Francesco Lambiasi. Quando Dio piange e grida

Io sono la resurrezione e la vita

1. Ci sono due particolari nella sacra pagina appena proclamata, che meritano di essere sottolineati... a pennarello. Tanto più che si trovano in un brano, come questo, che non si potrebbe assolutamente tagliare senza scucire completamente la trama del quarto vangelo. Infatti questa pagina riporta il miracolo - o meglio il "segno", secondo il linguaggio ispirato dell'autore - più portentoso di tutto il libro di Giovanni - è infatti l'ultimo, e precisamente il settimo! - ed è un racconto che fa da cerniera: chiude la prima parte, il libro dei segni, e apre la seconda, il libro dell'ora.
Nessuno dei racconti precedenti occupa tanto spazio: ben 54 versetti, rispetto ai 12 del primo segno, Cana, e ai 41 del penultimo, il cieco nato. E, soprattutto, l'evento della risurrezione di Lazzaro determina tutto il seguito della vicenda di Gesù, perché "da quel giorno decisero di ucciderlo" (Gv 11, 53).
Quando il brano evangelico è, come questo, così noto da poterlo ripetere quasi a memoria, è inevitabile che i dettagli si sbiadiscano, mentre dovrebbero meritare maggiore attenzione.
Il primo particolare si trova al v. 35: "Gesù scoppiò in pianto". Questo è l'unico versetto in tutto il quarto vangelo in cui si parla di "pianto" di Gesù; per ritrovare un'espressione simile, dobbiamo andare a Luca 19,41, dove è scritto che Gesù, alla vista di Gerusalemme, "pianse su di essa", ma letteralmente dovremmo tradurre; "fece lamento": la sua è infatti la lamentazione profetica del Messia sulla città impenitente che non ha voluto "conoscere ciò che giova alla sua pace". Nel brano di Lazzaro invece si dovrebbe rendere il pianto di Gesù con l'espressione: "versò lacrime", ossia "pianse a dirotto".
Mentre gli astanti piangono con clamore, Gesù lacrima. Sono lacrime miste d'amore e rabbia: amore, questa è infatti la conclusione che ne tirano i presenti: "Vedi come gli voleva bene!". E rabbia, perché per due volte (vv. 33 e 38) si usa il verbo che esprime la collera: "fremette", che letteralmente significa "sbuffare, ansare". Gesù freme dentro quando si trova davanti l'ultimo nemico, la morte: è venuto proprio per "liberare quelli che per paura della morte erano tenuti in schiavitù (dal diavolo) per tutta la vita" (Eb 2,15). Quel fremito rivela un profondo turbamento (v. 33: "si turbò"). "Il nostro male lo turba profondamente, più che se fosse suo; lo sconvolgerà fino a morirne" (Fausti).
Il pianto di Gesù esprime dunque la tarassìa, ben diversa dalla atarassìa degli stoici: "Se vedi qualcuno che piange di dolore per la partenza del figlio - ammoniva Epitteto - fa' in modo che l'impressione non ti travolga, e comunque, se capita, non esitare a piangere con lui: attento però a non piangere anche dentro di te" (Manuale, n. 16). L'uomo ideale secondo lo stoicismo è quello che non si lascia coinvolgere nel profondo dell'animo, e ha un perfetto controllo delle proprie emozioni al punto da non "sospirar di cuore" (trad. Leopardi). Tutto il contrario di Gesù che invece si lascia percuotere "nell'animo" (v. 33) dal dolore di Maria, sorella di Lazzaro, e non reagisce secondo le convenienze di rito, con gli spettacolosi lamenti orientali, ma "freme in se stesso": umanissimo Gesù!
"Le sue lacrime però non sono impotenza di dolore, ma potenza di amore: è il pianto di Dio per l'uomo che ama" (Fausti).

2. Possiamo così andare all'altro dettaglio, che rischia di sfuggire anch'esso, se ci limitiamo a una lettura del brano a colpo d'occhio: quando Gesù si trovò di fronte alla tomba, dove già da quattro giorni era rinchiuso il cadavere di Lazzaro ormai in corso di putrefazione, "gridò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori!". Quel verbo "gridò", dovrebbe essere meglio reso con "urlò": il verbo greco kraugazein ricorre solo otto volte in tutta la Bibbia greca, di cui sei in Giovanni; nei capp. 18-19 è usato quattro volte per le grida della folla di crocifiggere Gesù. "Si potrebbe quindi tracciare un contrasto tra il grido della folla che porta morte a Gesù e il grido di Gesù che porta vita a Lazzaro" (Brown).
Forse, per capire il senso profondo di questo "urlo" di Gesù, dovremmo confrontarlo con quello che dà il titolo al famoso quadro di Edvard Munch. Ma mentre Munch dà forma a tutta l'angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vorrebbe esplodere in un grido liberatorio, senza però riuscirci, il grido di Gesù dice piuttosto l'indignazione di Dio di fronte alla morte che continua spudoratamente a celebrare i suoi trionfi.
Umanissimo Gesù, talmente umano che più umano non si può, perché "umano così può essere solo Dio" (L. Boff), e dunque divinissimo Gesù: uomo come noi, piange di fronte alla morte dell'amico, ed insieme Dio per noi, grida a gran voce per sbaragliare l'ultimo nemico, la morte. Ecco come la liturgia ci offre la chiave di lettura per comprendere la lieta notizia di quel pianto e di quel grido: "vero uomo come noi, Gesù pianse l'amico Lazzaro; Dio e Signore della vita, lo richiamò dal sepolcro; oggi egli estende a tutta l'umanità la sua misericordia e con i suoi sacramenti ci fa passare dalla morte alla vita" (prefazio). "Veramente e perfettamente Dio, veramente e perfettamente uomo", proclamerà la Chiesa a Calcedonia (451 d.C.) con parole "dure come pietre, ma di quelle pietre da cui si cava il fuoco", scriveva D. Bonhoeffer.

3. Vero uomo come noi, vero Dio e Signore della vita, Gesù è veramente tale "per noi uomini e per la nostra salvezza": Salvatore è il suo nome. Ma come ci salva?
Innanzitutto con la sua incarnazione: è venuto in mezzo a noi per piangere con noi. Cantava Turoldo: "Ma tu non avevi lacrime / a noi invece era dato / piangere. / Questo forse ti sospinse fra noi?".
Inoltre ci salva con la sua passione: non scende dalla croce, non bypassa il buio, freddo tunnel della morte. Ci salva rinunciando a salvare se stesso, come ha fatto con Lazzaro: quell'urlo di fronte alla tomba dell'amico ha segnato l'ora della sua stessa morte. Per quell'ultimo grande miracolo egli ha messo consapevolmente e deliberatamente a repentaglio la sua giovane vita: "Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?", lo avevano messo in guardia i discepoli, ma il Maestro affronta in piena coscienza e libertà quel viaggio di ritorno in Giudea che gli sarà fatale.
In terzo luogo, Gesù ci salva con la sua risurrezione: lo Spirito lo ha reso datore di vita e capace di restare con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo. Tre eventi - incarnazione, passione, risurrezione - una sola salvezza, ottenuta attraverso il reciproco scambio tra Dio e l'uomo: "prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza; da te la sua morte, da sé la tua vita" (s. Agostino).

Da quel 14 di nisan dell'anno 30 d.C., ormai non possiamo più dire, quando il dolore ci attanaglia: "Signore, se tu fossi stato qui...". Perché ormai lui è sempre qui: non deve "venire", perché non se n'è mai andato e non ha mai smesso di restare qui - come aveva promesso - "tutti i giorni", non ha mai cessato di amarci, sta piangendo con noi, ha già cominciato a risuscitarci.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2007

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