G. Ravasi. La voce che risuscita i morti

La pietà popolare riserva questo mese alla memoria dei defunti. Noi vorremmo evocare il tema della morte dall’angolo di visuale cristiano attraverso una pagina giovannea di straordinaria potenza narrativa e teologica, quella che descrive la risurrezione di Lazzaro (capitolo 11).
Non vogliamo né possiamo esaurire la densità di quei versetti che al centro hanno un grandioso “segno” (così Giovanni chiama i sette miracoli di Gesù da lui descritti).
In sintesi, potremmo collegare a questo racconto ambientato nel paese dell’amico di Cristo, Betania, una frase pronunziata tempo prima da Gesù a Gerusalemme: «I morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata vivranno» (5,25).

Infatti, al suono imperioso della voce di Cristo, «Lazzaro, vieni fuori!», l’amico esce dalla tomba rupestre «coi piedi e le mani avvolti in bende e il viso coperto da un sudano».
È un duplice “segno” pasquale: si fa balenare la futura e gloriosa Pasqua di Cristo, ma si delinea anche la futura e gloriosa risurrezione del cristiano che ha creduto nelle parole che Gesù in quel giorno di dolore e di lacrime aveva rivolto a Marta, una delle due sorelle del defunto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (11,25-26).

Noi vorremmo ora dare solo uno sguardo al misterioso fascino che ha esercitato questo racconto giovanneo nei secoli. Nel 1985 uno studioso austriaco, Jacob Kremer, ha pubblicato a Stoccarda un volume, Lazarus, in cui cercava di inseguire in tutto l’arco della letteratura, dell’arte, della musica, della teologia e della tradizione popolare la presenza di Lazzaro.

La lista sarebbe sterminata perché andrebbe dalle catacombe di San Caffisto a Roma fino a Giotto, Rubens, Rembrandt, tanto per fare qualche nome dipittori; da Bossuet a Hugo, Tennyson, Dostoevskij, Wilde, Yeats, Dùrrenmatt, Malraux, Morris West e così via per decine e decine di scrittori; per non parlare dell’oratorio musicale Risurrezione di Lazzaro di Schubert (1820).

Ci fermeremo brevemente solo su un poco noto dramma di Pirandello, Lazzaro, scritto attorno al 1930. Protagonista è Diego Spina, un fanatico religioso che muore clinicamente per alcune ore, ma poi ritorna in vita. Con una differenza radicale: egli ora sospetta che oltre quella frontiera ultima non ci sia nulla.

Il messaggio di Spina diventa, allora, quello di una fede assoluta e cieca: «Tu devi credere e non sapere». Tuttavia, nello svolgimento del dramma è presente un personaggio vestito come Cristo, testimone muto del mistero in cui si dibatte l’uomo, implicito rimando a un "oltre" offerto al credente.

Questa parabola pirandelliana riflette le riserve e le attese dello scrittore siciliano, ma forse potrebbe stimolarci a comprendere quel miracolo evangelico.
Esso ha, sì, un’incidenza concreta nella storia di un uomo, di una famiglia e di un villaggio.
Ma vuole condurci oltre ciò che incarna: c’è una vita trascendente che non è quella riacquistata da Lazzaro (vita destinata ancora a finire), ma una “vita eterna”, cioè divina, che è offerta a chi crede in Cristo e di cui la vita rinnovata di Lazzaro è solo un “segno”.

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