chiesa e sottolinea l’importanza di accogliere il keygma pasquale per incontrare il Risorto nella fede. Per tutti i credenti è ora possibile «vedere spiritualmente» il Risorto nel suo mistero, appoggiandosi al «vedere»dei primi discepoli-testimoni.
Tommaso avrebbe dovuto comprendere questa profonda verità! Gesù assicura che i credenti del futuro non si troveranno in situazione d’inferiorità rispetto ai primi testimoni della risurrezione.
Attraverso i «segni» scritti...
L’epilogo del Vangelo (20,30-31)[5], che chiude anche il capitolo delle apparizioni pasquali, esplicita e amplia ulteriormente il significato di questa beatitudine. I «segni» (seméia) delle apparizioni pasquali del Risorto a Maria di Magdala, agli apostoli e a Tommaso, insieme a tutti gli altri «segni» che Gesù ha compiuto e che sono stati scritti nel Vangelo di Giovanni, sono più che sufficienti perché si arrivi a «credere» che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo in lui, sia abbia la vita nel suo nome.
Lo scritto giovanneo è perciò tramite fra coloro che hanno visto e coloro che crederanno senza avere visto. I destinatari del Vangelo non sono in una condizione sfavorita rispetto ai contemporanei di Gesù. Se, da una parte, essi certamente ricevono meno dei testimoni oculari, non vedendo direttamente tutto quello che Gesù ha fatto, dall’altra, accedono ugualmente e in pienezza al mistero cristologico attraverso il libro del Vangelo, che è memoria «storico-pneumatica» degli eventi rivelatori.
I «segni» restano per sempre visibili, non più direttamente, ma attraverso la loro attestazione e memorizzazione scritta[6] . Dunque solo inseriti nella comunità ecclesiale, credendo alla testimonianza apostolica, e accogliendo con l’intelligenza della fede la parola del Vangelo, è possibile, come avvenne per i discepoli di Gesù, «vedere», «contemplare», «incontrare»,personalmente il Cristo della gloria, l’unico autentico rivelatore del Padre.
[1] Sul ruolo dello Spirito nel Vangelo di Giovanni cf. D. Mollat, Giovanni maestro spirituale, Borla, Roma 1980, 53-58.
[2] Il verbo «vedere» in greco, al tempo perfetto, esprime in Giovanni la pienezza della fede pasquale. Cf. I. de la Potterie, «Genesi della fede pasquale secondo Gv 20», in Id., Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova 1992, 191-214.
[3] Per l’analisi narrativa dei passi riferiti nel quarto Vangelo a Tommaso cf. R. Vignolo, Personaggi del quarto Vangelo. Figure della fede in S. Giovanni, Glossa, Milano 1994.
[4] Numerosi sono i passi del quarto Vangelo in cui viene sottolineato, che Gesù conosce in profondità i cuori: Cf. 1,48; 2,24-25; 4,16-18.29.39; 6,64.71; 10,14.27; 20,16; 21,15-17.
[5] Su questi versetti teologicamente molto importanti, perché sono una chiave di lettura che introduce a tutto il Vangelo, rimandiamo all’ottimo contributo di D. Scaiola, «La finale di Giovanni (Gv 20,30-31)» in Parola Spirito e Vita 43 (2001) 163-172.
[6] Ibid ., 165.
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