Tracce delle lezioni 11 – 12
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Gv 9,1-42 – Il risveglio di Lazzaro:
L’amico di Gesù «Vita del mondo»
Bibliografia utile:
Oltre ai commentari (Brown, Schnackenburg, Fabris, ecc.), riferirsi a:
Yves Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB, Bologna, 2000.
Alain Marchadour, «Lazzaro, Marta e Maria, la famiglia che Gesù amava», in: I personaggi del Vangelo di Giovanni. Specchio per una cristologia narrativa, EDB, Bologna 2007, pp. 97-108.
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1. Il segno della Vita che non morirà mai – Gesù e Lazzaro
Dopo i diversi tentativi da parte delle autorità di Gerusalemme di far scomparire Gesù, in seguito alla dichiarazione solenne nell’ultimo giorno della festa delle Capanne in 7,44 e più avanti in seguito all’autoproclamazione in 8,58 e 10,30.38, l’episodio di Lazzaro costituisce il momento (e il pretesto) decisivo per l’eliminazione di Gesù. Per questa ragione il racconto, posto narrativamente subito prima dell’unzione a Betania, con essa precede e apre la sezione che inizia al c. 13 e che gli studiosi sono soliti indicare come «libro dell’ora» della passione e risurrezione di Cristo. L’ultimo «segno» si pone all’attenzione del lettore come un evento che viene operato con un intento preciso che rimanda a un insegnamento di fondamentale importanza: Gesù, Il Logos incarnato, ha la vita perché è la vita.
1.1. Ambientazione: «al di là del Giordano» (10,40–11,16)
Minacciato di morte, Gesù lascia Gerusalemme per recarsi al di là del Giordano, dove Giovanni Battista aveva battezzato. L’evangelista ci rimanda così indietro agli inizi del ministero di Gesù e al ministero del Battista, e in particolare – tramite una simile fraseologia – a 1,28, dove il Battista afferma la superiorità di Gesù e fa la sua professione di fede in lui come Figlio di Dio. In 10,40-41 l’Autore colloca in questo luogo una folla che, vedendo Gesù, riconosce la testimonianza del Battista come veritiera e la riafferma: «E in quel luogo molti credettero in lui». È evidente la differenza con quanto accade a Gerusalemme, il luogo dell’incredulità accentuata.
«Al di là del Giordano» Gesù riceve la notizia della malattia di Lazzaro, definito con un’espressione forte del v. 3: «colui che tu ami». I verbi con cui Giovanni esprime il sentimento che lega Gesù a Lazzaro, Marta e Maria, sono ripetuti tre volte nel brano (vv. 3.5.36). Si ha così l’idea della profondità di questo legame affettivo, un dettaglio importante che spiega la portata dell’intervento successivo di Gesù. In 12,3 Maria farà da protagonista dell’unzione di Betania, episodio di inclusione con l’inizio del nostro brano e che ne rappresenta la continuazione e la conclusione. Il gesto di Maria in quell’occasione sarà letto da Gesù come un segno della sua unzione funebre così come, di fatto, vi sono dei richiami significativi al racconto della morte e risurrezione di Gesù (cc. 19–20). L’annotazione relativa a Maria, con la quale Giovanni richiama un episodio di cui riferirà i particolari nel successivo e. 12, posta all’inizio del racconto su Lazzaro lo inquadra nella prospettiva della morte di Gesù e lo lega a questa in un modo che il racconto svelerà progressivamente.
La risposta di Gesù alla notizia sulla malattia grave di Lazzaro ci ricollega a un’altra situazione simile: in Gv 9,1-5 la cecità del cieco nato, sulla quale si discute se sia o no segno di peccato, offre a Gesù la stessa occasione per dimostrare che essa è in realtà per la gloria di Dio. Allo stesso modo anche la malattia di Lazzaro. Tuttavia, qui al v. 4 il testo sembra indicare che la morte non sarà l’epilogo della malattia («Questa malattia non è per la morte...»). Se seguiamo il testo su questo livello potremmo spiegare l’atteggiamento temporeggiatore di Gesù col fatto che non si muove da lì perché conosce l’esito positivo finale della malattia. In realtà, secondo lo stile tipico di Giovanni di svelare progressivamente più livelli di comprensione delle parole di Gesù, si vedrà che la morte non va intesa solo in senso fisico e che Gesù interviene su un altro tipo di morte. Ma il passaggio da un livello più superficiale a uno più profondo è un salto necessario per capire fino in fondo il suo dono, la sua identità, il suo «peso», cioè la sua «gloria».
A dispetto dei tentativi di lapidazione di cui era stato fatto oggetto a Gerusalemme, Gesù decide repentinamente di tornare in Giudea. Il paese di Betania dove abita Lazzaro, come esplicita il testo al v. 18, si trova a 15 stadi (circa tre kilometri) da Gerusalemme, pericolosamente vicina. Ma all’obiezione dei discepoli Gesù risponde con un’espressione che si comprende solo se letta ancora una volta in parallelo con l’episodio del cieco nato (9,5): come in quell’occasione, anche qui le ore del giorno rappresentano il tempo in cui Gesù, ancora vivo, non può non operare nel mondo per portarvi la salvezza. Per questo, ma soprattutto, da quanto Giovanni sottolinea nel c. 11, per l’amore che lo lega al suo amico, egli decide di incamminarsi verso Gerusalemme rischiando la vita per donarla.
Le parole con cui Gesù motiva la sua partenza al v. 11 sono ancora una volta parole che si prestano all’equivoco e che necessitano di una comprensione spinta a un livello superiore a quello letterale. I discepoli inciampano in questo equivoco e ciò offre a Gesù lo spunto per spiegare chiaramente a cosa egli si riferisce. Egli non si sta riferendo al «dormire del sonno», ma alla morte. Questo particolare mette in chiaro che Lazzaro non si trova nella situazione di chi dorme, ma nella situazione di uno che, essendo veramente morto, può essere salvato solo da un intervento divino. Il risveglio che Gesù vuole operare, infatti, sarà proprio ciò che consentirà ai discepoli di credere in lui come a colui che dà la vita. In questa prospettiva la gioia di suscitare nei discepoli una fede nuova supera la pena per la morte dell’amico e Gesù, arrivato al momento di attuare il segno, si muove sollecitamente verso Lazzaro, che ormai è morto. Il lettore si trova sconcertato nel vedere un simile atteggiamento in Gesù, passivo nel momento del bisogno e sollecito quando ormai il peggio è accaduto e non serve più il suo intervento. Colpisce soprattutto che Gesù si rivolga ancora a Lazzaro considerandolo come un soggetto vivente: «È morto [...] andiamo da lui!».
Da questo necessario preambolo dei vv. 1-16 si evincono almeno due motivazioni all’agire di Gesù, essenziali per comprendere il seguito del racconto: il segno è l’occasione per suscitare la fede nella sua persona ed è la naturale conseguenza del suo agire per amore dell’amico a rischio della vita. In questa ottica si comprende meglio l’atteggiamento apparentemente paradossale di Gesù, che ha aspettato che si consumasse fino in fondo la morte di Lazzaro per intervenire e ha gioito intimamente per il beneficio che i suoi discepoli avrebbero tratto dalla sua lontananza.
Il salto verso una più profonda qualità di fede nella sua persona è l’obiettivo che Gesù persegue anche nei confronti delle due sorelle, Marta e Maria, anch’esse oggetto del suo amore (cf. v. 5). Come testimoni del segno insieme ai discepoli e ai giudei che erano andati a fare il lamento insieme a loro, esse sono rappresentate nel loro atteggiamento nei confronti del Signore. Giovanni si sofferma sulla loro fede prima del miracolo, mentre non si preoccupa di riferire la loro reazione dopo il prodigio.
1.2. Gesù a Betania (11,17-44)
A Betania Gesù trova Lazzaro sepolto da quattro giorni, tanti giudei amici e conoscenti, Marta e Maria. Marta gli va incontro mentre Maria resta in casa insieme agli ospiti. Forse Giovanni si sofferma su questo particolare riguardante Maria anche per sottendere un atteggiamento diverso, più attivo l’uno e più «di attesa» l’altro. Mentre infatti Marta va personalmente incontro a Gesù, Maria aspetta che sia lui stesso a chiamarla. Si tratta di due atteggiamenti diversi davanti all’evento sconvolgente, che però non pregiudicano il contatto con Gesù. Sembra, anzi, che egli capisca che dietro il silenzio di Maria è nascosta una protesta. L’incontro da lui voluto ha anche lo scopo di farla emergere.
La prima frase che Marta e Maria pronunciano è la stessa, la più spontanea in quel frangente: «Signore, se tu fossi stato qui...» (vv. 21.32). Questa frase è una protesta scaturita dalla fede, una fede nata da una non superficiale conoscenza del Signore (di Maria, Giovanni dice che «appena lo vide cadde ai suoi piedi dicendo: Signore...», una fraseologia e un uso dei termini tipico delle confessioni di fede, simile a quella del cieco guarito in 9,38) e del suo potere di fare miracoli con la forza della sua parola. Maria crede fermamente nel potere salvifico di Gesù, ma concepisce questo potere come la capacità, già di per sé inaudita, di risparmiare dalla morte. Anche in Marta abita questo tipo di fede, una fede genuina, scevra da ogni concezione magica e miracolistica, come mostra la fiducia nell’intimità che Gesù ha con Dio («Anche adesso so che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà», v. 22). Giovanni ci mette davanti un modello di fede profonda, ma che necessita ancora di un salto, un salto che è possibile fare solo insieme a Dio stesso, per sua iniziativa e con la sua spinta, ma che deve superare la soglia della consumazione di morte.
È questa spinta che Gesù è venuto ad offrire. Secondo il modo tipico di Giovanni di trasmettere un insegnamento di Gesù, egli fa iniziare il dialogo con un’affermazione che può essere spiegata in più modi («Tuo fratello risusciterà», v. 23) e che solo nel corso del confronto emerge in tutta la sua profondità di significato. Marta risponde a questa prima affermazione di Gesù con tutta la mesta rassegnazione di chi vede deluse le sue ultime aspettative e le proietta in un futuro che le sfugge, ma proprio davanti alla coscienza dell’inevitabile contro cui vanno a scontrarsi tutte le speranze umane, davanti al verdetto supremo dell’impotenza umana che è la morte, Gesù afferma, nella sua persona, la sconvolgente, inaudita vicinanza dell’opportunità della vita, qui e adesso:
Io sono la risurrezione e la vita.
Chi crede in me, anche se muore, vivrà;
e chiunque vive e crede in me, non morirà mai (11,25-26).
Questa è l’opportunità che Gesù offre non solo a Lazzaro, non solo a Marta, Maria e ai giudei, ma a ogni credente di ogni tempo. La sua salvezza non solo può risparmiare dalla morte, ma può restituire la vita anche quando la morte è un evento già consumato. La sola discriminante è credere che nella sua persona questa possibilità è presente e reale. In chi crede così, la vita è già eterna e la morte fisica non è altro che un passaggio verso un modo diverso di continuare a vivere. Marta che risponde con la professione di fede, rimanda ai credenti di cui Giovanni parla alla fine del suo Vangelo e in cui i «segni» operati da Gesù hanno raggiunto lo scopo per cui sono stati fatti:
Questi (segni) sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo,
il Figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,31).
Si può forse dedurre che anche lo stesso Lazzaro morto, in quanto credente come lei e come tutta la famiglia, abbia già in sé la vita nel senso inteso da Gesù, ma il segno operato su di lui ha lo scopo di manifestare qual è la prospettiva di Gesù e di chi crede in lui. Ai vv. 11-13 è detto che Lazzaro dorme, ma in realtà è morto. Il segno di Gesù, però, manifesta che il Lazzaro morto davvero non è morto, ma dorme.
Vista così, la rianimazione fisica del corpo, quello di Lazzaro, che tornerà, un giorno, a morire, relativizza la componente di «risveglio» nell’evento. Questo risveglio non è che un «segno», dato per rimandare a una realtà molto più sconvolgente: al dono della certezza della vita eterna, della presenza vivificante di Dio che ama senza mai cessare di donare la vita. Dio non smette mai di dare la vita, neanche dopo la morte: questa certezza è il solo dono tanto alto da giustificare l’attesa di Gesù che Lazzaro morisse, che fosse sepolto, che una pietra sigillasse il suo sepolcro e che addirittura iniziasse il suo processo di decomposizione.
Si tratta però di una prospettiva che non possiedono ancora i personaggi del racconto, né i lettori, perché la narrazione continua a tenerci in sospeso. Tutta l’attenzione è ora concentrata su Gesù. Al vedere Gesù, Maria ripete lo stesso sottile rimprovero che gli ha rivolto Marta. Ma il pianto di lei sostituisce la forte affermazione di affidamento della sorella. Davanti a questo pianto e a questo dolore al quale non sono più rimaste parole, Gesù «freme» e si «turba» (v. 33). Il primo verbo è piuttosto raro nel Nuovo Testamento, e ha il senso di «ammonire, rimproverare, intimare» (così in Mt 9,30; Mc 1,43 e 14,15). In due casi (Mc 1,44 e Mt 9,30) essi sono pronunciati da Gesù dopo un miracolo come raccomandazione di non dire niente a nessuno. Nel caso di Mc 14,5, il racconto marciano dell’unzione di Betania, il verbo embriaomai esprime il rimprovero fatto da alcuni alla donna che rompe il vasetto di unguento spargendolo sul capo di Gesù. Per comprendere il senso dell’espressione che troviamo qui in 11,33 dobbiamo considerare che essa è accompagnata dal carattere interiore della reazione di Gesù («Nello spirito»). Probabilmente si tratta di un rimprovero trattenuto, provocato dall’atteggiamento di chiusura e di incomprensione da parte di chi assiste in quel momento. Questa interpretazione è rafforzata dalla presenza del secondo verbo, che esprime un fastidioso disagio, e ancor di più dalle parole in seguito espresse dai giudei i quali riconoscono il grande amore di Gesù per l’amico dal suo pianto («Guarda come l’amava», v. 36) ma si indignano per il mancato ricorso da parte di Gesù alle sue facoltà per risparmiargli la morte (v. 37). Questo atteggiamento provoca in lui un nuovo moto di frustrazione (v. 38) che però egli tiene per sé, forte della certezza del dono che sta per manifestare ai testimoni.
1.3. Reazioni all’ultimo segno (11,45-46)
Ci soffermiamo, concludendo, sulle reazioni provocate dal segno di Gesù. Va ricordato che esse sono quelle degli abitanti del luogo, cioè di Betania, la città pericolosamente vicina a Gerusalemme, che è il luogo dove si consuma il mistero dell’incredulità in Gesù. Si tratta delle reazioni dei giudei accorsi a consolare le due sorelle. La prima è una chiara reazione di fede: «Molti giudei [...] che avevano visto [...] credettero in lui».
Il verbo che Giovanni usa qui per indicare come i giudei videro il segno è il verbo theorein, un verbo che in Giovanni esprime una conoscenza piuttosto che la mera visione in senso fisico[1]. Il ricorso a questo verbo fa capire che la fede di queste persone non è superficiale, ma che si tratta di un’adesione a Gesù provocata da un evento che loro hanno colto nella sua natura di «segno», di rimando ad altro. Il testo però riferisce di un altro gruppo composto da coloro che hanno riferito il fatto ai farisei. Non è chiaro se questi siano non credenti o piuttosto alcuni di quelli che avevano creduto e che sono semplicemente andati a riferire l’accaduto[2]. In ogni caso, è chiara la divisione tra i giudei che credettero e i capi religiosi che pur davanti all’evidenza dei segni ne colgono solo il potenziale pericolo e decidono di far morire Gesù. In ambedue i casi, si tratta di reazioni ormai definitive. Non c’è più spazio per l’indecisione, la diffidenza o la fede imperfetta, ora che il segno è stato posto. Esso manifesta ormai le intenzioni reali e le disposizioni dei cuori.
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (15,12). Così Gesù riassumerà la natura dell’unione tra lui e i suoi discepoli, descritta con l’immagine dell’intreccio vitale tra la vite e i tralci. Il segno della risurrezione di Lazzaro può trovare proprio in questa frase la sua didascalia, la sua spiegazione, il suo insegnamento. Si tratta dell’insegnamento trasmesso da un amore spinto fino al punto di esporsi alla morte, ma che si rivela in realtà la sola testimonianza credibile, la sola capace di provocare la resa salda e serena alla fede più difficile: quella di una nuova vita oltre la distruzione irrevocabile, quella nella risurrezione. Nella narrazione giovannea, è ormai aperta la strada all’«ora» dell’amore amicale di Gesù.
2. Conclusione del «Libro dei segni»: Gv 1–12
Dopo il Prologo innico che introduceva il tema del pleroma (pienezza) di Gesù, Logos incarnato, destinato a chiunque lo riceve nella fede (ri-generazione da Dio) come la stessa vita di Dio, luce per gli uomini, nel libro dei segni si vedeva crescere un dramma di scontro, abbozzato dapprima in termini apocalittici (luce / tenebre) e ora sviluppato al livello antropologico (accoglienza / rifiuto) e religioso (salvezza / autocondanna). Tramite vari sviluppi (segni, incontri, dialoghi, discorsi di rivelazione), Gesù si rivelava progressivamente come la «grazia della verità» che superava la legge di Mosè e introduceva nella nuova comunità (ovile) dei «figli di Dio», definiti dall’amore di Dio e dal nuovo culto «nello spirito e nella verità».
Per cogliere meglio questo progresso dell’autorivelazione (drammatica) del Logos in Gesù, l’evangelista ci offre due riassunti che si possono mettere in parallelo di particolare chiarezza.
2.1. Gv 3 - Dio ha tanto amato il mondo
16 Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. 17 Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18 Chi crede in lui non viene condannato; chi non crede in lui è già condannato, perché non ha creduto nel nome del Figlio Unigenito di Dio. 19 Ora il giudizio è questo: la luce venne nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Poiché: chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce, perché le sue opere non siano smascherate. 21 Colui invece che fa la verità viene alla luce, perché si riveli che le sue opere sono operate in Dio».
2.2. Gv 12 - l’ora di Gesù è vicina: sarà un’epifania dell’amore
31 Ora c’è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. 32 E quando io sarò innalzato da terra, attrarrò tutti a me». […] 35 Solo ancora un po’di tempo la luce è in mezzo a voi. Camminate finché avete la luce, affinché non vi sorprendano le tenebre. Chi cammina nelle tenebre non sa dove va. 36 Finché avete la luce, credete alla luce, affinché diventiate figli della luce. 37 Per quanto Gesù avesse compiuto così grandi segni davanti a loro, non credevano in lui, […] 42 Pur tuttavia anche fra i capi molti credettero in lui, ma non lo professavano pubblicamente a causa dei farisei, per non venire espulsi dalla sinagoga. 43 Preferirono infatti la gloria degli uomini alla gloria di Dio. 44 Gesù proclamò ad alta voce: «Chi crede in me, non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato, 45 e colui che vede me, vede Colui che mi ha mandato. 46 Io, luce, sono venuto nel mondo affinché chi crede in me non rimanga nelle tenebre. 47 Se uno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno. Non sono venuto infatti per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48 Colui che mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica. La parola che ho pronunciato, quella lo giudicherà nell’ultimo giorno; 49 perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre stesso che mi ha mandato mi ha comandato ciò che dovevo dire e pronunciare. 50 E so che il suo comandamento è vita eterna. Ciò che dico, lo dico come il Padre me l’ha detto».
Tra questi due testi di importante parallelismo nella progressione della rivelazione della verità (Dio ama l’umanità e le offre la filiazione in Gesù di Nazaret) si racchiude un dramma teologico e antropologico della offerta e della risposta, del dono e della scelta. Rivediamone i punti cardinali:
Gesù: rivelare
A livello di vocabolario si possono elencare i numerosi titoli (oltre 30) che vengono attribuiti a Gesù, da quelli semplici come Maestro a quelli più messianici come Messia, Profeta, Re, a quelli specificamente di rivelazione come Figlio di Dio, Unigenito, Parola e, infine, a quelli di autorivelazione come l’uso assoluto Io sono o l’uso nominale Io sono la luce del mondo, il pane della vita, il buon pastore, la risurrezione e la vita. Tutti questi titoli sono paragonabili ad un prezioso codice cifrato che permette di arrivare alla persona di Gesù.
La pagina teologica più ricca e più istruttiva per conoscere Gesù è il Prologo (1,1-18), non a caso messo in apertura di tutta la storia di Gesù. Vale come una mappa di orientamento, che guida il lettore nelle pagine successive, una carta d’identità che presenta nei suoi tratti essenziali la persona e l’opera di Gesù. Se il prologo presenta Gesù nella sua relazione con gli uomini, tutto il Vangelo dimostra la reazione che questi ultimi hanno nei confronti della rivelazione.
Ne vengono atteggiamenti di grande accoglienza che diventerà sequela e vita, come pure ostinati rifiuti che diventeranno il peccato e l’abbandono. Possiamo dire che l’atto divino di rivelare è, al contempo, segno di grande amore e serio invito ad assumere le proprie responsabilità. L’uomo è amato nel suo intimo e trattato con profondo rispetto. La rivelazione nella persona di Gesù, Dio fatto uomo, nobilita al massimo la natura umana, chiamata a «deificarsi» (cfr. 10,33-38).
L’umanità: Accogliere
Il tema di accoglienza di Cristo e quindi la possibilità di accedere alla vita è affidata a personaggi diversi. Ne abbiamo potuti vedere alcuni, che hanno avuto il merito di rappresentare tutta l’umanità con le sue situazioni più disparate: Nicodemo, la Samaritana, il funzionario regio, il cieco nato, la casa degli amici di Betania. Nicodemo (3,1-21) rappresentava il giudaismo ufficiale, ortodosso. Uomo di rango, apparteneva al gruppo di coloro che posseggono, conoscono e praticano la Torà. Il suo recarsi da Gesù tradiva un’interiore insoddisfazione: la Torà non basta più, non riempie definitivamente una vita. Nello stesso tempo c’è perplessità nel lasciare il noto per l’ignoto. Per questo si è recato da Gesù di notte. Gesù gli parlava della nuova nascita, intesa come aprirsi ad una realtà finora sconosciuta. L’acqua designava già il battesimo – l’inserimento nel Cristo morto e risorto e lo Spirito indicava il principio divino che permette la nuova vita.
La Samaritana (4,1-42) rappresentava il giudaismo eterodosso, eretico. Ella faceva parte del gruppo degli emarginati, dei disprezzati, dei «non puri». Indipendentemente dal suo gruppo di appartenenza, la sua vita non brillava per impegno ed onestà. Tuttavia la donna si è riabilitata a contatto con Cristo, si è lasciata entusiasmare dai nuovi orizzonti aperti da lui, si è incamminata decisa verso una strada di novità. L’evangelista ci ha mostrato il suo cammino spirituale attraverso i titoli che ella dava a Gesù. I Padri della Chiesa hanno circondato questa donna di ottima reputazione considerandola un modello di catecumena, una buona propagatrice della fede. Per inciso, bisognerebbe ricordarsi qui anche del funzionario regio (4,46-53), rappresentante del mondo dei pagani, di coloro che non hanno avuto un’educazione religiosa. Eppure, in un momento di bisogno, egli si è recato da Gesù, ha presentato la sua richiesta e ha aderito incondizionatamente alla parola del Maestro: «Quell’uomo, credette alla parola che gli aveva detto Gesù» (v. 50).
Ugualmente, la fede convinta del cieco nato (secondo la convinzione popolare tutto immerso nei peccati), che riconosce il «Figlio dell’uomo» escatologico in Gesù, suo guaritore, porta il nuovo “vedente” a difendere Gesù senza paura e a seguirlo, senza rimpiangere la sua espulsione dalla sinagoga, nel nuovo ovile di cui la meta sarà non più il sacro «recinto» del giudaismo ma il seno del Padre e di cui la «porta» unica è soltanto il Figlio «rivolto verso» il Padre. Lazzaro, con la sua morte, permette a Gesù di manifestarsi non solo come un guaritore di una vita minacciata o deficitaria, ma come colui che ha la vita in sé e la può donare a chi vuole, secondo il disegno del Padre. In questa situazione, l’esempio lucidissimo di Marta è di speciale importanza: ella, senza passaggi di verifica (tipici di Nicodemo), raggiunge un apice di fede “immediata”, nel contesto di amicizia e di amore, ma trascendente anche questi verso le aperture di eternità, oltre il «cattivo odore» della scomposizione di tutte le cose.
Così la fede (sempre più timbrata dall’amore – Gesù si espone alla morte per risvegliare l’amico Lazzaro) è diventata l’esatta modalità con cui accogliere l’incarnazione del Verbo con la sua verità (rivelazione) per poter essere «generati da Dio». Per questo il verbo «credere» è così frequente in Giovanni: 98 volte. Esso rimpiazza il sostantivo «fede», che non compare mai ( essendo di valore troppo astratto) e, nella sua verbale, indica l’adesione della persona a Gesù. Giovanni lo usa, in greco, in un modo tipico (cfr. 3,16: pistéuein eis = credere verso) che indica il movimento verso la persona. È un verbo di accoglienza che diventa un verbo di vita.
Il peccato e il giudizio: rifiutare
Il tema del rifiuto si profila fin dall’inizio, nel prologo stesso (1,5.11), e prende nomi diversi che sintetizziamo nel concetto complessivo di peccato. Esso corrisponde sempre alla parte negativa delle antitesi, tanto care al vocabolario giovanneo: luce / tenebre, verità / menzogna, vita / morte, credere / non credere, essere dall’alto / essere dal basso, amore / odio, figlio di Dio / figlio del demonio...
In Giovanni il rapporto fra Gesù e il peccato è sempre di radicale opposizione, anche se la missione salvifica di Cristo, dall’inizio alla fine del vangelo, è quella di liberare l’uomo dal peccato. Egli è venuto come «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (1,29) e questa missione, dopo la sua risurrezione, è affidata ai discepoli: «A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi» (20,23). Gesù sa che l’umanità intera ha bisogno di salvezza, per questo la sua attività è tutta rivolta all’uomo privo di vita. Egli con i suoi gesti trasforma le situazioni umane, rinnova il peccatore dall’interno con la forza della sua amicizia e del suo Spirito. Non sempre l’uomo si dimostra sensibile a tanto amore e preferisce rimanere nel peccato. Il IV vangelo usa con abbondanza il termine peccato al singolare (25 volte), quasi a ricordare che al di là delle singole trasgressioni si trova una potenza misteriosa e ostile a Dio. Questa realtà è ciò che l’uomo deve evitare, se vuole progredire nel suo cammino di fede ed essere vero discepolo di Gesù. Il peccato, infatti, riassume ogni forma di rigetto di Gesù e sottopone il peccatore al potere di Satana, facendolo suo schiavo: «Gesù rispose: in verità in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (8,34). Se vogliamo ricercare la radice del peccato, ci incontriamo con il rifiuto di Cristo, un tema che attraversa tutto il vangelo: «...la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito (letteralmente: “hanno amato”) le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (3,19; cfr. 1,5; 8,12).
Il peccato giovanneo è il rifiuto volontario della luce che l’uomo peccatore vuole eliminare, perché non vengano svelate le sue azioni cattive. Il rifiuto finisce per diventare un accecamento volontario e amato che trova la sua origine nel legame con Satana, menzognero e omicida. I peccatori, perciò, a lui asserviti, diventano «figli del diavolo» e praticano le sue opere (cfr. lGv 3,8). Questi seguaci rifiutano la parola di Cristo, manifestano il loro vuoto interiore, l’assenza di ogni verità, un odio ostinato verso Gesù e suo Padre (15,22-23) che li spingerà a crocifiggere colui che è Figlio di Dio e autore della vita.
Per non cedere alla tentazione del rifiuto e per non essere schiavi del peccato, i discepoli devono restare uniti a Cristo e lasciare che la sua parola, come un seme divino, operi nella loro vita: «Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio» (l Gv 3,9). Non si vuole dire che i discepoli siano perfetti a tal punto da non sbagliare mai; anche loro commettono delle trasgressioni, dei peccati, che però sono perdonabili (cfr. l Gv 1,9), perché non comportano un’ostinazione del male che equivalga ad un rifiuto di Cristo. Se essi sono resi impeccabili, lo devono al grande amore di Dio, così come lo hanno sperimentato nel Gesù di Nazaret. L’amore divino finisce per essere la forza che attraversa la loro vita, proprio come attraversa quella di ogni uomo[3].
[1] Cf., ad esempio, i testi di Gv 12,14 e 12,45, in cui indica il «vedere» il Padre in Gesù; 14,17, in cui esprime il «vedere» lo Spirito di verità; 14,19, dove i discepoli potranno «vedere» Gesù dopo la sua morte.
[2] La formulazione della frase è letteralmente questa: «Molti dei giudei che [...] avevano visto [...] credettero; ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono [...]».
[3] Cf. lo studio di C. Spicq, L’amour de Dieu révélé aux hommes dans les écrits de saint Jean, Édition Du Feu Nouveau, Paris 1978.
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